Legge 30 marzo 2004 numero 92
Ricordo dell’esodo giuliano-dalmata e delle foibe: auspici e riflessioni nel ventennale dalla promulgazione (2024)

La Legge istitutiva del Ricordo di Esodo e Foibe e di una grande tragedia collettiva, vissuta dall’intero popolo giuliano, istriano e dalmata in una fase di sostanziale ostracismo politico, venne a colmare una lacuna che, ben prima della sua rilevanza giuridica, era un’offesa ai tradizionali valori etici e civili costituenti un patrimonio irrinunciabile della storia italiana, dal Risorgimento in poi. Ora, col 30 marzo 2024, quella Legge ha celebrato il ventennio dalla sua vigenza, confermando i valori e gli impegni che il legislatore del 2004 aveva finalmente promosso, e nello stesso tempo invitando alla riflessione, non esclusa quella sulle motivazioni di un silenzio oggettivamente troppo lungo, per convivere con i principi fondamentali della legge morale, e nello stesso tempo, di una politica d’interesse nazionale.

Nell’immediato dopoguerra, l’Italia democratica e repubblicana stava attraversando una congiuntura storica molto difficile, con enormi problemi di ricostruzione, finanziamento degli investimenti, recupero di un suo credibile ruolo internazionale, e prima ancora, con quelli di maggioranze parlamentari non certo coese. Tale congiuntura si protrasse a lungo, e con massime evidenze fino a quando i partiti dell’Estrema Sinistra fecero parte dell’Esecutivo, vale a dire fino alle elezioni del 18 aprile 1948 che videro un successo, tanto clamoroso quanto imprevedibile, della Democrazia Cristiana e dei suoi alleati laici (liberali, repubblicani e socialisti democratici).

I problemi indotti dal grande Esodo giuliano e dalmata, assieme alla conoscenza di un dramma come quello degli Italiani infoibati o diversamente massacrati dai partigiani jugoslavi, e dai loro collaborazionisti di fede comunista, non ebbero modo di proporsi adeguatamente alla comune attenzione, perché parte minoritaria, sia pure ragguardevole e moralmente prevalente, di una tragedia più vasta e dalle dimensioni davvero bibliche, considerando che la nuova Italia doveva ripartire da zero, ripristinando infrastrutture, attività produttive e patrimonio edilizio, ma prima ancora, la fiducia in un futuro migliore.

Bisogna dire che la Legge del 2004, dovuta soprattutto alla convinta e fervida volontà dell’Onorevole Roberto Menia, figlio di Esuli e suo promotore prioritario, ebbe un percorso non facile, ma che infine fu approvata col voto unanime del Senato, e con quello di una larghissima maggioranza della Camera, dove l’opposizione si sarebbe limitata ai soli 15 voti dell’Estrema Sinistra. Il Ricordo dei 20.000 Martiri e dei 350.000 Esuli, accomunati nell’oblio di un lungo sessantennio, divenne patrimonio comune del Parlamento Italiano e del mondo politico, alla luce di quella volontà e dei convincimenti che la sorreggevano, tanto da poter promuovere in tempi più recenti le iniziative del Governo di Giorgia Meloni – chiamato alla guida della Repubblica dopo le elezioni generali del settembre 2022 – rivolte a sollecitare Prefetture, Comuni e Istituzioni locali affinché onorassero compiutamente la data del 10 febbraio, scelta come «Giorno del Ricordo» quale ricorrenza dell’iniquo trattato di pace imposto all’Italia nel 1947, e con essa, di una memoria attiva e consapevole.

L’Istria e la Dalmazia, oltre alla maggior parte della Venezia Giulia, forti di una tradizione romana e veneta attestata da due millenni di storia, avevano sofferto il rovescio più duro a conclusione della Seconda Guerra Mondiale, quando l’Italia fu costretta a trasferire alla Jugoslavia la propria sovranità su queste regioni, che ora, dopo lo sfascio della Repubblica Federativa Jugoslava, appartengono in larga misura alla Croazia (l’Istria, in parte minoritaria, anche alla Slovenia). In effetti, il valore delle origini è fuori discussione: quando i popoli slavi di origine orientale invasero i territori dell’Alto Adriatico, nel corso del VI e VII secolo dell’Evo Cristiano, la presenza latina era ormai consolidata da quasi un millennio, e aveva conferito al comprensorio istriano e dalmata un’impronta capace di resistere anche al carattere stanziale dei nuovi arrivati, e poi, alle varie scorrerie che vi avrebbero fatto seguito nel corso dei tempi.

Sta di fatto che le popolazioni avaro-slave, pur sovrapponendosi a quelle latine in misura spesso cospicua, specialmente nei comprensori dell’interno, non divennero mai preminenti, sia sul piano dimensionale, sia su quello della cultura e dell’organizzazione civile; nondimeno, quasi un millennio più tardi, in epoca asburgica, poterono fruire di condizioni politiche particolarmente favorevoli grazie all’impegno assunto da Vienna contro l’irredentismo italiano, e la palese preferenza per l’elemento alloglotto.

A proposito della nuova etnia installatasi nel comprensorio dell’Alto Adriatico sia pure con forti contrasti, e nonostante importanti tentativi di pacificazione unilaterale come quello costituito dal Placito di Risano agli inizi dell’VIII secolo ma rimasto senza apprezzabile seguito concreto, è bene chiarire che i rapporti con quella latina furono sempre improntati a una sostanziale convivenza competitiva, già prima della svolta asburgica in chiave filo-slava. In questo senso, non è azzardato porre in luce che la svolta storica conseguente alla Seconda Guerra Mondiale abbia fruito di fondamenti ideologici e psicologici maturati nel corso dei secoli, tali da indurre una reazione non priva di richiami a fatti remoti come quella che ebbe luogo negli anni Quaranta, dapprima durante il conflitto, e soprattutto, dopo la sua conclusione.

Col trattato di pace del 10 febbraio 1947 l’Esodo del popolo giuliano, istriano e dalmata, già iniziato ancor prima che giungessero i partigiani di Tito, assunse dimensioni plebiscitarie, riguardando – alla fine – la predetta cifra di 350.000 persone: in effetti, secondo alcune fonti minoritarie ma non prive di attendibilità storiografica come le opere di Guido Deconi e di Flavio Fiorentin, quella realmente effettiva sarebbe maggiore. Circa un quarto degli Esuli scelse destinazioni fuori d’Italia, per lo più in continenti lontani come l’America e l’Australia, e priorità per Stati Uniti e Canada[1].

Nella grande maggioranza dei casi, i Giuliani, Istriani e Dalmati decisero di lasciare quanto avevano di più caro, dalle case alle tombe avite, fino alle memorie degli antenati, per una fondamentale scelta d’italianità, e quindi, di civiltà e di libertà, ma nello stesso tempo, di comprensibile timore, perché i nuovi padroni non avevano fatto mistero del loro disegno di pulizia etnica, uccidendo parecchie migliaia di persone innocenti, specialmente nelle foibe, ma anche nelle cave, in mare, e soprattutto, senza alcuna parvenza di un giudizio sia pure sommario.

L’eredità culturale e spirituale di Roma e di Venezia, per ogni buon conto, non è stata cancellata dall’Istria e dalla Dalmazia, nonostante i ripetuti e spesso grotteschi tentativi iconoclastici di parte jugoslava: campanili, monumenti, arredo urbano, costituiscono un patrimonio perenne che, come avrebbe detto Giuseppe Giusti, «è lì che parla a chi lo vuol sentire». Dal canto suo, il Sommo Poeta Italiano, Dante Alighieri, aveva già detto da parecchi secoli di aver cominciato ad amare Firenze, la sua città, bevendo l’acqua dell’Arno: ebbene, questa idea di Patria, intesa come affettuoso rispetto per la propria identità, è la stessa che avrebbe ispirato tanti figli illustri dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, e che diede massimo impulso all’Esodo, la cui dimensione quasi totalitaria è simbolo di armonia e di condivisione.

Conviene mettere in luce che i cosiddetti «rimasti» furono una minoranza marginale, ragguagliata a pochi punti percentuali, e limitata ai comunisti di provata fede, oltre a una piccola quota di persone anziane e spesso sole cui non era data nemmeno la «chance» di contare sulla forza fisica e morale necessaria ad affrontare una decisione tanto dolorosa quanto irrevocabile, e che furono costrette a vivere un dramma non meno doloroso di quello degli Esuli.

Oggi, è invalso l’uso di insistere sul fatto che la citata «rimanenza» abbia giovato a perpetuare il ricordo dell’italianità ma nella migliore delle ipotesi si tratta di una semplice illusione: non a caso, già nella vecchia Jugoslavia l’etnia italiana esprimeva una quantificazione talmente marginale da collocarsi al 12° posto nella graduatoria di quelle che avevano trovato spazio nella Repubblica Federativa di Tito e dei suoi accoliti. È conforme al vero, invece, che l’autentica italianità sia quella testimoniata dall’Esodo dei 350.000, di cui alla predetta valutazione prudenziale: a più forte ragione, essendo stata suffragata dall’abbandono dei sepolcri, dei beni e delle memorie, e prima ancora, dalle 20.000 Vittime infoibate o diversamente massacrate (beninteso, senza contare tutti coloro – in maggioranza militari ma non solo – che caddero per motivazioni belliche in senso stretto).

Nella logica etica e politica dell’odierna Unità Europea, la pregiudiziale irredentista degli avi, a cominciare da quella che nell’ormai lontano 1877 aveva presieduto alla fondazione dell’omonima Associazione «Italia Irredenta» per opera di Matteo Renato Imbriani e dei suoi compatrioti, per finire agli auspici che fecero seguito al Secondo Conflitto Mondiale e all’imposizione del «Diktat», è stata sostanzialmente rimossa dalle priorità del nuovo millennio, vincolate alla cooperazione, anziché al confronto conflittuale[2].

Nondimeno, l’irredentismo è sempre attuale nel proprio fondamento etico, se non anche spirituale, finalizzato all’affrancamento dei popoli – nessuno escluso – oppressi dal mancato riconoscimento dei propri diritti in termini completi e funzionali, se non anche da condizioni di bisogno e di convivenza difficile, sia per motivi di fede, sia per ragioni economiche, come accade in taluni Paesi della vecchia Jugoslavia. Ciò, per non dire del mondo esule che attende tuttora, se non altro, le scuse sia pure postume da talune isole dell’arcipelago ex titoista, a fronte dei troppi delitti contro l’umanità, di cui fu Vittima incolpevole.

Negli ultimi anni non sono mancati incontri di forte rilievo, anche ai massimi livelli istituzionali, volti a promuovere l’ottimizzazione dei rapporti italiani con i nuovi Stati contigui ex Jugoslavi, se non altro alla luce del recente ingresso di Slovenia e Croazia nella cosiddetta «famiglia europea». Al riguardo, giova ricordare prioritariamente quello che ebbe luogo al Sacrario di Basovizza il 13 luglio 2020 tra il Presidente Italiano Sergio Mattarella e l’omologo sloveno Borut Pahor, ma senza dimenticare che, a parte le intense strette di mano e le dichiarazioni d’intenti, gli impegni si sono tradotti in semplici auspici di natura diplomatica.

Ora è necessario aggiungere che il medesimo incontro si è ripetuto con analoga visibilità il 12 aprile 2024, in occasione della laurea «honoris causa» che l’Università di Trieste ha voluto riconoscere nella ricorrenza del suo centenario agli stessi Mattarella e Pahor, in ricordo della cerimonia precedente. Ciò, per il contributo offerto alla pacificazione internazionale e al superamento degli antichi dissidi[3]: una ripetizione che in qualche misura sembra sottintendere la permanente opportunità di ricordare, anche ai predetti massimi livelli, per non dire dell’eco assai forte sulla grande stampa d’informazione, allo scopo di elidere pervicaci sacche d’incomprensione. A ben vedere, l’insistenza con cui si vanno promuovendo queste iniziative di buon vicinato sembra porre in luce che le vecchie discrasie, pur essendo state superate in chiave diplomatica e politica, continuano a sussistere nella memoria storica, e soprattutto nello «spirito del popolo».

Come aveva scritto Ben Gurion in tempi ormai lontani, «nessuno muore del tutto fino a quando ne sia conservata la memoria». Ebbene, essendo conforme all’esperienza storica che quella di Giuliani, Istriani e Dalmati è stata una tragedia dimenticata per tanti anni, spesso volutamente, è altrettanto vero che la sua memoria è sempre vivida nel cuore di quanti pagarono con l’esilio, e con le indicibili sofferenze provocate dalla diaspora, una lunga serie di errori e di tradimenti. Tuttavia il dolore e la nostalgia non hanno impedito a questo popolo di grande civiltà, che ha fatto della non violenza un riferimento costante, di vivere nella grande Patria italiana, e nel caso degli 80.000 emigrati, anche altrove, avendo modo di affermare la dignità del lavoro italiano nel mondo: ciò, con generale apprezzamento, e con la speranza in un futuro migliore per tutti gli Esuli, e naturalmente, per la loro amata terra d’origine.

D’altro canto, come aveva affermato in tempi non ancora lontani il grande patriota italiano Gianfranco Gambassini, esponente di punta della «Lista per Trieste» sorta dopo il tradimento di Osimo e destinata a clamorosi successi elettorali sia pure necessariamente transeunti, «il futuro è nel grembo di Giove». Ecco un’affermazione sempre accettabile ma valida, a più forte ragione, nell’ambito giuliano, istriano e dalmata, se non altro alla stregua delle sue complesse vicende storiche, tanto più che è congruo interpretarla nello spirito del mai dimenticato invito di San Paolo, quando incitava a essere pronti con due semplici ma significative parole: «Estote parati!».


Note

1 La diaspora del mondo esule da Venezia Giulia, Istria e Dalmazia si è diffusa in Italia e all’estero con un carattere irreversibile, caratterizzato dalla mancanza di qualsiasi apprezzabile «ritorno» nelle terre avite, ribadita dalla lunga permanenza della ex Jugoslavia in un sistema politicamente assolutista. Non a caso, la definizione attuale di quel mondo si riferisce all’esilio, piuttosto che alla comunità di profughi con l’auspicio e la speranza del ritorno, come era già accaduto nel 1917 dopo la disfatta italiana di Caporetto e la ritirata sulla linea del Piave, ma appena un anno dopo, con il grande «sole» di Vittorio Veneto.

2 Il percorso dell’irredentismo giuliano, istriano e dalmata è stato parallelo all’evoluzione del sistema politico in vigore nella ex Jugoslavia, con quella che si potrebbe definire una serie di approssimazioni successive. Al riguardo, una data importante non solo convenzionalmente è da ritenersi il 4 maggio 1980, in cui avvenne la scomparsa del Maresciallo Tito, ormai ottantottenne, figura decisiva nella storia dell’unificazione jugoslava in un solo Stato Federale, e cui fece seguito un decennio di difficile avvicinamento alla democrazia. Ciò, con la complessa deflagrazione del vecchio sistema nelle guerre e nei movimenti che condussero all’avvento dei nuovi Stati indipendenti di Bosnia Erzegovina, Croazia, Macedonia, Montenegro, Serbia, Slovenia, e degli aggregati «provinciali» di Kosovo e Vojvodina. Il percorso in parola, sia nel caso croato sia in quello sloveno, ha avuto una nuova accelerazione agli inizi del III millennio, con l’ingresso di Lubiana e di Zagabria nell’Unione Europea, fermo restando l’invito di Bruxelles a onorare compiutamente gli impegni assunti con la partecipazione comunitaria.

3 In realtà, l’incontro del 2024 non si è tenuto fra due Soggetti giuridicamente omogenei, diversamente dal primo, perché nel frattempo si era verificata la cessazione del ruolo presidenziale sloveno di Borut Pahor. Nondimeno, il significato politico del gesto e delle ripetute dichiarazioni conciliatorie prontamente condivise dalle rispettive basi e dalle stesse Organizzazioni del mondo esule, trascende a più forte ragione i suoi aspetti formali.


Bibliografia essenziale

Claudio Antonelli, Fedeli alla Memoria dei mondi perduti: Istria, Fiume, Dalmazia, Edarc Edizioni, Bagno a Ripoli 2023, 368 pagine

Italo Gabrielli, Istria Fiume Dalmazia – Diritti negati – Genocidio programmato, Seconda edizione, Luglio Editore, Trieste 2018, 168 pagine

Roberto Menia, 10 febbraio: dalle Foibe all’Esodo, Edizioni dei libri del Borghese / Pagine, Roma 2020, 248 pagine

Carlo Cesare Montani, Venezia Giulia – Istria – Dalmazia: Pensiero e Vita morale. Tremila anni di storia, Aviani & Aviani Editori, Udine 2021, 410 pagine

Giuseppe Praga, Storia di Dalmazia, Editore Dall’Oglio, Varese 1981, 392 pagine

Raoul Pupo, Adriatico amarissimo: una lunga storia di violenza, Edizioni Giuseppe Laterza & Figli, Bari / Roma 2021, 298 pagine

Padre Flaminio Rocchi, L’Esodo dei 350.000 Giuliani, Fiumani e Dalmati, Quarta edizione, Difesa Adriatica, Roma 1999, 716 pagine

Paola Romano, La questione giuliana (1943-1947) – La guerra e la diplomazia – Le Foibe e l’Esodo, Edizione Lint / Unione degli Istriani, Trieste 1997, 254 pagine.

(settembre 2024)

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