Patto Gentiloni
La svolta storica del 1913
Nel momento in cui si compie un secolo dalla sostanziale rimozione del «non expedit» che per oltre 40 anni aveva scavato un solco di consistente ampiezza nella partecipazione dei Cattolici alla vita politica italiana, è congruo ricordare l’opera del conte Vittorio Ottorino Gentiloni, che nel 1913 fu protagonista del «Patto» passato alla storia con il suo nome.
A mezzo di tale intesa, l’Unione Elettorale Cattolica, da lui presieduta, sottoscrisse l’impegno a sostenere i candidati liberali alle elezioni politiche, in cambio del loro appoggio nelle materie di maggiore rilevanza per la Chiesa: opposizione al divorzio, istruzione religiosa nelle scuole, abolizione del trattamento discriminatorio a danno delle istituzioni economiche e sociali di espressione cattolica.
Quell’atto, che avrebbe dato luogo a modificazioni importanti del corso storico anche a lungo termine, non venne compiuto a caso. Un «ralliement» di spessore significativo era già avvenuto da qualche anno, ma la motivazione decisiva venne fornita dall’avvento del suffragio universale maschile, che in quello stesso 1913 era stato voluto da una poliedrica maggioranza di supporto al Governo Giolitti.
L’estensione del diritto di voto in chiave «universale» era stata indotta, fra l’altro, dal tentativo moderato di manifestare attenzioni non formali ad un’opposizione socialista sempre più agguerrita, in specie a fronte della politica coloniale culminata poco prima nello sbarco sulla «quarta sponda» e nella conquista tuttora precaria della Libia, che aveva alimentato un vibrante dibattito anche in Parlamento, nell’ambito di forti polemiche sulla sua effettiva opportunità, accentuate dal ricordo di Adua, tuttora vivo.
L’avere concesso il suffragio universale abbattendo ogni residua discriminazione a danno precipuo delle classi subalterne parve aprire le porte ad un progressismo ormai consapevole del proprio ruolo, ed oggettivamente coriaceo, diffondendo parecchi timori negli ambienti moderati e promuovendo le intese del Patto Gentiloni, che sino all’inizio del nuovo secolo sarebbero state premature, se non anche impensabili.
In realtà, il Pontificato di Pio X, iniziato nel 1903, aveva ribadito l’ormai tradizionale condanna della separazione fra Chiesa e Stato con la Gravissimo Officii Munere (1906); si era espresso in termini quanto mai chiari nella condanna del «modernismo» e delle suggestioni immanentiste che ne scaturivano, non senza invocare una più sistematica restaurazione della vita cristiana e dell’apostolato con la Fermo Proposito (1905) e la Pascendi Dominici Gregis (1907). Nella medesima ottica si era inserita la condanna di Don Romolo Murri e della prima Democrazia Cristiana, le cui istanze parvero troppo avanzate, ben oltre la stessa Rerum Novarum (1891) di Papa Leone XIII che, pur nella sicura salvaguardia delle verità di dottrina e di fede, aveva aperto nuovi orizzonti sul piano sociale.
Proprio per questo, il Patto Gentiloni costituì una novazione qualitativa nelle strategie del movimento cattolico, andando ad opzionare positivamente un dialogo in qualche misura «rivoluzionario» con quelle stesse forze liberali, eredi del Risorgimento, che nel 1870 avevano portato l’Italia a Roma, nel segno di una «filosofia» laica, patrimonio tanto della Destra quanto della Sinistra storica.
Non fu una scelta univoca, se non per la rinuncia alle vecchie suggestioni dell’opposizione massimalista, ma fu quella che sul momento parve assicurare le migliori opportunità e prospettive nell’ambito di una cooperazione difficile ma per taluni aspetti necessitata, che appena tre anni dopo avrebbe assunto carattere ufficiale anche a livello di responsabilità governative, quando il Cattolico Filippo Meda sarebbe entrato nel Ministero Boselli con la titolarità delle Finanze, nel quadro dell’emergenza nazionale imposta dalla guerra.
La scelta del Patto Gentiloni ebbe caratteristiche sostanzialmente conservatrici, non già per le attese cattoliche, in buona parte sensibili ad esigenze pluraliste e «lato sensu» democratiche, quanto per la ricerca, ad opera precipua dei moderati, di un’alleanza tradizionalista capace di offrire una discreta copertura strategica a fronte del prevedibile rafforzamento delle sinistre indotto dalla nuova legge elettorale. Non c’è dubbio che fu una svolta storica anche dal punto di vista liberale, se non altro per l’accantonamento di antiche pregiudiziali giacobine e del vecchio anticlericalismo di maniera.
L’arcipelago liberale, in effetti, proveniva da esperienze governative talora opinabili, non tanto in una pur contraddittoria politica estera, a cominciare da quella coloniale, quanto nella gestione dell’ordine pubblico e nelle troppe repressioni sanguinose di moti popolari perseguite dopo l’Unità, culminate, a parte la «conquista» del Sud, nei fatti di Milano del 1898, quando i cannoni del Generale Fiorenzo Bava Beccaris avevano aperto il fuoco sulla folla inerme: massimo episodio di un lungo stillicidio di violenze su tutto il territorio italiano.
In questo senso, l’apertura ai Cattolici, che costituì uno snodo essenziale nell’evoluzione politica nazionale, pur se inizialmente contraddistinto dalla prudenza, oltre che dall’emarginazione della prima Democrazia Cristiana, fu arra di una maggiore consapevolezza moderata circa la necessità di far evolvere la gestione della cosa pubblica verso forme di cooperazione più attuali ed avanzate, in specie nel rispetto dei diritti umani, cari alle attenzioni della Chiesa, ma nello stesso tempo delle forze progressiste; e contestualmente, verso l’acquisizione di una matura responsabilità politica e civile da parte cattolica, che alla fine avrebbe portato al superamento di ogni residuo «steccato» e con esso, alla Conciliazione.
La storia non può affidarsi ad ipotesi avversative o dubitative, ma oggi, cento anni dopo il Patto Gentiloni, è doveroso prendere atto della sua importanza strategica, sia nell’ottica laica che in quella cattolica. Senza la rimozione del «non expedit» che in quelle intese ebbe il momento sostanzialmente più significativo, il sofferto cammino della nuova Italia verso una compiuta identificazione sociale e civile, e quindi verso un senso dello Stato che il Risorgimento aveva potuto soltanto promuovere ed avviare, sarebbe stato meno agevole.
E nello stesso tempo, ogni residuo conato temporalista avrebbe reso più difficile il recupero ormai convinto, da parte della Roma dei Papi, di una vocazione spirituale obiettivamente prioritaria.