La «nuova» Italia del 1871: i problemi di una
«vecchia» Nazione
Più che uno Stato unitario, l’Italia
dell’ultimo trentennio del XIX secolo appare un insieme di
regioni unite nella figura del Sovrano e del Governo
Centrale, ma che mantengono delle specificità che
difficilmente possono essere amalgamate a breve termine
Nel 1871 il Risorgimento subisce una «pausa», una lunga battuta d’arresto: l’Italia è ormai una Nazione unita dalla Sicilia alle Alpi, con Roma capitale, anche se all’appello mancano tuttora Trento, Trieste, l’Istria, Fiume e la Dalmazia. Il nuovo Stato viene riconosciuto piuttosto tardivamente a livello internazionale: l’Inghilterra infatti dichiara di riconoscerlo già il 30 marzo 1861, mentre la Russia e la Prussia lo fanno solo nel 1862 e l’Austria addirittura solo nel 1866. Ma se costruire una Nazione è risultato un processo lungo e deifficoltoso, più difficoltoso e complicato diventa governarla: l’Italia è infatti uno Stato composto di tante regioni divise da secoli, ognuna delle quali ha perciò sviluppato una propria tradizione, delle proprie abitudini, e delle proprie debolezze. Ci si trova davanti non una sola Italia, ma più Italie di antica cultura che bisogna veramente «unificare», pur nel rispetto e nella valorizzazione delle differenze.
Il Nord, tranne alcune zone, è prospero, possiede delle industrie, l’agricoltura va a gonfie vele, la società è evoluta; il Governo Austriaco – pur «poliziesco» ed «oscurantista» – ha lasciato dietro di sé in Lombardia e nel Veneto un’ottima amministrazione ed una burocrazia onesta e capace; lo stesso Piemonte, sotto l’accorta politica di Cavour, ha fatto passi da gigante sulla strada della modernizzazione. Il Centro Italia, governato finora dai Papi, è invece zona depressa: manca una classe politica competente, manca una borghesia efficiente, mancano le industrie. Nel Meridione la situazione è ancora peggiore: il Paese non è sviluppato, l’agricoltura vi è stentata, la terra in molte parti sterile, la popolazione poverissima; alcune inchieste appurano che nel Sud la mortalità infantile è elevata, che la malaria dilaga, che si vive in case primitive ed in tuguri senza alcuna norma igienica, che la denutrizione è diffusissima, che nella maggioranza dei paesi manca l’acqua; spunta il «problema meridionale», mai definitivamente risolto.
La Penisola, nel suo complesso, offre un panorama sconfortante. Oltre il 75% della popolazione è completamente analfabeta; il 10% circa sa solo scrivere, o più precisamente «disegnare», il proprio nome; la conoscenza della lingua nazionale è diffusa solo nel Lazio, in Toscana e, in parte, in Piemonte. In molte zone l’agricoltura è basata sul latifondo, che lascia inutilizzate o non sfrutta in modo intensivo terre pur fertili, e nell’Italia Centrale vi sono terreni che una mancata bonifica rende persino inospitali; tra i prodotti che i contadini riescono con fatica a strappare alla terra con attrezzature molto arretrate vi sono i cereali e la vite. In situazione ancora peggiore dell’agricoltura si trova nel nuovo Regno d’Italia l’industria: di fronte agli otto milioni di persone che lavorano in campo agricolo, nel 1861 ci sono solo tre milioni di persone impiegate in modo saltuario nell’artigianato e nell’industria; va inoltre precisato che la maggioranza è costituita da donne, che si dedicano all’industria tessile nella loro stessa casa e quindi in condizioni di lavoro non competitive (cosa che si è perpetuata fino ai nostri giorni: in Italia vi sono molte industrie ed attività artigianali di piccole e medie dimensioni, spesso a livello familiare, ma poche multinazionali). Mancando poi quasi del tutto le materie prime, c’è un’industria pesante praticamente solo in alcune zone della Lombardia, che diviene subito una delle regioni-pilota capaci di attrarre a sé operai da ogni parte d’Italia. Il commercio avviene in prevalenza per via di mare, poiché, inesistenti le vie fluviali, anche le comunicazioni per via di terra o per ferrovia risultano molto inadeguate.
Non basta estendere all’intera Penisola le leggi – più o meno «illuminate» – del Piemonte: passato ormai il periodo patriottico, si aprono gli occhi sui problemi che l’unità comporta, il popolo chiede con insistenza pane e lavoro; ci si rende conto che il Risorgimento ha goduto solo in parte del favore popolare ed è stato piuttosto un movimento di élite.
Per rimettere in sesto le finanze e pareggiare il bilancio, si tassa il popolo: ci si comporta cioè come si sono comportati un tempo gli Spagnoli, come si sono comportati i Francesi sotto Napoleone e come si sono comportati gli Austriaci. Nascono alcune rivolte, specialmente il Meridione è scosso da un’ondata di rancore e di vendetta verso i nuovi Governanti: non è nostalgia verso i vecchi Governi, è sfiducia verso quello nuovo; questa ribellione assume le forme del brigantaggio, un brigantaggio che durerà diversi decenni. Il brigantaggio è una forma di reazione politica ed economica, e come tale è esistente già nel corso delle guerre napoleoniche e della restaurazione borbonica (nel secolo precedente hanno agito banditi famosi, come Gaetano Coletta, detto Mammone, che si è macchiato di oltre 500 delitti e che si è vantato di bere il sangue delle sue vittime; o come Gaetano Vardarelli, che sulle orme di Robin Hood si è fatto un merito di rubare ai ricchi per donare ai poveri); nel neonato Regno d’Italia si ha un recrudimento del fenomeno, che gode dell’appoggio interno della popolazione, insofferente della «piemontesizzazione», e dell’appoggio esterno del Papa: i briganti si organizzano in un numero altissimo di bande, assai mobili sul territorio, che hanno il vantaggio di conoscere alla perfezione, ma finiscono per pagare il prezzo di uno scarso coordinamento e di strutture militarmente impari. Intorno al 1862 si ritiene che ci siano circa 80.702 ribelli (tanto che lo Stato si trova costretto ad impegnare quasi 120.000 uomini, un vero e proprio esercito); l’anno successivo la polizia fa sapere che in un anno e mezzo sono stati fucilati 1.038 uomini trovati in possesso di armi, mentre 2.413 sono stati uccisi in combattimento e 2.768 presi prigionieri: si tratta perlopiù di contadini, pastori, artigiani ed ex combattenti dell’esercito borbonico. Il brigantaggio è un fenomeno diffuso non solo nel Mezzogiorno, ma anche nelle zone più arretrate del Granducato di Toscana e del Piemonte (come ad esempio la Maremma e le risaie novaresi); acquista grande fama, ad esempio, Stefano Pelloni detto il Passatore, ucciso in Romagna nel 1851 dalle Guardie Pontificie, noto per la crudeltà dei delitti ma anche per una sensibilità «sociale» analoga a quella di altri fuorilegge.