Da Giacomo Puccini a Mario Pannunzio:
riflessioni storiche grazie alle moto Indian
Non solo musica
Nell’anno del centenario della sua morte, il ricordo di Giacomo Puccini[1] e della sua passione per i motori mi permette di rivisitare pagine importantissime della storia culturale, economica, civile del nostro Paese. Quest’anno molto si è scritto di lui, della sua arte, dei suoi amori, della sua vita e una nutrita serie di eventi, sia livello locale che mondiale, si è susseguita. Queste pagine, però, non trattano di musica ma prendono spunto dal fascino che venne esercitato sul musicista dalle novità della tecnica locomotoria del suo tempo. A me interessa, in particolare, della sua passione per le moto Indian – che erano le moto più moderne per quell’epoca (la prima che comprò, a Firenze, fu nel 1914) – come «incipit» per sviluppare una modesta ricerca, che interessa la storia economica, militare e politica degli anni in cui visse, ma anche dopo la sua morte e fino al secondo dopoguerra.[2]
Puccini iniziò coi suoi primi guadagni a dotarsi, intanto, di una innovativa bicicletta (nel 1895), che gli permetteva rapidi spostamenti nella zona di Torre del Lago, in Versilia, che dal 1901 era divenuta il suo «buen retiro». Poi passò ai mezzi a motore e sempre nel 1901 farà di tutto per dotarsi di automobili, moto e sidecar, motoscafi. Prima fece esperienza sull’auto Panhard-Levasson del marchese Carlo Ginori Lisci, suo dirimpettaio sul lago, nella villa La Piaggetta; poi, nel 1901, ebbe un’auto tutta sua, una De Dion Buton, che si guidava con il manubrio, come una bicicletta. L’anno seguente acquisterà una vettura più potente, la Clement da 8 cavalli, con la quale avrà un pauroso incidente che lo immobilizzerà a letto, ingessato, per una lunga convalescenza. Nel 1904, sarà sua un’altra De Dion Buton-Populaire, più comoda e veloce. Poi venne la Fiat 60 hp e nel 1905 la Isotta Fraschini. E altre ancora, fra queste una Lancia Trikappa che raggiungeva i 120 chilometri orari e infine, nell’anno della sua morte, nel 1924, una Lancia Lambda.[3]
Oltre a queste, di suo interesse le moto Indian, prodotte dall’omonima industria americana, nata a Springfield, Massachusetts, nel 1901, che si caratterizzò come pioniera nel campo metalmeccanico, mediante la produzione di biciclette, motociclette, sidecar, tricicli, motocarri, generatori di energia elettrica, motori marini, elettrodomestici, motori per aerei e prototipi di automobili. Il marchio della Indian è noto per essere stato il modello ispiratore, nonché concorrente diretto e più temuto, di un’altra marca divenuta anch’essa un mito: l’Harley Davidson.
Giacomo Puccini su una moto Indian a Torre del Lago (dal libro di Roberto Pizzi, Conoscere Lucca, Industria e prodotti del territorio)
Le motociclette, oltre che per il loro uso civile, furono usate anche per scopi militari, in una varia gamma di modelli. Durante la guerra del 1914-1918 queste erano poco più che biciclette a motore, dalla funzione bellica limitata, come la moto Indian sidecar-ambulanza del 1915, che poteva trasportare fino a due feriti. Ma durante la Seconda Guerra Mondiale, grazie ai progressi tecnici intervenuti nella loro produzione, svolsero compiti più importanti. Questi mezzi erano impiegati anche su terreni non accessibili alle quattro ruote, e potevano addirittura essere paracadutati dagli aerei. Fra le Indian impiegate in azioni di guerra va ricordata la 741 da 1,2 litri, uno dei mezzi più potenti di quel periodo con i suoi 40 cavalli. Diverse di queste moto subirono però un destino funesto: 2.500 esemplari ordinati dall’esercito francese finirono in fondo all’Oceano Atlantico, dove tuttora giacciono, dopo che la nave che le trasportava venne silurata da un sommergibile tedesco. Con la fine della guerra, le moto furono i mezzi che più di altri vennero abbandonati nei terreni di battaglia. In Italia vennero immagazzinate per lo più nei depositi di un ente statale che ebbe un’importanza strategica per la ricostruzione dell’Italia del secondo dopoguerra: l’Azienda per il Rilievo e l’Alienazione dei Residuati (ARAR) che il Governo affidò alla presidenza di Ernesto Rossi (1897-1967).[4]
Con Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni, Rossi sarà tra i principali promotori del federalismo europeo. Il Manifesto di Ventotene, di cui condivise la stesura con Spinelli, è considerato il suo libro più importante e il suo testamento morale. Antifascista, aderente a Giustizia e Libertà, fu condannato dal Tribunale Speciale a 20 anni di carcere, dei quali nove furono scontati nelle «patrie galere» e gli altri quattro al confino nell’isola di Ventotene. Dopo la Liberazione, fu sottosegretario alla Ricostruzione nel Governo presieduto da Ferruccio Parri. Lo stesso Presidente, il 30 agosto del 1945, lo delegò a studiare le complesse questioni attinenti al rilievo, alla custodia e alla vendita dei residuati bellici che gli Angloamericani cedevano a basso prezzo allo Stato Italiano. Si trattava di gestire una sterminata quantità di beni: Americani e Inglesi avevano lasciato in Italia materiale che avrebbe potuto alimentare per un anno un esercito di un milione di uomini. C’era di tutto: carri armati, treni, 150.000 tra camion, automobili e moto Indian. Poi montagne di pneumatici di ogni grandezza, cannoni, munizioni e via e via: fra tanto, partite di reggiseno per le ausiliarie, preservativi per i soldati, vestiario, tessuti, medicinali, attrezzature avanzate per l’edilizia. Materiali di un valore stimato in più di 4.000 miliardi di lire del 1995. Insomma un tesoro, smistato in 278 campi intorno a Napoli, Bari, Livorno (Tombolo), Ancona, Venezia, Bolzano che occupavano una superficie di 32 milioni di metri quadrati. Gli appetiti erano tanti e intorno all’ente si scatenò la rissa per accaparrare a prezzi stracciati questo «ben di Dio». Ma Rossi non intendeva concedere regali ai «padroni del vapore», ossia ai grandi gruppi monopolistici, né cedere a prezzi di favore a organizzazioni che grazie alle raccomandazioni si presentavano come meritevoli di particolari attenzioni. Rossi era, e lo sarà per tutta l’attività dell’ente, il mastino da guardia contro tutti i baratti. Sempre nell’interesse dello Stato, Rossi era severo, giusto e disinteressato. I dipendenti dell’ente lo ammiravano: guadagnava meno dei consiglieri delegati e perfino dei funzionari e aveva rifiutato di adeguare il suo compenso all’inflazione galoppante dell’epoca. Quello che percepiva era pari al suo stipendio di insegnante di materie economiche in un Istituto tecnico.
Grande fatica la sua a tenere la barra dritta, aiutato nel compito da Altiero Spinelli il quale gli permise di scoprire la truffa della demolizione dei proiettili e dell’esplosivo, grazie alla quale le grandi fabbriche d’armi si facevano rimborsare cifre folli dallo Stato per bruciare gli esplosivi e stimavano in cifre irrisorie il ferro e il rame che rimaneva loro. Metallo che rappresentava una vera ricchezza, stante la sua penuria. Operazioni trasparenti da parte di Rossi: rigorose gare pubbliche o vendite a prezzi di listino, sostituirono i sistemi di vendita a trattativa privata. Allargamento della cerchia dei compratori con vendite a piccoli lotti omogenei ai quali potevano accedere imprenditori minori, artigiani, piccoli commercianti. Il suo contributo alla ricostruzione industriale in regime di libero mercato fu decisivo per la diffusione della piccola e media imprenditoria, contro il capitalismo monopolista. Ciò fu il suo capolavoro. A conti fatti, l’ARAR ossigenò la stremata economia italiana dell’epoca e in pari tempo, con il successo dello smobilizzo di questi beni, procurò al Tesoro un guadagno consistente. Insofferente dei partiti, Rossi abbandonò la politica attiva e si dedicò alla scrittura di libri e al giornalismo d’inchiesta su «Il Mondo», settimanale fondato dal Lucchese Mario Pannunzio, col quale collaborò per 13 ani fino al 1962 e che fu uno dei giornali più liberi e colti d’Italia. Anche egli era nato a Lucca, dall’avvocato Guglielmo e dalla nobildonna Emma Bernardini e ci permette di chiudere con il nome di un altro nostro concittadino, come Puccini, la circolarità della ricerca.[5]
Pannunzio fin da ragazzo si dedicò all’attività giornalistica e culturale. Nel 1933 fondò a Roma, insieme ad altri, il settimanale «Oggi». L’anno seguente fondò la rivista «La Corrente». Negli anni successivi diversificò i suoi interessi, dedicandosi alla sceneggiatura cinematografica e alla pittura. Tornò al giornalismo nel 1937, chiamato da Leo Longanesi (insieme ad Arrigo Benedetti) alla redazione di «Omnibus», che fu chiuso dal Minculpop nel febbraio 1939. Con Benedetti, cercò allora di ricostituire un riferimento per gli intellettuali dissidenti riprendendo il nome della sua prima testata, «Oggi», chiusa nel 1942 per motivi politici. Dopo l’8 settembre 1943 iniziò a collaborare al periodico «Risorgimento Liberale», ma fu arrestato dai nazisti e trascorse alcuni mesi a Regina Coeli. Nel 1948 passò a «L’Europeo», diretto da Benedetti, e nel 1949, ancora una volta riprendendo la testata del passato che era stata di Giovanni Amendola, fondò «Il Mondo», settimanale che avrebbe diretto sino alla chiusura nel 1966.
1 Proprio il 29 novembre di 100 anni fa, a
Bruxelles, moriva il grande compositore lucchese, noto in
tutto il mondo. Era figlio di Michele (1813-1864) e di Albina
Magi (1830-1884) e fu l’ultimo di una famosa dinastia di
compositori (Jacopo, Antonio, Domenico, Michele). Era nato a
Lucca il 22 dicembre del 1858, sesto di nove figli (2 maschi e
5 femmine). La sequenza delle nascite fu la seguente: Otilia –
Tomaide – Temi (morta prematuramente) – Nitteti – Iginia –
Giacomo – Ramelde – Macrina – Michele. Le sue opere più
celebri sono: Le Villi
(1884), Edgar
(1889), Manon Lescaut
(1893), La Bohème
(1896), Tosca
(1900), Madama Butterfly
(1904), La Fanciulla del
West (1910), La
Rondine (1917), Il
Trittico, costituito di tre lavori: Il
Tabarro, Suor
Angelica, Gianni
Schicchi (1918), Turandot
(1924). Compose anche musica sacra, una ninna nanna e due inni
di cui il più noto è l’Inno
a Roma. Dal suo matrimonio con Elvira Bonturi
(1860-1930) nacque il figlio Antonio (1886-1946). È sepolto a
Villa Puccini di Torre del Lago (Lucca).
Nella vecchia casa di Celle (Pescaglia), che fu per secoli
della sua famiglia, è stato allestito un Museo permanente.
Altro Museo pucciniano si trova a Lucca, nella casa natale di
Via Di Poggio.
2 Attingo in parte alle mie due presentazioni al pubblico del libro del compianto Moreno Musetti, Le nostre Indian, Libreria Automotoclub Storico Italiano, Torino, 2013. La prima è avvenuta il 2 novembre 2013, nella sala convegni della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca; la seconda si è svolta il 7 maggio 2014, nella sede del CRAME, Circolo Romagnolo Auto e Moto d’Epoca, di Rimini.
3 Roberto Pizzi, Conoscere Lucca, Industria e prodotti del territorio, M. Pacini Fazzi, Lucca, 2019.
4 Ernesto Rossi, (Caserta, 25 agosto 1897-Roma, febbraio 1967) è stato un politico, giornalista, antifascista ed economista italiano. Operò nell’ambito del Partito d’Azione e poi del Partito Radicale.
5 Mario Pannunzio (Lucca, 1910-Roma, 1968), insieme ad Arrigo Benedetti, anch’egli lucchese (Lucca, 1910-Roma, 1976) fanno parte del «pantheon» del giornalismo italiano.