Francesco Crispi, il «cospiratore»
Siciliano-Albanese, da agitatore
clandestino a Primo Ministro coloniale; mazziniano, poi
monarchico, sempre inviso al Nord
Durante un viaggio all’estero, quando Francesco Crispi era ormai ministro del Regno d’Italia, alcuni collaboratori cominciarono ad interrogarlo sugli anni dell’esilio e della cospirazione. Rispose a qualche domanda, ma non appena i quesiti divennero pressanti e indiscreti, tagliò corto bruscamente dicendo che quelle cospirazioni «avevano fatto l’Italia».
Vi erano effettivamente vicende oscure di cui Crispi non desiderava parlare o parlava raramente, tra cui gli anni di studio nel seminario greco-albanese di Palermo. Vi era entrato all’età di nove anni nel 1827 vestito di tutto punto con l’abito azzurro degli abatini, un mantello nero e un cappello a tricorno. I Crispi venivano dalla Piana dei Greci, oggi Piana degli Albanesi, ed erano per l’appunto di origine albanese. La famiglia era cattolica, ma di rito greco e i suoi sacerdoti, come i pope ortodossi, potevano sposarsi. Nella famiglia di Francesco Crispi ve n’erano, per quanto sappiamo, almeno due: il nonno paterno e uno zio, Giuseppe, Vescovo e rettore del seminario di Palermo. Come per altri uomini politici che indossarono la tonaca (Talleyrand, Fouché, Stalin), il seminario poteva essere un’eccellente scuola di formazione. Gli abatini imparavano il latino, il greco, la storia, la retorica, un po’ di matematica e soprattutto i rudimenti della disputa teologica, vale a dire la capacità di argomentare e contraddire. Potevano diventare sacerdoti, ma anche magistrati, avvocati o politici.
Francesco Crispi fu dapprima magistrato, ma litigò con il procuratore generale della Corte di Cassazione Filippo Craxi, poi avvocato e, infine, rivoluzionario. Nel gennaio del 1848 era sulle barricate di Palermo in occasione della rivoluzione indipendentista siciliana, qualche settimana dopo era deputato alla Camera dei Comuni (la costituzione dell’isola era ricalcata su quella inglese) e nel maggio del 1849, dopo la morte dello Stato siciliano e la restaurazione borbonica, era a bordo di un veliero francese che lo avrebbe sbarcato a Marsiglia. Da quel momento, passando da Torino a Malta e dalla Francia all’Inghilterra, sarebbe stato per dieci anni mazziniano, repubblicano, massone, agitatore politico, autore di articoli e opuscoli, organizzatore di moti falliti; ma anche, per sopravvivere, impiegato di banca, fotografo, agente di commercio.
Erano anni turbolenti. Quando alcuni suoi amici furono accusati di avere preparato un attentato contro l’Imperatore Napoleone III, fu coinvolto nelle indagini, ma la polizia francese non poté provare la sua complicità.
Quando le bombe di Felice Orsini provocarono una strage a Parigi, di fronte al vecchio Teatro dell’Opera, il 14 gennaio 1858, la sua casa venne perquisita senza alcun risultato. Interrogato, rispose che aveva conosciuto Orsini a Parigi a casa di Mazzini nel 1855 e di non averlo più rivisto da allora. Ma uno dei congiurati, qualche mese dopo, disse di averlo incontrato mezz’ora prima dell’attentato sul luogo stesso della strage.
Due episodi, in particolare, giustificano qualche sospetto. Durante il suo secondo soggiorno a Parigi, fra il 1856 e il 1858, Crispi aveva fatto visita nel Faubourg Saint-Antoine, per incarico di Mazzini, ad un operaio che si vantava di conoscere perfettamente i sotterranei della Cattedrale di Notre-Dame e si era detto pronto a collocarvi una bomba per farla saltare in aria durante il battesimo del principe imperiale. Più tardi, interrogato su quella vicenda, Crispi ne parlò come di un episodio strampalato nella giornata di un cospiratore. Ma non era uno scherzo il modello in creta della bomba di Orsini (una palla di ferro ricoperta di cappellotti) che aveva nei suoi bagagli quando partì da Londra nel 1859 e di cui si servì per addestrare i patrioti di Messina, Catania, Siracusa e Palermo in vista dell’insurrezione che sarebbe dovuta scoppiare il giorno dell’onomastico di Francesco II.
La sua vita cambiò finalmente nel 1860, quando salì con Garibaldi a bordo della nave che lo avrebbe sbarcato a Marsala; durante la spedizione dei Mille fu il braccio siciliano di Garibaldi e il suo principale collaboratore.
Scoprì di amare il potere e di saperlo esercitare, all’occorrenza, con molta durezza. Quando entrò nel Parlamento Nazionale di Torino come deputato di Castelvetrano, dopo le elezioni del 1861, era ancora repubblicano. Ma aveva capito che i Savoia erano necessari all’unità del Paese e che l’Italia sarebbe stata monarchica o non sarebbe stata. La rottura con Mazzini era nell’aria già da qualche tempo ma divenne pubblica e clamorosa quando Crispi, il 18 novembre 1864, si alzò nell’aula di Palazzo Carignano per dichiarare: «L’ho detto più volte, l’ho ripetuto ultimamente nei comuni in cui sono stato durante il mio viaggio in Sicilia, che la monarchia ci unisce e la repubblica ci dividerebbe. Noi unitari innanzi tutto siamo monarchici e sosterremo la monarchia meglio dei monarchici antichi». Mazzini si sentì tradito e lo disse a chiare lettere, i suoi seguaci accusarono Crispi di apostasia e di opportunismo. Ma altri, più sobriamente, capirono che Crispi sarebbe stato da quel momento un protagonista della politica italiana. Molti, anche fra i suoi compagni della Sinistra parlamentare, continuarono tuttavia a diffidare.
Era energico, lucido, coraggioso. Aveva un’eccellente cultura giuridica e un’acuta percezione dei problemi sociali e istituzionali del Paese. Ma era capace di imprevedibili scatti di collera, grandi rancori, forti inimicizie; e non aveva mai interamente perduto il gusto e lo stile della cospirazione, della congiura, del complotto. Quando divenne Presidente della Camera, dopo la vittoria della Sinistra nelle elezioni del 1876, cercò di rassicurare i suoi critici con un discorso piuttosto ampolloso che alludeva, tra l’altro, alle sue origini siciliane: «Come nel seno dell’Etna ribolle spesso e si rattiene l’ignea materia antica, mentre sulla vetta sta tranquilla e perpetua la neve, così accanto all’ardore dell’animo, all’eccitabilità della fibra, ho posto il dominio sicuro di una ferma volontà».
Quella «ferma volontà» era anche al servizio delle sue ambizioni. Come Presidente della Camera, fece alcuni viaggi all’estero tra cui una visita al principe di Bismarck, creatore del Secondo Reich Tedesco. I due si piacquero e Crispi, in particolare, divenne da quel momento un invidioso ammiratore del «cancelliere di ferro» pensando a come sarebbe stato felice a poter godere lui stesso dell’autorità di cui godeva il leader della Germania imperiale.
Il potere arrivò finalmente nel 1878, l’anno della morte di Vittorio Emanuele II e di Pio IX. Come ministro degli Interni del Governo Depretis, Crispi amministrò i due eventi con grande abilità e delicatezza. Di lì a poco, tuttavia, la sua carriera (sarà due volte Presidente del Consiglio) cominciò ad essere punteggiata dagli scandali: un matrimonio oscurato da un sospetto di bigamia (la magistratura, da sempre sensibile al potere dominante, lo assolse dall’accusa d’esser bigamo dopo un processo brevissimo) ed una parte di spicco nelle vicende che ebbero per effetto il crollo della Banca Romana. Non sarebbe giusto dimenticare, tuttavia, che i suoi Governi crearono il primo Stato assistenziale italiano, che introdussero la libertà di associazione e di sciopero per la prima volta in Europa e l’abolizione della pena di morte, che svilupparono la metallurgia e la siderurgia (industrie pesanti fino ad allora completamente assenti in Italia), che la sua politica estera cercò di dare al Paese un ambizioso profilo internazionale, che il suo tentativo di riconciliare lo Stato e la Chiesa fallì ma fu per certi aspetti lungimirante.
Cadde, alla fine, nel 1896 quando una dolorosa sconfitta militare (la battaglia di Adua, in Abissinia, contro le truppe di Menelik) mise in evidenza le velleità e le lacune della sua politica coloniale. Ma cadde anche perché la parte più avanzata del Paese era stanca dei suoi metodi autoritari, della sua politica economica e fiscale, della sua politica estera aggressiva.
In prima linea, fra i nemici di Crispi, vi era Milano, una città in cui lo sviluppo economico stava creando una promettente combinazione di democrazia liberale, cattolicesimo democratico e socialismo riformatore. Quando la conversazione cadeva su Milano, Crispi, scuro in viso, accusava la città di comportarsi come uno Stato. Non appena fu costretto a dimettersi i Milanesi scesero in piazza per festeggiare la sua caduta e qualcuno, scioccamente e assurdamente, gridò addirittura: «Viva Menelik». Qualche giorno dopo la Regina Margherita, vedova di Vittorio Emanuele II, disse a Crispi amaramente: «Ha vinto Milano».