Carlo Paladini, un giornalista lucchese
impegnato a denunciare la violenza e la discriminazione
sociale verso la donna
Il caso di Italia Donati
Nell’anno scolastico appena trascorso è stato organizzato con successo un concorso storico-letterario per gli studenti del triennio finale del liceo classico «Pietro Giannone» di Benevento, finalizzato a sensibilizzare fra i giovani i temi del ruolo fondamentale nella nostra società della donna, della valorizzazione e della sua difesa contro ogni forma di violenza, che a varie latitudini rappresenta la vergogna di un’ampia umanità.
Il concorso ha tratto spunto dal ricordo del dramma che coinvolse la maestrina Italia Donati (1863-1886), Toscana delle nostre zone, vittima dei pregiudizi sociali e della sopraffazione maschile, negli anni di fine ’800. Anche sul quotidiano «La Repubblica» del 24 giugno scorso è comparso un articolo di Maura Gancitano, dal titolo Il femminicidio non è un caso che riferendosi all’uccisione di Giulia Cecchettin, ricordava le tristi analogie con questa antica storia di Italia Donati.[1] L’attualità dei drammi della discriminazione e della violenza sulle donne, quotidianamente aggiornata dalla «cronaca nera» dei nostri media, ha visto altresì, in questi ultimi giorni, il meritevole impegno della Prefettura di Lucca che ha lanciato una campagna di sensibilizzazione presso le scuole superiori della nostra provincia, contro tali ignobili comportamenti.
Già in un mio libro del 2013 sulla storia del giornalismo lucchese avevo scritto di questa vicenda, ricordando anche la figura di Carlo Paladini (1861-1922), valente giornalista lucchese che aveva denunciato sui quotidiani nazionali le violenze subite da questa povera ragazza, scuotendo molte coscienze civili del Paese. Egli fu nell’entourage politico del Senatore Antonio Mordini, e sotto la Presidenza del Consiglio di Crispi e poi di quella del Gabinetto Fortis venne chiamato a dirigere l’ufficio stampa del Governo.[2]
Essendo stato anche amico e biografo di Giacomo Puccini, Paladini ci riporta ad alcune analogie fra il dramma della maestrina di Monsummano, sopra citata e la violenza nei confronti – «mutatis mutandis» – di Dora Manfredi, la giovane domestica di casa Puccini che si suicidò ingerendo del veleno, per la disperazione dovuta alle ingiuste accuse di essere l’amante del grande musicista.[3]
La sua era una battaglia di progresso, che si rivolgeva in particolare al mondo laico e progressista dell’Italia in costruzione. Tale spirito era stato sempre vivo nei personaggi che appartengono al Pantheon del nostro Risorgimento, i quali sempre dimostrarono il massimo rispetto e l’apprezzamento per la figura della Donna, principio di ogni esistenza.
«Amate, rispettate la donna. Non cercate in essa solamente il conforto, ma una forza, un’ispirazione, un raddoppiamento delle vostre facoltà intellettuali e morali. Cancellate dalla vostra mente ogni idea di superiorità: non ne avete alcuna. Un lungo pregiudizio ha creato, con una educazione disuguale e una perenne oppressione di leggi, quell’apparente inferiorità intellettuale, dalla quale oggi argomentano per mantenere l’oppressione». Così scriveva, nel lontano 1860, Giuseppe Mazzini, morto a Pisa il 10 marzo del 1872, amorevolmente assistito dalla donne della famiglia Rosselli-Nathan nella loro abitazione di Via della Maddalena, che non era solo un centro di ritrovo di patrioti, ma anche di solidarietà umana.
Lo stesso Giuseppe Garibaldi fu sempre dalla parte delle donne. Il suo grande amore, Anita, è storia e poesia fuse insieme. Il 4 agosto di quest’anno ricorre il 175° anniversario del suo sacrificio nella drammatica fuga verso Venezia, dopo la fine della gloriosa Repubblica Romana.[4]
Dell’Eroe dei Due Mondi si ricorda anche l’amicizia con la sensitiva madame Blavatsky (1831-1891), teosofa, occultista, medium ucraina, la quale partecipò alle battaglie di Monterotondo e di Mentana del 1867, venendo colpita al torace da due pallottole, creduta morta e gettata in una fossa comune, poi salvata «in extremis» per puro caso. Garibaldi sempre sostenne che le coraggiose donne dell’epopea risorgimentale fossero tutte degne di essere riconosciute alla pari degli uomini. Questo impegno a favore della emancipazione della donna e dell’associazionismo femminile nel mondo laico non può prescindere dal ricordo di un altro uomo del nostro Risorgimento, a molti sconosciuto, ma non di minore importanza, del quale è giusto ricordarne la nobiltà: Salvatore Morelli (1824-1880), testardo, appassionato, bizzarro, dal cui nome emana un «forte odore di bucato», nato a Carovigno, Brindisi, nel 1824 (morirà a Pozzuoli nel 1880), iscritto alla «Giovane Italia» di Mazzini. Venne condannato a 8 anni di carcere, rinchiuso dai Borboni nella fortezza di Ischia, subì torture e vessazioni e anche una finta fucilazione. Venne inviato, poi, al confino di Ventotene, vale a dire nell’isola in cui Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, più di 80 anni dopo, avrebbero scritto il maggiore documento dell’europeismo italiano. Fatta l’Italia, fu eletto alla Camera dei Deputati per il collegio di Sessa Aurunca, nel giugno del 1867, venendo confermato per 4 legislature. Appassionato riformatore sociale, era animato quasi da una fede missionaria ed ebbe come suo pensiero principale quello dell’emancipazione della donna. Passò alla Storia per il primo progetto di divorzio e per la sua generosa eccentricità: le sue battaglie parlamentari negli anni immediatamente successivi all’unificazione del Paese stupiscono per l’anticipazione di certe problematiche sociali.
Egli non perdeva occasione di riportare l’attenzione del Parlamento sulla funzione della donna nella società, fra l’indifferenza dei deputati del Regno d’Italia, rappresentanti di un’opinione pubblica misogina e retriva. I temi che gli stavano maggiormente a cuore erano la riforma dell’istruzione, la riforma del diritto di famiglia, la parità dei diritti fra marito e moglie, il divorzio, l’abolizione di qualsiasi discriminazione fra figli legittimi e naturali.
Morì in condizioni di grave indigenza, praticamente ridotto alla fame, perché libero nel pensiero e incapace di vendersi. La sua povertà resta come un fatto incredibile, ma vero. Basti pensare che i deputati, allora, non avevano le ricche prebende attuali e Morelli, non avendo soldi per l’albergo, spesso dormiva in treno adattandosi a passare la notte in una carrozza ferroviaria sulla tratta Roma-Napoli, andata e ritorno. Qualche volta passava la sua giornata con un soldo di castagne lesse, o quando voleva rifarsi un po’ prendeva il battello da Genova a Napoli, perché come deputato gli erano riconosciuti il viaggio e il vitto gratis.[5]
Ritorniamo ora al dramma della maestrina citata in esordio, Italia Donati, e del giornalista lucchese Carlo Paladini: la prima, figura di grande dignità, fu soggetta alla violenza sia maschile, che di un contesto sociale arretrato e ostile a ogni emancipazione della donna; il secondo personaggio è ricordato nella vicenda come colui che denunciò sulla stampa nazionale le violenze subite da questa povera ragazza.
Italia Donati era nata il 1° maggio del 1863 a Cintolese, nel Comune di Monsummano, allora provincia di Lucca, essendo la Val di Nievole parte della sua circoscrizione amministrativa fino al 1928, quando fu costituita la provincia di Pistoia che incorporò 10 Comuni Lucchesi e altri di Firenze.[6]
Il 1° giugno 1886 fu trovata morta, suicida per annegamento, quando dalle colline del Montalbano, sopra il Padule di Fucecchio, alle prime luci del giorno, venne notato il suo cadavere sul fondo di uno stagno.
La ragazza era una giovane maestra elementare che dal settembre 1883 insegnava in una frazione del Comune di Lamporecchio (circondario di Pistoia, allora Provincia di Firenze), il cui drammatico suicidio destò grande interesse nell’opinione pubblica più sensibile. Gran parte della popolazione di Lamporecchio e Larciano male sopportava il nuovo ruolo delle donne come insegnanti nelle scuole pubbliche, innovazione apportata dalla Legge Coppino.
Le «maestrine» erano generalmente malviste anche dai parroci ai quali era stato tolto l’insegnamento fino ad allora impartito in locali parrocchiali; inoltre, e soprattutto, non erano ben accolte dai paesani, che avevano in odio l’obbligo scolastico che sottraeva i figli al lavoro dei campi e non tolleravano, poi, che una donna sola e lontana da casa avesse una benché minima autorità. Italia cominciò ben presto a essere oggetto delle malelingue locali che la definivano la «seconda concubina» del Sindaco di Lamporecchio. Un’infame lettera anonima, poi, faceva precipitare la situazione: in essa si diceva che la maestrina, incinta, si sarebbe sottoposta a un aborto. Tutto ciò indusse Italia Donati, disperata, a suicidarsi.
Un bigliettino, rinvenuto nella tasca del suo grembiule rosso abbandonato nelle vicinanze dove fu ritrovato il suo cadavere, rivela le ultime volontà della defunta. Fra queste la richiesta di una visita medico-legale che, «post mortem», ne accertasse la verginità, come poi verrà fatto e acclarato, smentendo così clamorosamente la «vox populi» che da ormai tre anni la bollava come amante del suo datore di lavoro, il Sindaco di Lamporecchio, Raffaello Torrigiani (ricco possidente con fama di donnaiolo), a sua volta accusato anche di averla indotta all’aborto.
Il tragico fatto, emblematico del disagio delle deamicisiane «maestrine dalla penna rossa» che costituirono il nucleo più consistente degli insegnanti italiani, ebbe ampia risonanza a livello nazionale: approfondite inchieste apparvero sul «Corriere della Sera» a firma del «redattore viaggiante» Carlo Paladini, che scrisse anche per il «Corriere di Roma» un lungo articolo dal titolo Come muoiono le maestre.
Come detto, il dramma della «maestrina» di Monsummano, pur con le dovute distinzioni sui contesti territoriali, temporali e sugli attori delle tragedie, rientra nel novero della violenza verso le donne insieme al caso di Dora Manfredi: in entrambi i casi assistiamo a deliberati suicidi come atti di protesta contro le ingiustizie della società; assistiamo all’effetto devastante della calunnia e della gelosia verso soggetti femminili; assistiamo al tentativo delle due giovani suicide di «gridare» in qualche modo al mondo la loro innocenza verginale: entrambe lasciano scritto che «post mortem» un medico compia un esame accurato che certifichi la loro illibatezza e che smentisca la falsa diceria che le stesse si fossero sottoposte a interventi di aborti per gravidanze indesiderate.
Le denunce di Paladini sul caso della maestrina toscana appassionarono anche la scrittrice-giornalista Matilde Serao, la quale a sua volta intervenne sulla stampa romana.[7]
Paladini ebbe discreta fama anche all’estero, era nato a Lucca nel 1861 ed ebbe una giovinezza errabonda fin dall’età di 16 anni, quando iniziò a viaggiare per il mondo approdando poi negli Stati Uniti, che furono la vera culla della sua formazione giornalistica. Compiva, in quegli anni, il suo tirocinio giornalistico d’oltreoceano, lavorando a New Orleans e a Salt Lake City e appena tornato a Lucca, alla fine degli anni ’80, volle fondare un suo periodico, «Il Figurinaio», che per la spregiudicatezza scompaginò la quiete perbenista della città. Per 7 anni (tanto durò la pubblicazione) i suoi corsivi alimentarono polemiche che svegliarono la città e costrinsero sulla difensiva le autorità lucchesi. Intorno al suo foglio si coagulava un’area di democrazia laica in cui si mescolavano eredità risorgimentali rimodellate, dopo la morte di Mazzini e la fine dell’insurrezionalismo repubblicano, dalla nuova cultura che si abbeverava in quegli anni al libero pensiero positivistico. Furono anni di intense polemiche e di strascichi giudiziari che costarono al Paladini numerose querele con processi che appassionarono il pubblico e calamitarono l’opinione pubblica.
Esauriti gli strali contro il bigottismo e gli intrallazzi locali, Paladini riprese a viaggiare, continuando a scrivere per giornali prestigiosi quali il «Corriere della Sera», «Il Secolo», il «Giornale d’Italia», «La Stampa», «La Riforma», collaborando a famose testate straniere, conoscendo e intervistando gli uomini politici più importanti dell’epoca. In Inghilterra godette di buona fama e il suo nome venne inserito nel noto dizionario biografico Who is who. La fama inglese gli venne anche dalla pubblicazione del suo imponente libro Impero e libertà nelle colonie inglesi. Rientrò poi in Italia, e si dedicò all’insegnamento della Letteratura Italiana in un istituto tecnico fiorentino. Non dismise mai il suo impegno civile, dimostrato sempre quando riteneva vi fosse da difendere i più deboli. Paladini fu amico di Giacomo Puccini, del quale fu il primo biografo. La loro amicizia si interruppe bruscamente nel 1904, quando il musicista, lavorando alle modifiche della Butterfly, che procedevano con difficoltà, vedendo nemici dappertutto, fu offeso da una sua presunta sprezzante osservazione sull’opera. La rottura durerà quasi 15 anni. I loro rapporti furono riannodati nel 1918, dopo di che ritroveremo Paladini fra i membri del «Club Gianni Schicchi», fondato da Puccini a Viareggio e al suo fianco, nel 1919, per difenderlo, con una lunga intervista, dall’accusa che veniva rivolta al musicista, di essere stato un disfattista durante la guerra. Le accuse che venivano rivolte pubblicamente a Puccini si basavano sulla vecchia storia della sua amicizia con la Germania, assolutamente inopportuna nel panorama politico di quel momento e di aver guadagnato molti soldi con il «nemico», con l’opera La Rondine. Quando il Paladini muore inaspettatamente, il 10 luglio del 1922, Puccini si dispera per la perdita di uno dei suoi più vecchi amici e dei più importanti sostenitori. Parteciperà al funerale nella vicina Massa Pisana e sarà il più celebre tra gli accompagnatori del feretro.
1 Confronta la rivista «Erasmo», Benevento – Un concorso per gli studenti dedicato alla memoria di Italia Donati, Roma, numero del 5 maggio 2024; Maura Gancitano, L’interrogatorio di Turetta – Il femminicidio non è un caso, «La Repubblica» del 24 giugno 2024, pagina 24.
2 Confronta Roberto Pizzi, La stampa lucchese dall’Illuminismo al Fascismo – Giornali, fatti e personaggi, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca, 2013, pagine 62-68, 174, 175.
3 Dora Manfredi era nata a Torre del Lago nel 1885, dove morì suicida nel 1909. Nel 1903 era entrata al servizio della famiglia Puccini, all’età di 18 anni, anche per essere di aiuto nella lunga convalescenza del maestro rimasto vittima di un incidente automobilistico. Il suo suicidio sconvolse Puccini e tutto il paese di Torre del Lago, suscitando uno scandalo che si diffuse sia in Italia, che in altre parti del mondo, stante la fama acquisita dal musicista. Sulla vicenda porta chiarezza il libro di Rossella Martino, Giacomo Puccini – Gloria e tormento, Dream Book edizioni, San Giuliano Terme (Pisa), 2024, pagine 191 e seguenti.
4 Ana Maria de Jesus Ribeiro, meglio conosciuta come Anita (o Annita) Garibaldi (Morrinhos, 30 agosto 1821-Mandriole di Ravenna, 4 agosto 1849).
5 Confronta Roberto Pizzi, Pensiero e Azione della Croce Verde P. A. di Lucca, Lucca, 2023, pagina 60.
6 La provincia di Lucca nacque nel 1861, con la formazione del Regno d’Italia. Essa fu costituita con 21 Comuni che, nel 1859, formavano il compartimento di Lucca nel Granducato di Toscana. Nel 1865, con la Legge per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia (20 marzo 1865 numero 2.248), si definiva la ripartizione politica e territoriale degli enti locali del Regno. La provincia di Lucca comprendeva 25 Comuni: Lucca, Capannori, Barga, Coreglia, Borgo a Mozzano, Bagni di Lucca, Ponte Buggianese, Buggiano, Massa e Cozzile, Camaiore, Monsummano, Bagni di Montecatini, Val di Nievole, Pieve a Nievole, Pescia, Altopascio, Montecatini, Uzzano, Vellano, Villa Basilica, Massarosa, Viareggio, Pietrasanta, Seravezza, Stazzema. Nel 1928 la neo costituita provincia di Pistoia (la sua data di nascita ufficiale è del 1927), incorporò, prelevandoli da quella lucchese, 10 Comuni della Val di Nievole, nei quali vivevano 67.484 abitanti: Ponte Buggianese, Buggiano, Massa e Cozzile, Monsummano, Montecatini Val di Nievole, Pieve a Nievole, Pescia, Montecatini Terme, Uzzano e Vellano. Si veda anche R. Pizzi, Lucca e la provincia italiana, in «Documenti e Studi», Rivista dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in provincia di Lucca, numero 33, dicembre 2011, pagine 159-160.
7 Matilde Serao, scrittrice e grande giornalista, è considerata la prima donna italiana a fondare una testata giornalistica: «Il Giorno». Era nata il 14 marzo 1856 a Patrasso, in Grecia e morirà a Napoli il 25 luglio 1927, mentre lavorava alla scrivania, alla stesura di un articolo. Fu autrice di romanzi di successo, fra i quali Il ventre di Napoli, «spaccato» della realtà napoletana di fine ’800.