Libia – dal golpe del 1969 all’epilogo del
2011
La cacciata degli Italiani in tempo reale
(1970)
Non accade sempre che le dittature, sebbene osannate all’inizio, si concludano in gloria: anzi, in parecchi casi è vero il contrario. Un caso emblematico è quello di Muhammar Gheddafi (1942-2011) che riuscì a conquistare la Libia senza il minimo spargimento di sangue con il colpo di Stato del 1° settembre 1969, governando il suo Paese per oltre un quarantennio, e dando un contributo importante al suo sviluppo economico che fece seguito alla lunga esperienza conservatrice di Re Idris, andato al potere dopo la fine della colonizzazione italiana, cominciata nello scorcio conclusivo dell’Ottocento e proseguita con alterne fortune fino alla catarsi del 1945.
Alla giovane età di 27 anni, il Capitano Gheddafi riuscì a impadronirsi del potere assieme a un ristretto numero di giovani ufficiali, con un’azione di poche ore che non avrebbe incontrato alcuna resistenza, nemmeno nell’«entourage» di Idris, ritiratosi in buon ordine per una tranquilla vecchiaia. Il modello di riferimento fu quello dell’Egitto, dove nel luglio 1952 era stata proclamata la Repubblica a opera di Nasser, dando fine immediata all’esperienza monarchica di Faruk e della sua consorteria, anche se l’esperienza libica si sarebbe caratterizzata per un riferimento alla fede islamica assai più stringente, e per una forma di Governo a più forte ragione monocratica.
Trascorsi 13 mesi dalla sua conquista del potere, il regime di Gheddafi si impose ulteriormente alle attenzioni mondiali con una vera e propria crociata contro gli Italiani che erano rimasti in Libia – ben visti anche da Idris – dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, nel numero di circa 40.000, a fronte del mezzo milione di immigrati durante il periodo coloniale. In realtà, i suddetti superstiti erano rientrati per circa metà dopo il colpo di Stato del 1969, mentre gli ultimi 20.000, maggiormente legati alle attività che avevano intrapreso con ragguardevoli successi, avevano confidato di poter continuare la propria esperienza, certamente utile anche ai propri collaboratori locali. Accadde esattamente il contrario, perché il 7 ottobre 1970 Gheddafi, nel frattempo autonominatosi Colonnello, dispose con un vero e proprio «ukase» che costoro avrebbero dovuto lasciare il Paese entro una settimana[1] facendo seguito conclusivo al provvedimento del precedente 21 luglio con cui i loro beni erano stati confiscati, unitamente a quelli degli Ebrei.
Non a caso, detto provvedimento sarebbe passato alla storia libica quale «Giornata della Vendetta», con un’espressione che sarebbe stata oggetto di revisione formale soltanto nel 2008, quando si tradusse in quella di «Giornata dell’Amicizia» grazie ai buoni uffici interposti dal Governo di Silvio Berlusconi e dalle difficoltà sopravvenute in Libia, destinate a concludersi nell’infelice catarsi di tre anni più tardi. Sta di fatto che nel brevissimo termine gli Italiani ancora in Libia furono costretti a imbarcarsi sulle nove navi appositamente inviate dal Governo di Roma, e soprattutto, a un tristissimo adattamento: quello negli appositi «centri di accoglienza» allestiti in fretta e furia, dove buona parte dei profughi sarebbe stata costretta a sopravvivere per anni, iterando in proporzioni ridotte la grande diaspora dei 350.000 esuli giuliani, istriani e dalmati, avutasi dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Nei confronti degli Italiani cacciati dalla Libia scese un silenzio di comodo, dovuto non tanto al numero relativamente contenuto, quanto al fatto che prevalse a loro danno la presunzione secondo cui sarebbero stati tutti fascisti, da punire in quanto tali. In realtà, parecchi di loro erano addirittura nati quando il vecchio regime era già passato alla storia, e quando avevano già intessuto relazioni positive se non anche cordiali con la nuova dirigenza libica.
Per alcuni aspetti, quella dei profughi libici fu un’esperienza quasi peggiore delle altre. L’Italia del 1970 non era più quella di 25 anni prima, ma uno Stato ormai affermato nel contesto internazionale e nell’alleanza atlantica, e non doveva affrontare un’invasione di tale ampiezza da non poter essere facilmente governata con le scarse risorse del Paese sconfitto e dilaniato da irripetibili antinomie, tanto da costringere circa un quarto degli esuli di Venezia Giulia e Dalmazia a prendere la via dell’emigrazione, in larga maggioranza oltre oceano. Quella del 1970, in buona sostanza, non sarebbe stata un’accoglienza ma nella migliore delle ipotesi una tolleranza resa ancor più gretta dall’implicito invito ad arrangiarsi, rivolto ad altri Italiani che non avevano particolari «colpe» da scontare ma che avevano avuto la sventura di dover subire la tracotanza di un giovane despota galvanizzato oltre misura dagli osanna del suo popolo.
Gheddafi è passato alla storia, fra l’altro, quale massimo finanziatore dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di Yasser Arafat e di non poche nuove realtà terzomondiste, fra cui l’IRA Irlandese, senza dire dei rapporti oltremodo negativi con l’Occidente, culminati nel fallito «blitz» organizzato dagli Stati Uniti (1986), all’epoca presieduti da Ronald Reagan, per uccidere il Colonnello definito dalla Casa Bianca quale «cane pazzo del Medio Oriente», con uno stile diplomatico davvero opinabile che ebbe il solo risultato di rendere ancor più ostile il regime libico. Conviene aggiungere che una buona ripresa delle relazioni con Washington avrebbe avuto luogo soltanto nel 2010 durante la Presidenza di George W. Bush, grazie a un comune impegno nella lotta contro un pervicace terrorismo; tuttavia Gheddafi era quasi giunto al capolinea, con una notevole compromissione della sua primigenia popolarità, anche alla luce dei conati separatisti che stavano travolgendo la Libia. Non a caso, dopo la morte di Gheddafi si sarebbero avuti due Governi, due Parlamenti, 140 organizzazioni tribali e 230 milizie: una condizione protrattasi nel lungo termine, con ulteriori scontri in primo luogo ideologici tra le fazioni islamiste e quelle di segno opposto, resi a più forte ragione ingovernabili proprio dal tribalismo.
Nonostante l’acceso nazionalismo islamista, il tentativo di «entente cordiale» perseguito da Berlusconi dimostra che, almeno in determinate circostanze, il dialogo avrebbe potuto avere qualche probabilità di successo, tanto più che non era mancato qualche segnale di apertura, come quello che aveva visto un figlio di Gheddafi protagonista, per qualche tempo, nel massimo campionato di calcio italiano. L’apertura fu consolidata grazie a importanti investimenti italiani in Libia, a cominciare da quelli in grandi opere pubbliche, ma non ebbe seguito organico a causa delle vicende interne che alla fine avrebbero liquidato l’esperienza politica del Cavaliere.
Oggi, i rapporti con l’Italia restano certamente precari, sebbene la contiguità sia un fatto oggettivo ben dimostrato dal confine marittimo chiaramente ridotto, in guisa da farne il «partner» occidentale decisamente prioritario dal punto di vista delle potenzialità, ma nello stesso tempo, anche la testa di ponte a favore di sbarchi certamente improduttivi e anche rischiosi, a causa di un’immigrazione non priva di componenti pregiudizievoli. Storicamente, la realtà è stata diversa[2]: dopo il conflitto italo-turco del 1911 e la fine della Grande Guerra, le relazioni con Tripolitania e Cirenaica furono improntate alla collaborazione, prevalendo sulle ricorrenti suggestioni indipendentiste, e giungendo a intese di cospicuo e reciproco interesse che avrebbero potuto essere ulteriormente ottimizzate qualora non fosse sopravvenuta la tragedia della Seconda Guerra Mondiale.
A circa 15 anni dalla cruenta scomparsa del Colonnello, emblematica di quanto possano essere mutevoli le fortune dei dittatori, un bilancio storico può essere tracciato riconoscendogli le premure per uno sviluppo economico compromesso dal Conflitto Mondiale e dal conservatorismo di Idris supportato dalle maggiori Potenze Occidentali; ma nello stesso tempo, dovendosi prendere atto di una scelta rigidamente islamista che ormai non fruiva di condivisioni generali, a cominciare dal possibilismo di alcuni Paesi leader del mondo musulmano come l’Arabia Saudita e la Turchia, certamente non condiviso da Gheddafi e dalla sua posizione di netta chiusura nei confronti di un dialogo di possibile convenienza per tutte le parti in causa.
In tutta sintesi, si può dire che Gheddafi sia stato vittima del suo stesso oltranzismo, enfatizzato da improbabili alleanze africane, e compromesso da atteggiamenti di chiusura troppo netta nei confronti dell’Occidente, riveduti solo parzialmente, e soprattutto, troppo tardi. In ultima analisi, un giudizio d’approccio non può prescindere dal fatto che il Colonnello Gheddafi sia stato condannato, in primo luogo, dalla sua inesauribile intransigenza.
1 Nel celebre discorso di Misurata, Gheddafi volle affermare senza mezzi termini che era necessario «ripulire la Libia dai rimasugli del passato coloniale» e soprattutto dalle «usurpazioni» perpetrate dall’Italia. Tali dichiarazioni furono contestuali all’imposizione di lasciare la Libia entro sette giorni, corroborata dal sequestro di tutti i beni di proprietà italiana; nella migliore delle ipotesi, i profughi partirono con una sola valigia di effetti personali.
2 La bibliografia di competenza è notevolmente circoscritta. Per un primo inquadramento di sintesi, confronta Del Boca, Gheddafi: una sfida al deserto, Laterza, Bari 2010; Novati-Calchi, L’azione internazionale di Gheddafi fra ideologia e politica, in «Africa» numero 2/2008, pagine 375-404.
