I dittatori africani
Il malgoverno ha messo in difficoltà anche
i paesi africani potenzialmente ricchi
Tutti i paesi afroasiatici con poche eccezioni, terminato il periodo del colonialismo, si diedero strutture dittatoriali, in gran parte di tendenze socialiste nazionaliste. Molti di questi hanno intrapreso conflitti con i paesi vicini, perseguitato le minoranze etniche e hanno avuto leader più interessati al loro arricchimento personale che al bene del paese.
L’Africa sub-sahariana fu l’ultima regione a essere interessata dall’attività di movimenti indipendentistici e a ottenere l’affrancamento dal dominio coloniale. Come nelle altre regioni, il processo di decolonizzazione ebbe caratteristiche diverse a seconda della potenza colonizzatrice e tale fattore si fece sentire anche nel diverso sviluppo fra nazioni anglofone e francofone. Secondo la descrizione dell’Africa del giornalista e storico inglese Paul Johnson, a parte la Costa d’Avorio, il Kenya e la Nigeria (in seguito alla scoperta del petrolio), le condizioni di vita del continente peggiorarono notevolmente nei decenni successivi alla decolonizzazione. Nei settori delle comunicazioni e in quello sanitario si registrarono dei regressi che sommati ai gravi problemi ambientali: desertificazione, deforestazione, eccessivo incremento demografico, hanno causato uno stato di stagnazione economica esteso a tutto il continente.
L’Africa occidentale che si affaccia sul Golfo di Guinea, regione relativamente più popolosa rispetto al resto del continente nero, fu quella dove si ebbero i più attivi movimenti anticolonialisti, e una serie di crisi che destarono l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale.
Il Ghana, uno dei paesi relativamente più evoluti economicamente e politicamente, fu il primo paese dell’Africa sub-sahariana a raggiungere l’indipendenza, attraverso un processo di riforme graduali.
Ottenuta la piena sovranità nel 1957, il paese conobbe una involuzione a carattere autoritario, attraverso la repressione dell’opposizione, l’emanazione di leggi che prevedevano la detenzione fino a cinque anni senza processo e l’allontanamento dei giudici non graditi dal governo centrale. Anche le autonomie locali e i poteri tradizionalmente riconosciuti alle tribù vennero aboliti e concentrati nelle mani di funzionari di nomina governativa con grave danno per le popolazioni che vivevano nelle regioni interne del paese. L’artefice del nuovo stato africano, Kwame Nkurumah, eliminò in breve tempo gli avversari ed ex alleati politici, concentrò tutti i poteri dello stato nella sua persona e divenne oggetto di un culto della personalità che fondeva elementi religiosi e principi marxisti. Negli anni successivi il leader africano, che si fece insignire del titolo di Osagiefo (= Redentore), fece erigere numerosi monumenti alla sua persona, e si diede a un lusso sfrenato, dissipando fra l’altro una parte delle non floride finanze dello stato.
Mentre Nehru o Nasser venivano esaltati come grandi personaggi, il leader africano al pari di Kim il Sung in Corea si propose come qualcosa al di sopra degli altri esseri umani, toccando livelli patologici che influirono negativamente sulla vita del paese. Parlando dei leader dei nuovi paesi africani, di cui Nkrumah rappresentava uno degli esempi più significativi, il presidente zambiano Kenneth Kaunda ha sostenuto una sua personale tesi: «So bene che molti dirigenti dei nuovi stati africani sono stati aspramente criticati per aver dato alla propria immagine dopo l’indipendenza proporzioni sovrumane. Da qui derivano le accuse di fascismo o di messianismo. Sono critiche però che non tengono abbastanza conto della funzione del capo per salvaguardare l’unità nazionale. Spesso il capo è il solo punto fermo di una società in rapida e tumultuosa trasformazione. Non si può negare comunque che l’esaltazione del capo comporti dei rischi. È necessaria una forte fibra morale per non lasciarsi corrompere da un eccesso di potere e la sua politica deve essere tanto razionale da convincere anche l’ultimo cittadino che non agisce per fini esclusivi del potere ma al servizio della nazione». Lo stesso Kaunda ha infatti dimostrato con la sua azione di governo che è possibile dirigere nazioni anche eterogenee dal punto di vista etnico-culturale senza degenerare nell’autoritarismo.
Sul piano economico l’esperimento di Nkrumah si risolse in un fallimento e provocò la formazione di una vasta opposizione popolare nel paese. Vennero realizzati dei grandi complessi industriali inservibili, nazionalizzate numerose industrie e le piantagioni di cacao di cui il paese era stato il maggiore produttore mondiale, e imposta una serie di restrizioni al commercio che risultarono fatali all’economia. Il governo amante delle grandi realizzazioni, progettò la costruzione di una imponente diga sul fiume Volta; il progetto venne portato a termine negli anni successivi, ma la situazione economica difficile ne ha impedito la piena utilizzazione e non ha potuto impedire il consistente calo della produzione agricola e alimentare.
Il leader africano prima di essere rovesciato nel 1966 da un colpo di stato militare legò il suo nome ad alcune importanti iniziative nel campo della politica estera con la creazione di una confederazione con la Guinea (anch’essa retta da un regime marxista), la sottoscrizione di un accordo con la Cina Popolare e soprattutto con il progetto per l’unità africana che sebbene sia stato oggetto di alcune conferenze internazionali non ha trovato alcuna attuazione. Il momento di maggiore popolarità internazionale venne raggiunto nell’aprile del 1958 con l’organizzazione della conferenza di Accra dove venne posto l’obiettivo di superare la contrapposizione del mondo in due blocchi, combattere il colonialismo e il razzismo, fornire appoggio ai movimenti indipendentistici antifrancesi dell’Algeria e dell’Africa occidentale, ma come molte altre iniziative non superò la fase dei semplici propositi.
La Guinea, anch’essa relativamente ricca di risorse naturali, conobbe uno sviluppo non diverso da quello del vicino Ghana. Il paese raggiunse l’indipendenza nel 1958 sotto la guida del leader politico Sekou Tourè, il quale cercò di instaurare nel paese un regime marxista particolarmente rigido, diverso dai governi ispirati al «socialismo africano» diffusi nel resto del continente. L’estremismo di questo governo portò il paese alla rottura delle relazioni diplomatiche con la Francia (accusata di complotto contro il presidente), a uno stato di tensione con gli altri paesi dell’area francofona e con lo stesso regime progressista senegalese di Senghor. Il paese nonostante il suo isolamento ottenne degli aiuti dagli Stati Uniti e soprattutto dalla Cina che non alleviarono comunque la difficile situazione economica del paese.
Nel corso degli anni Sessanta le minoranze etniche non appartenenti al gruppo di potere dominante furono oggetto di dure repressioni (si contarono un numero incredibile di prigionieri politici, di internati nei campi di concentramento e circa due milioni di profughi in un paese che contava cinque milioni di abitanti), eliminati numerosi ex compagni politici di Tourè e istituita una milizia popolare per far fronte ai numerosi complotti politici (o ritenuti tali) contro la sicurezza del paese. Nel 2002 venero scoperte fosse comuni con i cadaveri di 50.000 persone.
L’economia della Guinea, nonostante le sue notevoli risorse, ha conosciuto una involuzione non inferiore a quella del vicino Ghana. L’aspra contesa con la Francia determinò la fuga della maggior parte dei cittadini francesi lasciando il paese sguarnito di quadri e di tecnici. Vennero nazionalizzate le banche, le attività commerciali e le aziende straniere e riorganizzata l’agricoltura con una rigida collettivizzazione delle terre. Come nella Cina comunista a cui il regime si ispirava, vennero creati comitati di villaggio e fatto largo ricorso alla mobilitazione delle masse, istituzioni attraverso le quali il governo centrale del paese attuava il suo sistema di controllo sulla collettività. Solo il settore minerario sfuggì al controllo dello stato e i diritti delle società straniere in questo settore vennero sostanzialmente rispettati, per impedire il disastro economico del paese.
Nel 1970 la Guinea subì una grave violazione da parte di mercenari guidati da ufficiali bianchi che cercarono di neutralizzare le basi dei movimenti guerriglieri della Guinea Portoghese, azione che avrebbe potuto avere più gravi conseguenze e implicazioni internazionali. In seguito a questo episodio e alle proteste popolari per le restrizioni sul commercio, il regime di Conacry pur mantenendo intatte le sue strutture dittatoriali, ricercò un compromesso con i paesi vicini e riprese le relazioni con il governo francese. Il governo comunista non poté comunque sopravvivere alla morte del suo leader nel 1984 e di lì a poco venne sostituito da un regime militare che comunque si rese anch’esso responsabile di gravi atti contro le minoranze etniche e non garantì la pacificazione del paese.
Anche il Mali, che per un breve periodo di tempo costituì una sorta di federazione con la Guinea, ha conosciuto un sistema di collettivizzazione delle terre che ha prodotto come maggiore risultato un calo nella produzione del miglio, alimento base della popolazione, l’ostilità dei nomadi Tuareg, dei capi tradizionali musulmani e una notevole inflazione, che ha provocato un netto peggioramento della situazione economica del paese.
Negli anni Settanta, dopo una dura guerra civile su base tribale, in Congo si affermò il generale Sese Seko Mobutu. Il paese è particolarmente ricco di risorse minerarie ma queste non hanno comunque contribuito allo sviluppo della nazione e sono state utilizzate con grande discrezione dal presidente che divenne uno dei personaggi più potenti e ricchi del continente africano. Secondo le affermazioni dello stesso ex segretario di stato americano Cyrus Vance, Mobutu si era impossessato nel corso degli anni della maggior parte delle riserve della banca centrale dello Zaire e diversi uomini di governo risultavano implicati nell’esportazione illegale di oro e cobalto. Nel 1990 si sono avute proteste studentesche sostenute anche dalla Chiesa Cattolica represse con violenza dalle autorità e disordini di vario tipo che hanno provocato una situazione di instabilità e di nuovi contrasti etnici. La situazione è stata in parte superata con l’allargamento del governo ad altri gruppi politici senza comunque realizzare una autentica democratizzazione della vita politica del paese.
Anche la poco conosciuta Repubblica Centrafricana ha avuto il suo momento di popolarità, intorno agli anni Settanta, quando il generale Jean Bokassa, già presidente a vita, si fece nominare nel 1977 imperatore. Nel 1976 si convertì per un breve periodo all’islamismo e si alleò con la Libia di Gheddafi. La dissipazione di fondi dello stato e l’uccisione di oppositori politici divenne la regola di governo fino a quando, con l’appoggio delle truppe francesi, vennero restituiti i poteri al precedente presidente Dako che riportò una relativa normalità nel paese.
L’Africa orientale e anglofona ha conosciuto governi più moderati e conservatori (almeno secondo il significato che si è soliti attribuire a questo termine) rispetto a quelli dell’Africa occidentale francofona. Tuttavia nelle sue regioni più arretrate i conflitti etnici hanno assunto proporzioni notevoli più volte degenerati in episodi gravissimi di violenza. Una significativa eccezione a questa situazione è rappresentata dalla Tanzania che per un certo periodo di tempo ha sperimentato una originale «via africana al socialismo», lontana comunque dagli eccessi di altri paesi.
Come negli altri paesi socialisti del continente vennero eliminati i poteri locali delle dinastie tribali, ma la caratteristica fondamentale del governo di Julius Nyerere è stata la rivalutazione dell’agricoltura e della società rurale rispetto all’industria e all’organizzazione urbana. Secondo i principi della Carta di Arusha del 1967 la Tanzania doveva procedere essenzialmente contando sulle sue forze e sul «capitale umano» anziché dipendere dagli aiuti dall’estero, nonché occorreva riorganizzare la società su un modello cooperativistico incentrato sui villaggi ujamaa (= famiglia), una forma di collettivizzazione che a differenza di altri paesi africani rispettava le usanze locali delle comunità. A tal fine vennero nazionalizzate le terre, ma anche importanti settori dell’economia e del commercio. Tale politica portò tuttavia, come lo stesso Nyerere riconobbe, alla formazione di una burocrazia inefficiente e corrotta. In una intervista del 1987 il Mwalimu (= il Maestro) parlando del periodo precedente affermò: «Io credevo nelle nazionalizzazioni. Ma dal punto di vista del management non eravamo pronti. Non sapevamo come si gestisce un’industria. Perciò ecco, se dovessi rifarlo... L’industria del sisal [una fibra vegetale che costituiva la principale industria tessile del paese] non la nazionalizzerei», analogamente in molti campi ritenne che si sarebbe potuto procedere con maggiore moderazione.
Anche Nyerere credeva che le riforme economiche dovessero precedere quelle politiche: «Fino a che la nostra battaglia contro la povertà, l’ignoranza e la malattia non sarà vinta» sostenne in un suo discorso durante la fase della mobilitazione delle masse, «non lasceremo che la nostra unità venga distrutta da codici di regole estranei» (in pratica il rifiuto della democrazia) e a tal proposito vanno riconosciute al governo tanzaniano alcune realizzazioni significative nel campo sanitario e scolastico. Per un certo periodo sembrò che alcune innovazioni si ispirassero al modello cinese, vennero presi provvedimenti contro il vagabondaggio, l’ubriachezza e l’ozio e creata una organizzazione che ricordava quella delle Guardie Rosse, tuttavia si mantenne rigorosamente lontano dagli eccessi di questo e il numero di detenuti politici, risultò sempre particolarmente basso. Il paese ha goduto di una notevole stabilità interna decisamente superiore a quella di molti altri paesi africani, tuttavia la difficile situazione economica degli anni ’73-’74, caratterizzata da un forte debito verso l’estero, ha portato il paese a una politica più moderata, all’eliminazione di alcune istituzioni socialiste e all’accettazione di una parte notevole delle indicazioni del Fondo Monetario Internazionale.
La Tanzania ha seguito una politica estera particolarmente attiva, ispirata al panafricanismo, ricercando comunque la collaborazione sia dei paesi occidentali, sia di quelli comunisti e della Cina. Più difficili sono risultati i rapporti con i paesi vicini; dopo un tentativo fallito di federazione con l’Uganda e il Kenya si ebbero notevoli attriti che diedero vita a reciproci sconfinamenti di truppe. La politica di solidarietà africana portò la Tanzania a costituire una importante base d’appoggio per i movimenti guerriglieri anticolonialisti che operavano in Rhodesia e nell’Africa portoghese.
La regione attorno al Lago Vittoria, considerata dagli inglesi come una delle più belle d’Africa, è stata teatro di drammatiche vicende. In Uganda il generale Idi Amin, un semianalfabeta dedito ai riti di stregoneria, instaurò negli anni Settanta con l’appoggio della Libia una feroce dittatura. Nel 1965 non ancora al potere venne accusato di contrabbando. Più tardi arrivò al potere (presidente a vita) con un colpo di stato. Espulse dal paese gli indiani che costituivano il ceto medio del paese con grave danno per l’economia della nazione. Vennero uccisi numerosi oppositori politici e massacrate le tribù rivali – si parla di circa 300.000 morti in un breve periodo di tempo – ma i gravi atti di violenza di cui si è macchiato il dittatore non hanno impedito al governo di disporre del sostegno della maggioranza degli stati africani e di ottenere diversi riconoscimenti internazionali. La caduta del dittatore nel 1977 per opera dell’ex presidente Obote e dell’esercito tanzaniano non ha riportato la calma nel paese e negli anni successivi si ebbero nuovi massacri e saccheggi, che hanno isolato il paese dal resto del mondo.
L’Africa ex italiana ha costituito e costituisce una delle zone più arretrate e povere dell’intero continente e il teatro di numerose dispute etnico-politiche. Nel corso degli anni Sessanta il governo dell’imperatore Haile Selassiè, capo politico e religioso della nazione etiope, ha proceduto a limitate riforme che non hanno intaccato la struttura arretrata del paese e l’assoggettamento delle popolazioni contadine al potere feudale degli aristocratici locali. Si sono avute pertanto numerose proteste represse con brutalità dalla polizia segreta e la rivolta dell’Eritrea, paese formalmente indipendente, legato all’Etiopia da un trattato federale.
Nel 1974 una grave carestia nel paese ha portato a un colpo di stato diretto da giovani ufficiali finalizzato non solo a rovesciare l’anziano e odiato imperatore, ma anche ad abolire i privilegi feudali e a introdurre una serie di riforme politiche ed economiche. Dopo due anni caratterizzati da incertezze politiche e rivolte contro la collettivizzazione delle terre, il potere venne assunto dal colonnello Haile Menghistu. La persecuzione, negli anni successivi, delle tribù ritenute ostili provocò la morte di migliaia di persone e circa un milione e mezzo di profughi che cercarono rifugio nei paesi vicini. Contemporaneamente si ebbe l’inasprimento della guerra con l’Eritrea e un nuovo conflitto con la Somalia per il possesso dell’Ogaden, una regione semidesertica abitata da popolazioni somale. Il sostegno sovietico al governo di Addis Abeba risultò determinante per l’andamento del conflitto, ma nel 1984 e nel 1987 si ebbero due nuove carestie che sconvolsero il paese e provocarono la morte di oltre due milioni di persone. Per fronteggiare la situazione il governo italiano stabilì l’invio di consistenti aiuti che tuttavia vennero utilizzati dal governo etiope più per neutralizzare l’azione delle popolazioni contrarie al regime che per prestare soccorso alla grande massa di profughi. La tragedia dello sfortunato paese ebbe termine nel 1991 quando il ritiro sovietico e l’estendersi della rivolta al Tigrai e ad altre parti del paese costrinse alla fuga il dittatore.
Anche la Somalia, sebbene costituisca uno dei rari esempi di paese africano omogeneo sul piano etnico e religioso, è stata teatro di drammatiche vicende. Nel ’69 un colpo di stato militare portò al potere un regime marxista, che tentò di eliminare le autorità tradizionali locali e imporre delle forme di controllo sulle popolazioni nomadi. Dopo la sfortunata guerra dell’Ogaden si crearono nel nord e nel sud del paese movimenti di opposizione al governo del generale Siad Barre. L’unione di questi gruppi nell’estate del 1990 ha determinato la caduta del dittatore, tuttavia la degenerazione del conflitto nello scontro fra bande rivali ha prodotto una grave carestia nel paese e la fuga di centinaia di migliaia di somali nel nord del Kenya.