Venezia, la Repubblica Serenissima
Dal Trecento al Cinquecento, Venezia brilla della sua luce più fulgida sul piano politico, economico e culturale

Nei secoli del Rinascimento, la Repubblica di Venezia è il più potente e ricco Stato Italiano. In realtà, la seconda metà del XIII secolo ha visto l’apogeo della potenza genovese: nel 1284 la Superba sconfigge Pisa alla Meloria e nel 1298 assale Venezia nelle sue stesse acque, sconfiggendola a Curzola, presso la costa dalmata; ma nonostante altre sconfitte e il tradimento di Marin Faliero, Venezia riesce a riprendersi e grazie a Vittor Pisani trionfa su Genova e i suoi alleati nella Guerra di Chioggia, quando le galere genovesi che si sono temerariamente spinte nella laguna vi sono imbottigliate dai dromoni della Serenissima e colate quasi tutte a picco; l’anno successivo, il 1381, la pace di Torino riconosce a Venezia la supremazia marinara. Fino al 1453, la sua egemonia sull’Adriatico e il Mediterraneo Orientale è assoluta; solo dopo la caduta di Costantinopoli nelle mani dei Turchi, Venezia perde buona parte dei vecchi mercati balcanici e asiatici e deve volgersi alla terraferma, dove viene in urto con le altre Signorie Italiane, soprattutto con Milano.

La sua potenza militare ed economica si basa su una flotta moderna e perfettamente addestrata, su una classe di mercanti abili, dinamici, audaci, su una capillare rete di scali internazionali. La sua marineria è la migliore del mondo, i suoi ammiragli sono i più abili e conoscono a menadito tutte le rotte: le sue navi solcano il Mediterraneo, l’Adriatico, il Mar Egeo, toccano le coste dell’Asia. Ovunque sorgono fondachi veneziani, piccole città coi loro depositi, alberghi, ospedali e chiese; godono d’immunità e privilegi e il balivo che li governa, nominato dal Doge, ha poteri di vita e di morte sugli abitanti, amministra la giustizia, svolge funzioni di console. Da questi fondachi, giungono nella città lagunare tappeti, pietre preziose, legni pregiati, resine, damaschi, spezie, schiavi utilizzati non come lavoratori dei campi ma come domestici, guardie personali, balie asciutte e concubine (il Doge Pietro Mocenigo, all’età di settant’anni, tiene due schiave turche per i suoi piaceri carnali); le merci non invadono solo la Repubblica, ma raggiungono le città del Nord, il porto di Anversa e perfino l’Inghilterra. I prodotti che arrivano grezzi vengono lavorati nel territorio veneto e ripartono raffinati. Il denaro circola velocemente: guadagnano gli armatori che costruiscono le navi, quelli che le noleggiano, i mercanti che le riportano cariche di mercanzie. Venezia diventa il principale emporio europeo.

Ma la città non deve la sua ricchezza solo alla flotta. Ha una fiorente industria, quella del vetro (prospera anche oggi). Nelle vetrerie di Murano (sottoposte alla stretta vigilanza dello Stato, geloso custode dei segreti di lavorazione) vengono modellati con rara maestria splendidi cristalli – vasi, tazze, calici – che fanno ottima mostra sulle mense principesche. Un’altra importante industria è quella delle armi che rifornisce le Corti di mezza Europa di elmi, corazze, scudi, pugnali abilmente cesellati e stupendamente intarsiati d’oro e d’argento.

Venezia ha anche una politica estera accortissima che le permette di gettare uno sguardo su tutto quello che avviene negli altri Stati. Per i suoi commerci, ha bisogno di conoscere che cosa succede sui vari mercati, di allacciare relazioni, di fare amicizie: abilissimi inviati, spie e astuti diplomatici sono penetrati in tutte le Corti, anche nei Balcani, da dove inviano rapporti settimanali (le famose «relazioni») sulla situazione politica e su quella economica.

Se Venezia è ricca, i suoi sistemi politici sono andati però peggiorando. Il popolo che fin dal VII secolo – da quando gli isolotti della laguna si sono confederati per difendersi dai barbari – partecipava alla vita pubblica, ora è messo lentamente in disparte. La città lagunare gode però di una grande stabilità politica, che poggia su un governo aristocratico, oligarchico. Il potere è in mano ad un certo numero di famiglie, quelle registrate nel Libro d’Oro del 1297, che ne controllano l’esercizio attraverso il Maggior Consiglio, l’organo legislativo supremo: la legge stabilisce che possono far parte del Consiglio solo coloro che ne hanno già fatto parte, o che hanno avuto antenati in esso – poco più di cento famiglie (banchieri, armatori, grandi mercanti) hanno in mano le redini del governo. Organo esecutivo è il Doge, il cui potere diventa sempre più simbolico: si limita a ratificare gli atti di coloro che l’hanno eletto e che possono deporlo in qualsiasi momento; con i sei consiglieri annuali e i tre della Quarantìa (un tribunale supremo costituito da quaranta membri), il Doge forma la «Serenissima Signoria». Ogni suo gesto è un rito, destinato a colpire la fantasia del popolino: abita il Palazzo Ducale, sfavillante di ori, marmi e mosaici, foderato di sete e tappeti e che supera in sfarzo e monumentalità la reggia dell’Imperatore di Costantinopoli; la sua uscita è annunciata da squilli di tromba, dal suono delle campane, dai bandi degli araldi; compare issato su un seggio, ricoperto di un drappo dorato, sotto un pesante e sgargiante parasole, preceduto da un corteo di trombettieri, di portabandiera e di dignitari e seguito dai membri del Maggior Consiglio, le alte cariche dello Stato, gli ambasciatori stranieri e il Capitolo di San Marco. Gli oppositori di questa sistemazione politica, Balamonte Tiepolo nel 1310 e il Doge Marin Faliero nel 1355, vengono eliminati: il primo deve emigrare in Dalmazia e il secondo viene giustiziato con altri congiurati, decapitato sulla Scala dei Giganti.

Venezia ha un ulteriore punto in più rispetto alle altre città: non ha sommosse né lotte intestine. Il Governo vigila attentamente, e chi cerca di fomentare rivolte lascia la testa sotto la mannaia. Il Consiglio dei Dieci, istituito nel 1310, regge la Repubblica con mano di ferro: i suoi membri sono dotati di poteri pressoché illimitati e di un’assoluta indipendenza. Vigilano su ogni aspetto della vita pubblica e privata dei cittadini, indagano su quelli sospetti, ne spiano le mosse, vagliano le denunce anonime dando corso a quelle fondate, raccolgono testimonianze, incoraggiano le delazioni. Hanno al proprio servizio centinaia di spie che riferiscono al Consiglio ogni voce che si faccia in città, e non solo: esse pullulano soprattutto a Genova, la più temibile concorrente di Venezia. La lealtà di chi entra a far parte del Consiglio dei Dieci deve essere verso la Repubblica a prova di bomba ed altrettanto sperimentata la sua incorruttibilità.

Venezia

Vittore Carpaccio, Miracolo della reliquia della Croce a Rialto, Gallerie dell'Accademia, Venezia (Italia)

Dal Trecento al Cinquecento, Venezia è la città più prospera della Penisola, ovvero dell’Europa intera, la più fastosa ed allegra: durante le feste le gondole vanno ricoperte di arazzi, gli amanti si aggirano mascherati e le acque sciabordanti echeggiano di canzoni. Ogni scusa è buona per organizzare sfilate e cerimonie: l’entrata in carica di un Doge, qualche festività religiosa o civile, la visita di un dignitario straniero, la conclusione di una pace vantaggiosa, il Gharingell (o festa della donna), il giorno di San Marco o del Santo Patrono di una «scuola»; la più grande festa dell’anno è «Lo sposalizio del mare», rito solenne e pittoresco con cui Venezia viene sposata all’Adriatico. In onore della visita di Beatrice d’Este nel 1493, il Canal Grande è adorno per tutta la sua lunghezza, come una grande via cittadina nel periodo natalizio; la nave «Bucintoro», simbolo dello Stato Veneto e tutta decorata di porpora e d’oro, le va incontro mentre un migliaio di barche le fanno ala, ciascuna ornata di ghirlande e di stendardi; tante sono le imbarcazioni, dice un cronista entusiasta, che per un miglio non si riesce a veder l’acqua. Quando il Cardinal Grimani dà un ricevimento in onore di Ranuccio Farnese, nel 1542, invita tremila persone, che per lo più vengono in gondole coperte, ammorbidite all’interno con velluti e con cuscini, e offre loro musica, giochi d’acrobazia e di funambolismo, danze e banchetti.

Durante il Rinascimento, il Canal Grande si copre di meravigliosi palazzi: le facciate di marmo bianco, di porfido o di serpentino, le sottili colonne tortili, gli esili balconi a rosoni, le finestrelle binate e gli archi rinascimentali conferiscono a questi edifici la preziosa levità di un merletto e li fanno somigliare alle cesellate miniature di un orefice. Hanno portali scolpiti che si aprono sull’acqua, cortili nascosti adorni di sculture, di fontane, di giardini, di affreschi e di urne. Gli interni di questi palazzi rigurgitano di suppellettili squisite e di mobili intarsiati, di gran pregio; i pavimenti sono di mattonelle o di marmo, le pareti foderate di mosaici, di arazzi, di tele, i soffitti a cassettoni, le volte decorate di affreschi di pittori di fama mondiale, gli zoccoli sfavillanti di monocromi dorati; troviamo camini possenti, vetrerie di Murano, baldacchini di seta, tendaggi di stoffe d’oro o d’argento, candelieri di bronzo dorato, smaltati o incisi. Il palazzo più splendido è la Ca’ d’Oro, così chiamata perché il proprietario, Marino Contarini, ha ordinato che ogni centimetro della facciata di marmo sia coperto di decorazioni, la maggior parte delle quali in oro; la sua loggia gotica e i trafori delle finestre ne fanno ancor oggi la più bella facciata del Canal Grande, oltre che una delle «meraviglie del mondo moderno».

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Facciata della Ca' d'Oro, Venezia (Italia); fotografia di Simone Valtorta, 2001

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Vista laterale della Ca' d'Oro, Venezia (Italia); fotografia di Simone Valtorta, 2005

La maggior parte dei membri delle classi benestanti si occupa del commercio, delle finanze, della diplomazia, del governo e della guerra; i ritratti che possediamo ce li mostrano come uomini pienamente consci della propria personalità, fieri della loro posizione, ma anche gravi, per un senso spiccato del dovere. Una minoranza veste pellicce e abiti di seta, ed una compagnia di giovanotti, detta «La compagnia della Scalza», ostenta corsetti attillati, broccati di seta e calze rigate in oro o in argento o incastonate di gemme; se però diventa membro del Consiglio, ogni patrizio porta la toga, perché con una veste lunga qualsiasi uomo acquista dignità ed ogni donna si ammanta di mistero. Normalmente la nobiltà veneziana vive, mangia e si veste con stile ma con parsimonia, guadagnandosi il proprio sostentamento.

Le classi medie fanno parte delle gerarchie minori della Chiesa, della burocrazia del Governo, delle categorie dei medici, degli avvocati, dei pedagoghi, o si occupano dell’industria e delle «scuole», delle operazioni matematiche, del commercio estero e del controllo dei traffici locali. Giocano a carte, ai dadi, agli scacchi, suonano strumenti musicali, cantano e danzano; c’è chi, nei giorni di festa, improvvisa danze o cori sulle pubbliche piazze.

La licenziosità e la dissipazione proprie del carattere veneziano, stanno accanto alla fede più rigida ed alle ricorrenti opere di pietà. Il popolino affolla San Marco alla domenica o nelle altre feste: la voluta oscurità di quell’antro popolato di colonne intensifica l’effetto delle pitture e delle prediche ed anche le prostitute – nascondendo il fazzoletto giallo che la legge impone loro di portare come segno distintivo della poco nobile «professione» – vi si recano, dopo una notte estenuante, a purificarsi con la preghiera. Il Senato Veneziano favorisce questa pietà popolare, circonda il Doge di tutto il rispetto dovuto ai riti religiosi, fa importare con grande spesa reliquie di Santi Orientali dopo la caduta di Costantinopoli e si offre di pagare diecimila ducati per la tunica in un sol pezzo di Gesù.

Tra le arti, la pittura fa rapidi progressi e annovera figure di geniali artisti che affrescano le dimore dei nobili più ricchi, i Foscari, i Gritti, i Tiepolo, i Contarini, i Loredan, i Giustiniani, i Barbari, i Vendramin, i Grimani. A Padova lavora un grandissimo pittore, Andrea Mantegna (1431-1506); del suo influsso risentono le pitture dei Veneziani suoi contemporanei: Bartolomeo Vivarini (che lavora tra il 1450 e il 1499), i due fratelli Gentile (1429-1507) e Giovanni Bellini (1435-1516), figli di Jacopo Bellini, i maggiori pittori del momento. Le decine di Madonne dipinte da Giovanni Bellini riempiono chiese, palazzi e conventi (non c’è museo al mondo che non ne possegga una), mentre Gentile – nelle cui opere sa cogliere con fedeltà e realismo tutti i dettagli – viene perfino chiamato dal Sultano Maometto II per un ritratto. Le loro opere sono oggi conservate soprattutto nelle Gallerie Veneziane e a Milano.

Madonna Greca

Giovanni Bellini, Madonna Greca, 1465 circa, Pinacoteca di Brera, Milano (Italia)

La cultura è tenuta in grande onore: non c’è patrizio che non possegga una biblioteca o non spalanchi le porte del suo palazzo a letterati o poeti, mentre le dame dell’alta società accolgono nei loro salotti teologi e filosofi; le scuole sono aperte a tutti, non solo ai rampolli dei nobili o dei ricchi borghesi, ma anche ai figli del popolo. La città è una delle capitali dell’editoria, i libri che nella seconda metà del Quattrocento escono dai suoi torchi sono per eleganza di caratteri, qualità di carta e perfezione di stampa degli autentici gioielli (i più bei libri stampati di tutti i tempi); alla fine del secolo, solo a Venezia sono stati editi 2.835 volumi. La maggior parte di questi recano la firma di un geniale tipografo, Aldo Manuzio, originario di Bassiano vicino a Velletri, trasferitosi giovanissimo a Roma, traduttore di classici dal greco ed insegnante di grande sapere; a Venezia arruola uno stuolo di filologi e di dotti, e affida loro la scelta e il commento dei testi, stampati in edizioni economiche, alla portata di tutti.

La civiltà veneziana, meno acuta e profonda di quella fiorentina e meno fine e graziosa di quella milanese dello stesso periodo, è tuttavia la civiltà più colorita, più sontuosa e più incantevole e sensuale che la Storia abbia mai conosciuto!

(ottobre 2014)

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