Le sofferenze di Tasso
Prima parte

Di che cosa soffriva Torquato Tasso, quando fu recluso nell’ospedale Sant’Anna di Ferrara? Capirlo è un problema molto complesso e per vari motivi, che cerco di sintetizzare qui di seguito.

1) Finora non ho trovato disamine veramente approfondite, bensì delle proposte di diagnosi, di solito orientate verso la «malinconia» (cioè un problema depressivo) o comunque delle ricognizioni spesso ottocentesche[1]; del resto, specie a partire dal Romanticismo (si pensi a Byron), si è diffuso il mito del Tasso poeta «incompreso», vittima degli Estensi e della ragion di Stato (non a caso, il tema del «genio incompreso» è tipicamente romantico).

2) In secondo luogo, fare una «diagnosi» a distanza, senza il paziente vivo di fronte, è esercizio rocambolesco e che rischia di far violenza a un contesto storico-culturale diverso. Secondo la psicobiografia la «diagnosi» finisce per essere riduttiva, una sorta di etichetta iper-semplificata, che non rende la complessità della storia del singolo; meglio un’interpretazione complessiva, un «cluster of motives», cioè un complesso insieme di motivazioni convergenti, coerenti, che attingano e spieghino una grande messe di dati: Schultz, il curatore del principale manuale di riferimento, evoca il «mistero» che scaturisce da ogni storia e in particolare da quella dei grandi personaggi, la «poesia» che costituisce ogni persona[2]. Tuttavia, credo che questa visione complessa possa convivere perfettamente con una diagnosi, indispensabile a fare chiarezza, ma aperta alla ricchezza e complessità.

3) Infine e soprattutto: il Tasso è un caso veramente complicato e «a più strati». Pur non essendo io né una psichiatra, né tanto meno una psicologa, ma essendomi interessata moltissimo e con passione a questi soggetti, cercherò di vagliare i dati a disposizione e di presentare qui un primo risultato delle mie ricerche che, lo sottolineo, sono ancora «in fieri».

I disturbi del Tasso, nella mia lettura, sembrano un concentrato dei problemi psicologici dell’epoca: ogni «strato» rinvia alla temperie coeva. Ma vediamo ora i dettagli. In questa prima parte esaminerò varie possibilità di lettura del disagio tassiano:

1) Esaurimento nervoso o «burn out».

2) La «melancolia» tassiana.

3) I problemi ossessivi e la «malattia degli scrupoli».

4) La mania di persecuzione.

Ma la questione è molto complessa e richiederà una seconda parte, in cui si toccherà il cuore dell’interpretazione.


Tasso in «burn out»?

Prima di tutto, Tasso iniziò a mostrare segni di cedimento intorno al 1574-1575, poco prima della fine della sua fatica decennale, la Gerusalemme liberata. Si era già ammalato seriamente nel 1567[3], ma si riammalò ancora due giorni dopo la morte del padre, nell’autunno 1569[4]; infine, nella seconda metà del 1574, probabilmente tra la fine dell’estate e l’autunno successivo, quando ormai era proprio alla fine della composizione, egli si ammalò di febbre tanto che era molto indebolito ancora in novembre[5]. Queste ricadute, coincidenti con periodi molto stressanti, lasciano intravvedere una certa dose di sofferenza psico-somatica da stress. Secondo Solerti, a proposito della malattia del 1574,

«Torquato non si riebbe dal suo male se non nella primavera dell’anno successivo, ma, a dir vero, neppure allora interamente, perché l’estate seguente ricadde malato»[6].

Infatti, si riammalò, pare gravemente, il 13 luglio 1575, quando aveva già iniziato la revisione del poema: anzi, in una sua lettera parla di «febbre, dolori e stupori di testa»[7], il che potrebbe far pensare appunto a un problema psicosomatico. In seguito, il poeta avrebbe attribuito le imperfezioni degli ultimi tre canti proprio a questo stato di malattia[8]. Verosimilmente, l’altissimo sforzo compositivo lo aveva esaurito.

Sempre in questo stesso periodo, il poeta mostra un atteggiamento sempre più scontento, volubile e irritabile, tanto che Ferrara cominciava a stargli stretta ed egli provò più volte a passare a servizio di un altro signore, anche se con numerosi tentennamenti e ripensamenti, segno di una forte indecisione e irresolutezza[9]. In varie lettere mostra stanchezza, esaurimento della vena creativa, debolezza, irritabilità; per esempio:

«La vena è così esausta e secca c’avrebbe bisogno de l’ozio d’un anno e d’una lieta peregrinazione per riempirsi»[10].

«Avrete i sonetti dal signor Orazio [Ariosti] poi che li volete a mio dispetto; ed il Signor vedrà da essi che io non sono più quel buon versificatore ch’egli si crede e che forse fui già. E certo ho bisogno di lungo riposo per riempire la vena esausta. O s’egli sapesse quanto peno a fare un verso m’avrebbe compassione»[11].

«Non posso vivere né scrivere […] Mi si volge non so che per l’animo»[12].

Ora, è vero che la vena di Tasso era estremamente ricca e difatti egli continuò a scrivere imperterrito anche negli anni della clausura a Sant’Anna; però la lirica era innanzitutto una prassi cortigiana e il poeta non si negava praticamente mai alla richiesta di sonetti, anche se essi divennero progressivamente di maniera e meno ispirati[13]. Per quanto riguarda i sintomi classici del «burn out», Tasso li mostra praticamente tutti (vari altri emergeranno nel seguito, specie nella parte sulla malattia da scrupoli):

1) Bassa autostima.

2) Costante stato di preoccupazione.

3) Difficoltà di concentrazione, agitazione, nervosismo.

4) Senso di delusione, demotivazione, infelicità, tristezza.

5) Sensi di colpa.

6) Indecisione, irresolutezza.

7) Rabbia e risentimento.

8) Avversione verso le relazioni sociali (in questo caso, non è che il Tasso le evitasse, ma le viveva con la tipica insofferenza di questa condizione)[14].

In effetti, il comportamento di Torquato Tasso negli anni a Ferrara potrebbe ricordare il forte assorbimento tipico della prima fase del «burn out» o «fase dell’entusiasmo idealistico»: l’individuo idealizza a tal punto la propria attività da esserne completamente risucchiato, tanto da sacrificare altre parti della propria esistenza[15]. Tasso era molto preso dall’ambiente di Corte e dalla propria attività poetica e forse per questo non costruì mai una vera e propria vita familiare, nonostante che si sia innamorato alcune volte. Anche i contatti con altre persone erano determinati molto spesso dalle esigenze imposte dalla revisione del poema, come è possibile notare dal suo epistolario. Con la seconda fase, quella di «stagnazione» e la terza, quella di «frustrazione», insorge invece un senso di delusione e insoddisfazione, mentre l’attività progressivamente cala e ci si sente (a torto o a ragione) sempre più sfruttati e poco apprezzati dagli altri, superiori e parigrado che siano. A questo punto, comincia la «fuga» dal lavoro, fino ad arrivare a un vero e proprio rigetto dello stesso: Tasso (come vedremo nel seguito) divenne estremamente insoddisfatto e diffidente, quasi «paranoico».

Ora, anche solo scorrendo le lettere è evidente che la Corte di Ferrara, la vita da cortigiano, con i suoi impegni, il suo codice di comportamento, l’attività poetica connessa, aveva assorbito completamente il Tasso negli anni precedenti; arrivato in fondo al poema, egli cominciò a essere scontento di Ferrara (laddove godeva sempre del credito di chi gli stava intorno), a tal punto da sognare di andarsene. In seguito diventò sempre più aggressivo, condizione tipica di questa fase e, progressivamente, sviluppò sintomi fisici tipici dello stress (stanchezza, mal di testa, insonnia, disturbi gastrici), per non parlare di quelli psicologici ed emotivi. Sembra proprio che Tasso abbia sperimentato questo ciclo di «burn out» in tutte le sue fasi. Anzi, non stupisce che i soggetti più a rischio di «burn out» siano proprio gli individui dalla personalità più esigente e che si consacrano completamente al lavoro (e Tasso era un grande perfezionista, come consta dall’annoso lavoro di revisione del suo poema, per cui ne dilazionò continuamente l’edizione). Quindi, possiamo asserire che l’esaurimento da troppo lavoro è molto verosimile e che è stato il letto, per così dire, su cui si sono poi accumulati vari altri problemi psichici: perché il seguito ce ne mostrerà numerosi altri.


Montaigne e gli altri

L’ipotesi che Tasso si fosse consumato per il suo poema aveva fatto scuola già fra i suoi contemporanei; anzi, il primo (a mia conoscenza) a proporla in modo coerente fu il famoso pensatore francese Michel de Montaigne, che giunto a Ferrara nel novembre 1580, avrebbe goduto del privilegio di vedere il Tasso. Montaigne sarebbe arrivato in città il 15 novembre 1579, poco tempo dopo l’imprigionamento del poeta, e sarebbe rimasto solo fino al 16; il brano però sul Tasso fu aggiunto alla ristampa degli Essais del 1582, quindi un po’ dopo (confronta Essais II, 12).

«Chi non sa quanto sia impercettibile la prossimità tra la follia e le valenti elevazioni di uno spirito libero e gli effetti di una virtù suprema e straordinaria? […] Un numero infinito di spiriti si trova rovinato dalla propria energia e sottigliezza; che salto ha appena compiuto a partire dalla propria agitazione e gioia uno dei poeti italiani più ricchi di giudizio, ingegno e formati alla temperie di questa antica e pura poesia, che siano mai esistiti? Non c’è forse da essere grati a questa sua mortale vivacità? A questa lucidità che l’ha accecato? A questa ansia per l’esattezza e la ragione, che gli ha tolto la ragione? Alla curiosa e laboriosa ricerca sulle scienze, che l’ha condotto alla follia? A questa rara attitudine agli esercizi spirituali, che l’ha privato dell’esercizio della sua anima? Provai ancora maggiore dispetto che compassione a vederlo a Ferrara in così pietoso stato, sopravvissuto a se stesso, dimentico di sé e delle sue opere che sono state date alla luce prive del suo sigillo e tuttavia al suo cospetto, prive di correzioni e informi»[16].

Solerti dubita non solo che Montaigne abbia potuto conoscere il Tasso durante il viaggio di quest’ultimo in Francia al seguito del Cardinale Luigi d’Este (1571), ma anche che lo abbia potuto vedere durante la sua rapidissima puntata a Ferrara del novembre 1580[17]; probabilmente ha ragione, anche perché nel suo Journal de voyage Montaigne non parla di una visita al Sant’Anna, né Tasso vi ha mai fatto riferimento nelle sue lettere o in altri scritti. Il biografo ipotizza allora che Montaigne abbia visto il poeta di sfuggita in un momento in cui (come succedeva) questi veniva accompagnato per una passeggiata fuori dalla sua cella. Inoltre, Tasso non era ancora così famoso a livello europeo da giustificare il giudizio di Montaigne nel 1580: il poema sarebbe stato infatti pubblicato soltanto a partire dal 1581, quindi bisognava ancora aspettare perché i suoi immortali versi raggiungessero, come sarebbe successo, la Francia e l’Inghilterra. Non è allora casuale che Montaigne aggiunga il riferimento al Tasso nella ristampa dei suoi Essais del 1582, cioè poco dopo che fu diffusa la Gerusalemme liberata. Comunque sia, la tesi di Montaigne fece scuola: in sostanza, la tensione nervosa eccessiva dovuta all’eccezionale sforzo di partorire un capolavoro del genere aveva ridotto il Tasso ai minimi termini. Vorrei attirare l’attenzione anche su un dato stilistico: per descrivere lo stato di Tasso, Montaigne impiega una lunga serie di domande retoriche costruite su ossimori, cioè su opposti (la tensione razionale che gli ha tolto la ragione, la lucidità che l’ha accecato eccetera), segno della natura profondamente contraddittoria sia dell’esperienza tassiana, sia della mentalità e cultura dell’epoca, improntata agli ossimori e alle contraddizioni del manierismo.

In effetti, questa «diagnosi» risente anche e soprattutto della prospettiva culturale di allora: come ha spiegato in un suo articolo recentissimo Francesca Leonardi, il poeta, attraverso le lettere che inviava a mezzo mondo per ottenere l’agognata liberazione, tentò di costruire un’immagine del proprio malessere accettabile a livello letterario e sociale. Si presentò perciò secondo la tradizione della «malinconia», cioè dell’affezione tipica dei geni, presente in grandi statisti, filosofi e artisti (noi la definiremmo più o meno «depressione»). Come è noto, secondo la medicina antica e medievale, ma anche dei primi secoli della modernità, la salute umana dipendeva dall’equilibrio tra i quattro umori principali del corpo: sangue, flemma, bile gialla, bile nera. Ancor oggi, quando si parla di «umore» o di carattere «sanguigno» o «flemmatico», si fa ricorso a questo coacervo di concezioni: il sanguigno, a causa del proprio eccesso di sangue, è irascibile e violento, il flemmatico invece è lento e tendente alla pigrizia eccetera. Ora, la bile nera (in greco «melancholia», donde il nostro «malinconia») se in eccesso si sposava con i «ruminamenti» degli intellettuali, anzi appariva come la disfunzione tipica di questa categoria. Nel corso del Rinascimento però, a questa concezione degli umori ispirata ad Aristotele e che li voleva in equilibrio tra loro, si fuse quella di origine platonica, che vedeva nell’eccesso di bile nera una manifestazione «eccessiva», ma eccezionale, del genio: di questa visione si fece latore il celebre filosofo neoplatonico della fiorentina Accademia di Careggi Marsilio Ficino, per cui la malinconia divenne sinonimo di una manifestazione eccezionale della genialità[18].

Così insomma vedevano la «follia» del Tasso i contemporanei e persino lui medesimo: come il prezzo ineludibile da pagare al suo genio, una manifestazione di «umor saturnino» in cui convergevano sensibilità eccessiva, estro straordinario e un insondabile abisso di sofferenza. La costruzione del «mito della follia del Tasso» era quindi partita fin da allora, dalle stesse lettere del poeta.


La malattia degli scrupoli

I primi sintomi preoccupanti furono quelli di un disturbo ossessivo-compulsivo o magari di una spiccata tendenza a esso. Di che cosa si tratta? Il disturbo ossessivo-compulsivo (OCD) comprende ossessioni e, di solito in contemporanea, compulsioni; le ossessioni sono pensieri o immagini invasivi e persistenti, chiaramente indesiderati, che provocano ansia e che il soggetto cerca di eliminare in tutti i modi (la paura di danneggiare qualcuno, di non essere «a posto» o nel giusto, di subire dei danni eccetera); le compulsioni sono invece dei veri e propri rituali ripetitivi messi in atto dal paziente per esorcizzare l’intrusione delle ossessioni e l’ansia che provocano, ma anche l’evento temuto (a esempio lavarsi le mani in continuazione, controllare qualcosa, pregare, contare eccetera); e la messa in atto deve seguire regole rigide e precise (per esempio, temo che se non controllo il gas 30 volte, la casa esploda). Ovviamente, la connessione tra ossessioni e compulsioni non ha niente a che fare con la realtà e la razionalità (cioè, non è che se controllo il gas 30 volte, la casa non rischia di esplodere). Si tratta di problemi psicologici che danneggiano la qualità della vita, specie a livello sociale, in modo significativo: per esempio, uno può passare più di un’ora al giorno a lavarsi le mani per evitare chissà quale contaminazione; d’altro canto, il paziente può avere o no la consapevolezza di quanto tutto ciò sia irrealistico (se non ne ha consapevolezza, la diagnosi è peggiore). Ovviamente, questo disturbo è collegato a convinzioni disfunzionali come perfezionismo, una certa rigidità mentale, senso esagerato di responsabilità eccetera. Anche se le cause possono comprendere un fattore genetico o neuro-fisiologico, è però anche possibile che questi comportamenti possiedano un’origine post-traumatica e dipendano dall’educazione ricevuta nell’infanzia[19].

Ora, alla fine del lavoro sul poema, il Tasso ci cadde dentro in pieno e cominciò a mostrare delle preoccupanti tendenze ossessive. Innanzitutto, la revisione stessa del poema, che divenne un vero e proprio martirio: il poeta si era scelto quattro revisori noti per la loro cultura (Silvio Antoniano, Sperone Speroni, Pierangelo da Barga, Flaminio de’ Nobili), ma chiedeva consiglio sui suoi versi anche a molti altri[20]; la cosa evidenzia un notevole abbassamento delle propria autostima e un’indecisione cronica, cosa che lo stesso Tasso sottolinea nella lettera I, 69 («e quella irresoluzione, la quale è stata, e temo che non debba essere, la rovina di tutte le mie azioni»[21]). In ogni caso, però, per sua stessa ammissione il poeta era «lentissimo» nel correggere[22], mentre il Duca aspettava pazientemente che venisse pubblicata l’opera destinata a celebrare la sua casata (e, alla fine, la pubblicazione avvenne malgrado Tasso, a sua insaputa!). Mai Tasso avrebbe dovuto affidare il proprio lavoro ad altri: i revisori non possedevano certo la sua altezza d’ingegno, per cui, pur cercando di mostrare cortesia, finivano per attaccarsi in modo pedante a dei cavilli, sia a livello religioso, che contenutistico e stilistico, martoriando il poveretto, il quale finì per stracciare le loro lettere. In questa temperie, la revisione del poema divenne per il poeta (e forse in misura minore anche per i revisori) una vera e propria tortura: ma lui stesso l’aveva voluta per la sua insaziabile sete di perfezione. Eppure esclamava:

«Io non vo’ padrone se non colui che mi dà il pane, né maestro; e voglio esser libero non solo ne’ giudicii, ma anco ne lo scrivere e ne l’operare. Quale sventura è la mia che ciascuno mi voglia far il tiranno addosso? Consiglieri non rifiuto, purché si contentino di stare dentro a i termini di consigliero»[23].

Però i «tiranni addosso» se li era tirati lui… È piuttosto evidente da qui anche la continua oscillazione del poeta tra due estremi opposti: da un lato il desiderio ossessivo di sottoporsi alla censura altrui, dall’altro, reazioni aggressive quando la censura diventa intollerabile, per un verso il senso di colpa, per l’altro la successiva reazione impaziente a esso, sintomi che del resto si manifestano anche nelle vittime di «mobbing»[24]. Se alcuni di questi sintomi ritornano in più affezioni («burn out», «mobbing» eccetera) è dovuto al fatto che sono comunque reazioni post-traumatiche.

Idem successe per la questione dell’Inquisizione: nello stesso 1575 Tasso cominciò l’imprudente pratica di autodenunciarsi all’Inquisitore, chiedendo persino di essere sottoposto alla tortura (!)[25]; era ossessionato dai dubbi sulle verità di fede più disparate, per cui trovava rifugio nella preghiera[26]. Il problema era che il Duca Alfonso II doveva prendere l’Inquisizione con le pinze, per paura di scontentare la Curia Romana: quest’ultima, infatti, dato che Ferrara era feudo della Chiesa, minacciava proprio in quegli anni di riprendersi il Ducato in caso che il Duca fosse morto senza figli (cosa che difatti avvenne nel 1598 e nonostante ben quattro matrimoni). Del resto, Alfonso era figlio della celebre Renata di Francia, simpatizzante per i calvinisti: ancor oggi, nel Castello di Ferrara si conserva la spartana cappella della Duchessa, priva di decorazioni e immagini, secondo i presupposti iconoclasti calvinisti. Quindi, ogni benché minimo e velato sospetto di eresia alla Corte Ferrarese rischiava di provocare delle ricadute esponenziali a livello di danno politico e d’immagine. Il Duca pregava l’Inquisitore Ferrarese, uomo di buon senso, di acquietare il Tasso con un «facsimile» di interrogatorio e l’Inquisitore acquiesceva di buon grado, assolvendolo; senonché poi Tasso correva pure all’Inquisizione di Bologna, dove i confratelli ignoravano questi abboccamenti, e per di più propalava i nomi di altri possibili eretici che, secondo lui, avrebbero infestato la Corte Estense… Una bella gatta da pelare per il Duca Alfonso, che pregava l’Inquisitore di bruciare tutte le carte relative alle fantomatiche accuse del poeta e di avvisare i superiori a Roma che questi era fuori di sé e di non dargli retta. Chi nei secoli ha accusato il Duca d’Este di avere rinchiuso il Tasso ingiustamente, non ha mai avuto a che fare con questo genere di traversie.

Ora, il disturbo ossessivo era ben noto all’epoca: si trattava della «malattia degli scrupoli». Sconosciuta al Medioevo e anche alle Chiese Orientali, essa è menzionata varie volte entro i manuali per confessori tra XVI e XVII secolo quando dilagò: si manifestava in paura, autocolpevolizzazione, ripetizione a oltranza delle confessioni, degli esercizi di pietà e di altre pratiche volte a restituire sollievo al fedele torturato; in sostanza, era una nevrosi ossessiva[27]. Io stessa ho rinvenuto almeno altri due casi di personaggi famosi che ne soffrirono. Uno è celeberrimo: si tratta di Martin Lutero, che, come noto, prima della svolta che lo portò a contestare l’autorità papale, era afflitto da ossessioni di vario tipo e giungeva al punto di confessarsi anche più volte al giorno. Il secondo caso è quello di Marguérite Marie Alacoque, la veggente che ebbe le visioni del Sacro Cuore a Paray-le-Monial, in Borgogna, intorno al 1673-1675: ella vedeva le proprie colpe ingigantite, anche le mancanze più insignificanti, insisteva spesso per ripetere la confessione generale e una volta, a 22 anni, arrivò al punto di confessare dei peccati che non aveva commesso, ripetendo quanto aveva letto in un libretto sulla confessione[28]. Ora, la malattia degli scrupoli nasce notoriamente da un senso di colpa profondo, introiettato a causa di un’educazione autoritaria: già su questo sito ho illustrato come procedeva l’educazione di Lutero, specie a casa, per cui non stupisce molto che poi si sia ritrovato vittima di ossessioni continue[29]. Da questo punto di vista, era chiaramente un frutto di questa società, che stava procedendo, specie a partire dalla seconda metà del XVI secolo, a una minuziosa regolamentazione di tutto quello che capitava a tiro, che si trattasse della fede (fu questa l’epoca in cui pullularono le «confessioni», cioè le formulazioni dei dogmi in cui credere, sia sul lato cattolico che su quello protestante), del poema epico e di altri generi letterari (sulla base di Aristotele), dell’etichetta di corte, dell’araldica o della scherma e così via.

In definitiva, lo spazio dell’autonomia individuale tendeva pericolosamente a restringersi, le pressioni sul singolo ad aumentare e, non di rado, gli scrupoli esplodevano a causa di malcelati e impellenti sensi di colpa. Non stupisce che, di converso, il poeta abbia cominciato a reagire anche con un’intensa mania di persecuzione.


Paranoia?

Nel carteggio del Tasso si trovano numerosissime frasi che lasciano pensare a tratti paranoidei. Già nel 1575 Tasso era ossessionato dall’idea che gli rubassero le lettere[30] e che servi e nemici si impadronissero di nascosto delle sue cose[31]. La cosa peggiorò progressivamente e gli provocò un’ansia senza pari: arrivò ad accusare ripetutamente i suoi supposti nemici davanti al Duca e ad altri[32]. Tuttavia, Cabras e Lippi osservano che, nonostante tutto, non si formò attorno al poeta la cosiddetta «pseudo-comunità paranoide», nel senso che le persone che circondano il paranoico, subendo la sua aggressività continua, a loro volta divengono aggressive contro di lui e si forma un circolo vizioso che oppone diametralmente il paziente e la comunità[33]. In realtà, il Tasso non era veramente paranoico. Ora, un paranoico vive in un senso grandioso del sé che recalcitra sistematicamente a fronte di ogni possibile rimessa in questione ed è simile in questo a certi grandi dittatori: ha sempre ragione ed è sistematicamente impossibile fargli ammettere che ha torto. Non mi sembra proprio il caso del Tasso, che non di rado si ricredeva sulle proprie «paturnie», come quella volta che confessava sinceramente in una lettera:

«Sono affatto chiaro. Io m’ingannava nel particolare dell’Ariosto ed in molti altri. Ringrazio il Signore Iddio che m’abbia disvelati gli occhi de l’intelletto, ché certo era una infelicità la mia, il sospettar de la fede de gli uomini vanamente»[34].

Oppure, all’inizio della sua prigionia:

«Non mi scuso, ma m’accuso; non diminuisco più i miei falli, ma gli accresco; non dimando giustizia più no, ma perdono e grazia»[35].

Un paranoico non parla così, né tanto meno lo scrive: a rimesse in questione del genere si può rinunciare in partenza. Un’alternativa più credibile alla diagnosi di paranoia potrebbe invece essere quella di ipervigilanza: le vittime di stress affrontano situazioni continue di lotta e attacco, per cui diventano ipersensibili a ogni stimolo ambientale che possa anche solo assomigliare a una minaccia. Analogamente, la persona diventa ipersensibile alle critiche.

«I contatti più banali sono vissuti come minacciosi. Può sembrare paranoia»[36].

Può sembrarlo, ma non lo è. Secondo il DSM5R, l’ipervigilanza può assumere proporzioni degne della paranoia, ma per la diagnosi differenziale delle forme di disagio post-traumatico servono sintomi caratteristici e un «evento traumatico»[37]. Insomma, finora l’interpretazione delle traversie del Tasso, anche se ha rilevato dei disturbi consistenti e che giustamente preoccupavano gli Estensi, ha mostrato anche che il passato del poeta celava uno stress e una sofferenza notevoli: il tutto probabilmente sommato a una sensibilità fuori del comune.


Note

1 Piuttosto sintetico Pierluigi Cabras e Donatella Lippi, La patobiografia e il caso Torquato Tasso, «Medicina nei secoli» 19/2 (2007), pagine 475-480; inoltre, con una ricognizione della discussione in merito, Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895, volume I, pagine 836-866. Solerti dimostra che la discussione è stata spesso falsata dalla leggenda secondo cui il poeta si sarebbe innamorato di una delle principesse estensi.

2 Si veda il manuale di riferimento William Todd Schultz ed., Handbook of psychobiography, Oxford University Press, 2005, in particolare il capitolo I, Introducing Psychobiography, da cui è tratta la citazione.

3 La biografia più esauriente è ancora quella di Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895 (3 volumi) che seguirò qui (per questo passo, confronta I volume pagina 119); più recente, Claudio Gigante, Tasso, Salerno editrice, 2015; per le lettere, confronta Lettere di Torquato Tasso, curatore Cesare Guasti, Firenze, Le Monnier, 1852, volume I (d’ora in poi citato come Guasti). Qualcuno ha proposto come diagnosi il tifo, ma in realtà non lo sappiamo.

4 Confronta Lettera a Felice Paciotto del 28 settembre 1569, in Guasti, volume I, pagina 21; confronta anche Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895, volume I, pagina 126.

5 Si veda Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895, volume I, 199.

6 Confronta Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895, volume I, citazione pagina 200.

7 Confronta Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895, volume I, pagina 211; la lettera è la I 40, a Scipione Gonzaga del 16 luglio 1575, Guasti I, pagine 101-103.

8 Confronta I, 47, lettera a Scipione Gonzaga del 1° ottobre 1575, in Guasti, volume I, pagine 112-117; la malattia cui fa riferimento è quella a partire del 1574, ma il poeta parla anche di un «dolore di testa assai grave».

9 Confronta Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895, volume I, pagine 200-205 e 212-213. Addirittura, pensava di recarsi dai Medici, proprio in un momento in cui gli Estensi erano in rotta con loro per una questione di precedenze!

10 Confronta I, 42, lettera a Scipione Gonzaga del 29 luglio 1575, in Guasti, volume I, pagina 105. Sugli stati d’animo relativi, vedi Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895, volume I, pagina 213.

11 Confronta I, 57, lettera a Luca Scalabrino del 12 marzo 1576, in Guasti, volume I, pagina 139. Il personaggio indicato è Orazio Ariosti, nipote del grande poeta.

12 Confronta I, 93, lettera a Scipione Gonzaga del 13 gennaio 1577, in Guasti I, pagina 242. Tra l’altro, nel testo della lettera sono espressi timori irrazionali nei confronti dell’opinione del mittente.

13 Confronta Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895, volume I, pagina 374.

14 Confronta Sindrome di Burn Out: cos’è, sintomi, cause e come prevenirlo, Blog Università Cusano 4 giugno 2022, https://www.unicusano.it/blog/didattica/master/sindrome-di-burn-out-cose/

15 Per questa parte della sua vita, si veda Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895, volume I, soprattutto i capitoli VII-XII.

16 Il testo francese recita: «Qui ne sçait combien est imperceptible le voisinage d’entre la folie avecq les gaillardes elevations d’un esprit libre et les effects d’une vertu supreme et extraordinaire?... Infinis esprits se treuvent ruinez par leur propre force et soupplesse. Quel saut vient de prendre, de sa propre agitation et allegresse, l’un des plus judicieux, ingenieux et plus formés à l’air de cette antique et pure poisie, qu’autre poete Italien aye de long temps esté? N’a il pas dequoy sçavoir gré à cette sienne vivacité meurtrière? A cette clarté qui l’a aveuglé? A cette exacte et tendue apprehension de la raison qui l’a mis sans raison? A la curieuse et laborieuse queste des sciences qui l’a conduit à la bestise? A cette rare aptitude aux exercices de l’ame, qui l’a rendu sans exercice et sans ame? J’eus plus de despit encore que de compassion, de le voir à Ferrare en si piteux estat, survivant à soy-mesmes, mesconnoissant et soy et ses ouvrages, lesquels, sans son sçeu, et toutesfois à sa veue, on a mis en lumiere incorrigez et informes». Testo pubblicato dal Montaigne Project dell’Università di Chicago, Michel Eyquem de Montaigne, Les Essais, Eds. pagina Villey and V.-L. Saulnier, online edition by pagina Desan, University of Chicago, https://artflsrv03.uchicago.edu/philologic4/montessaisvilley/navigate/1/4/13/ Traduzione mia.

17 Confronta Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895, volume I, pagine 324-325.

18 L’Autrice ricorda che Tasso cercò anche di far passare l’idea di aver finto la pazzia, pur di difendere il proprio buon nome; sull’argomento, confronta Francesca Leonardi, Nel corpo di Tasso: tra malattia e malinconia, in Maria Di Maro-Matteo Petriccione edd., Il racconto della malattia. Atti delle sessioni parallele del convegno internazionale di studi «Il racconto della malattia» (L’Aquila, 19-21 febbraio 2020), Napoli, Paolo Loffredo ed., 2021, pagine 49-64 e, sulla malinconia, il classico Raymond Klibansky-Erwin Panofsky-Fritz Saxl, Saturno e la malinconia. Studi di storia della filosofia naturale, religione e arte (traduzione italiana), Torino, Einaudi, 1983.

19 Questo disturbo (per il quale si veda DSM5R pagine 265-271) è da distinguere da quello della personalità ossessivo-compulsiva, che è caratterizzata da rigido perfezionismo e mania di controllo, soprattutto dei dettagli, anche a detrimento dell’efficienza; così, i compiti assegnati non vengono mai portati a termine e viene sacrificata la vita sociale a vantaggio della produttività. Questo tipo di personalità è anche rigida e inflessibile nei confronti dell’etica e degli altri, ma normalmente anche molto critica su se stessa, tende alla tirchieria e a spendere pochissimo, a conservare tutto, mostra notevole testardaggine o anche si trova a disagio nell’esprimere i propri sentimenti. Tasso era sì perfezionista e ci mise una vita per finire la sua opera, ricorreggendola in continuazione, ma non era assolutamente avaro, né a disagio nella manifestazione dei propri sentimenti; confronta DSM5R, pagine 772-776.

20 Si veda Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895, volume I, 205-211.

21 Confronta Lettera I, 69 a Scipione Gonzaga del 1576 (manca la data), Guasti, volume I, pagine 171-173.

22 Confronta Lettera 29 a Scipione Gonzaga del 14 maggio 1575, Guasti, volume I, pagine 74-77.

23 Confronta Lettera I, 71 a Luca Scalabrino del 4 maggio 1576, in Guasti I, pagina 174.

24 Confronta Iňaki Piňuel, Mobbing. Cómo sobrevivir al acoso psicológico en el trabajo, Madrid, Santillana, 2003.

25 Si veda la lettera 101 ad Alfonso d’Este del 1577, in Guasti volume I, pagine 257-260, in cui Tasso dichiara di essere stato assolto dall’Inquisizione ingiustamente ed è pronto a farsi squartare in piazza!

26 Confronta Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895, volume I, pagine 210 e 258-260.

27 Sulla malattia degli scrupoli, confronta Jean Delumeau, Il Peccato e la Paura. L’idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo, Bologna, Il Mulino, 2002 (traduzione italiana; edizione originale francese 1983), pagine 555-588.

28 Si veda la mia tesi, Annarita Magri, Le valenze culturali della devozione al Sacro Cuore (dagl’inizi, fine Seicento, al 1765), Università di Firenze, anno accademico 2020-2021, pagine 130-133.

29 Confronta il mio Le origini e i primi anni di Lutero, http://storico.org/umanesimo_rinascimento/origini_primiannilutero.html e ancora più specifico, Come Lutero entrò in convento, http://storico.org/umanesimo_rinascimento/comelutero_convento.html, entrambi con bibliografia.

30 Confronta per esempio le ansiose preoccupazioni all’inizio della lettera 28, inviata a Scipione Gonzaga il 3 maggio 1575, in Guasti, I, pagina 71.

31 Confronta Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895, volume I, pagina 257.

32 Si veda ancora la lettera sopracitata 101 al duca d’Este, in cui egli accusa a più riprese i suoi persecutori.

33 Confronta Pierluigi Cabras e Donatella Lippi, La patobiografia e il caso Torquato Tasso, «Medicina nei secoli» 19/2 (2007), pagine 475-480.

34 Confronta II, 1, IX, citato in Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895, volume I, pagina 255.

35 Lettera 123 del 15 aprile 1579, in Guasti II, pagina 43.

36 Confronta Iňaki Piňuel, Mobbing. Cómo sobrevivir al acoso psicológico en el trabajo, Madrid, Santillana, 2003, citazione pagina 130.

37 Confronta DSM5R, pagina 120.

(agosto 2023)

Tag: Annarita Magri, sofferenze di Tasso, ospedale Sant’Anna di Ferrara, malinconia, esaurimento nervoso, Gerusalemme liberata, 1575, Corte di Ferrara, Michel de Montaigne, follia del Tasso, malattia degli scrupoli, sensi di colpa.