Marfisa d’Este
Una nobildonna dalla vita simile a quella di tante altre sue pari, diventò nell’Ottocento e nel Novecento un emblema di sadismo e crudeltà. In questo articolo ne spiegheremo il motivo

Una nobildonna della famiglia estense del XVI secolo fu Marfisa, figlia del Marchese di Massalombarda Francesco d’Este, quintogenito del Duca Alfonso I e della seconda moglie Lucrezia Borgia, e di una sua amante. Nata nel 1554, fu riconosciuta unitamente alla sorella Bradamante, di cinque anni più giovane, sia dal Duca Ercole II sia dal Papa Gregorio XIII. La scelta dei nomi dall’Orlando Furioso è stata fatta nella considerazione di come l’Ariosto fosse tenuto alla Corte Estense e della sua riconoscenza. Marfisa fu un personaggio uscito dalla fantasia creatrice di Matteo Maria Boiardo, che ne parlò nel suo Orlando Innamorato e fu ripreso poi da Ludovico Ariosto, di una trentina di anni più giovane, nel suo Orlando Furioso. Si trattava di una donna guerriera, nata con il fratello Ruggiero. E pure Bradamante fu un personaggio di cui hanno scritto versi entrambi i poeti e, mentre nel primo è l’innamorata di Ruggiero, nel secondo ne è la sposa ed è al centro del poema, dove si onora di rappresentare l’origine della Casa degli Este. E l’ammirazione del padre per il poeta fece sì che i nomi ebbero quella scelta.

Fra il 1535 e il 1572, Francesco andò ad abitare nel palazzo di Schifanoia, lasciatogli dal padre alla sua morte, però era suo desiderio costruirsi un’abitazione nella quale trascorrere i momenti di tranquillità in ambienti ricchi e sereni, arricchiti da giardini fioriti come, del resto, richiedeva la natura delle «delizie» della Corte Estense, ma posta su una delle strade più importanti della città, vale a dire sul Corso Giovecca – già Giudecca – di fronte alla chiesa di San Silvestro, ora scomparsa. La strada era stata realizzata nel 1546, dopo il riempimento della fossa che accompagnava le mura cittadine esistenti prima dell’Addizione Erculea. La strada, definita «maestosa», ricca com’era di palazzi, monasteri, orti e giardini, collegava il Castello con le mura sudorientali rialzate e rinforzate da Alfonso I, perché soprattutto da quel lato temeva attacchi da parte di nemici.

Pertanto, quando Marfisa era ancora bambina, il padre fece costruire e decorare in Corso della Giovecca una palazzina, ancora esistente e visitabile, e nota oggi come «Palazzina di Marfisa d’Este» (che a onor del vero, proprio solo palazzina non è), nella quale spesso soggiornò insieme con le sue bambine. È una costruzione tipica quale residenza signorile del XVI secolo, allora circondata da giardini splendidamente costruiti e ben tenuti, che la tenevano in comunicazione con altri fabbricati, noti come i Casini di San Silvestro.

A 14 anni Marfisa sposò il cugino Alfonsino, figlio del nobile ferrarese Alfonso da Montecchio (Emilia), di cinque anni più giovane di lei, che però morì solamente tre mesi dopo il matrimonio, praticamente insieme con il padre. Quelle nozze la fecero divenire erede di un cospicuo patrimonio, che poi si accrebbe con il matrimonio successivo, combinato dai familiari e avvenuto due anni più tardi, nel 1558, con Alderano Cybo Malaspina, persona colta e raffinata, designato quale futuro Signore di Massa e Carrara. Le nozze con il Malaspina non impedirono a Marfisa di restare a Ferrara per curare tutto quanto per lei era ragione di vita e di divertimento, dato che il marito amava trascorrere lunghi periodi nella città estense.

Quando, nel 1598, il Ducato tornò al legittimo proprietario, ossia allo Stato Pontificio, Marfisa, d’accordo con il marito, invece di seguire l’ultimo Duca Cesare e la sua Corte nel malinconico esilio degli Estensi a Modena, preferì restare nella città natale. D’altra parte, essendo la famiglia Cybo Malaspina strettamente legata allo Stato della Chiesa, restò e visse nella sua città onorata e rispettata, come il suo rango richiedeva, senza essere disturbata da nessuno.

Fu amante dell’arte, della poesia, della musica, della cultura, come lo dimostra fra l’altro il fatto di essere stata la protettrice di Torquato Tasso. Amò il divertimento con i cortigiani, partecipò a feste e ricevimenti, frequentò il teatro. Insomma, la vita normale di una nobildonna cui nulla manca e tutto le è concesso. La vita trascorse serena, con i suoi otto figli (sette maschi e una femmina, distribuiti nell’arco di 16 anni, dal 1581 al 1596, con la media di un parto ogni due anni), che dimostrano come il rapporto con il marito fosse sereno, pur coltivando i doveri sociali. Per inciso, desidero aggiungere qualcosa in merito alla sorella di Marfisa, Bradamante. Anche la sua vita fu tranquilla, a parte un periodo durante il quale il marito, il Conte di Maccastorna (un paese del Lodigiano), cameriere e consigliere di Alfonso II d’Este, ha ritenuto bene starsene alla larga, a Sassuolo nel Modenese, avendo tentato di circuire una cantante di Corte, che era la moglie del Conte Ercole Trotti, e avendo questo fattogli pervenire legittime minacce. Questa fu ancora più prolifica della sorella, perché nel giro di 21 anni sfornò ben 12 figli, sei femmine e sei maschi, il che significa un parto mediamente ogni anno e nove mesi.

Tutta la vita di Marfisa si svolse nella palazzina, le sue adiacenze e la delizia di Medelana, un circuito ristretto nel quale si maturò e si formò quel suo carattere osannato dai letterati e dai poeti da lei protetti, fra cui Torquato Tasso, come ricordato più sopra.

Morì serenamente nella sua città natale nel 1608.

Ora, sicuramente il lettore, che pazientemente ha seguito il racconto fino qua, si può chiedere: «D’accordo, fu una brava nobile signora, che amò il marito dandogli tanti figli, che insieme fecero crescere, e che riuscì ad accasare bene quelli che non morirono in giovane età, che visse e amò la sua città, tanto da preferirla a quella nella quale il Ducato continuava a esistere. E allora? Che cosa la distingue dalle altre nobildonne della sua epoca, che vissero nelle ricche Corti Europee? Come mai tanto interesse per una persona che, a quei tempi, era una copia di tante altre della stessa estrazione? Matrimoni di interesse e adeguamento alle situazioni politico-economiche, che volta per volta imponevano certe scelte e sottomissioni, erano ciò che quasi costantemente si rendeva necessario per continuare a essere qualcuno, impedendo ad altri di schiacciarti sotto i piedi».

Il tutto è perché successe un fatto strano. Nell’Ottocento e nel Novecento, malgrado Marfisa avesse vissuta serenamente la sua vita alla Corte o nella sua palazzina o in qualcuna delle Delizie Estensi, non si sa né come né perché, cominciarono a circolare certe voci, secondo le quali era stata una donna vogliosa, sessualmente instancabile e insaziabile, un’amante sadica al di fuori di ogni regola, come una vera e propria Messalina, la famosa Romana che nel campo del sesso non ebbe rivali e che non esitava a eliminare quegli uomini che si rifiutavano di giacere con lei.

Riprendendo il discorso iniziale, quando il padre Francesco morì nel 1578, Marfisa fra le altre cose ereditò la sua amata palazzina. Sempre nello stesso anno, sposò il cugino Alfonsino, che però mori nel giro di pochi mesi. E poi ci fu il matrimonio combinato con Alderano Cybo Malaspina, che le fece fare un ritratto dal pittore Filippo Paladini. Vincenzo Gonzaga, Marchese di Mantova, che era palesemente incantato dalla nobildonna, desiderava inserire quel ritratto nella sua galleria delle più belle donne d’Europa, che aveva allestito nella sua dimora. Ovviamente, il Malaspina rispose picche, e allora, dopo i numerosi rifiuti, ne fece fare una copia dal Paladini stesso. Che fosse una bellezza non v’è alcun dubbio: anche il Tasso ne restò ammaliato e ne cantò la bellezza in versi.

L’origine della leggenda che è sorta attorno a lei non è assolutamente nota. Nacque per il suo attaccamento alla città dov’era nata e cresciuta oppure è stato qualcosa d’altro, magari legato allo sguardo seducente, che invitava chi ammirava il suo ritratto, che ancora oggi fa bella mostra di sé nella palazzina? Oltre a essere una brava moglie e una brava madre, che partecipava allegramente alla vita mondana della Corte, fu una benefattrice, interessandosi di opere di carità e acquistandosi l’affetto delle persone che da lei ricevettero aiuto e conforto.

Molto spesso certe storie nascono dall’oggi al domani e, senza che ci si renda conto di come ciò avvenga, diventano dominio di tutti, favorevoli oppure no.

In seguito alla sua morte, avvenuta dopo quella del marito, tutto quanto di negativo è stato riportato su di lei, si trova in una lunghissima serie di leggende e di racconti bizzarri, che furono addirittura immortalati in scritti letterari e dipinti, però tutti nati fra il XIX e il XX secolo. Uno di questi dipinti, intitolato La Principessa Marfisa scomparve stretta fra i suoi rimorsi e scomparso dalla circolazione, mostrava una carrozza trainata da tre cavalli, in una corsa pazza causata dalla crudeltà con la quale tre staffieri li sferzavano, sulla quale si trovava Marfisa in compagnia dei fantasmi dei due mariti: Alfonsino giaceva morto a causa del veleno propinatogli dalla moglie e Alderano aveva ancora conficcato nel petto il pugnale che gli aveva trapassato il cuore.

Qualcuno ritiene che il fantasma di Marfisa sia ancora presente e continui a muoversi nella palazzina, per poi, al tocco di mezzanotte, mentre il fabbricato si illumina di una luce verdastra, esca vestito di rosso su un cocchio nero trainato da tre cavalli scalpitanti, inseguito da un codazzo di fantasmi scheletrici urlanti e inveenti; secondo altri si tratta degli scheletri degli amanti assassinati legati con un filo invisibile alla carrozza. Questi – fantasmi o semplicemente scheletri che siano – non sono altro che i suoi amanti inesperti e sprovveduti che, dopo essere stati attirati dal suo fascino e nei modi più impensabili, dopo essere stati sfruttati nell’alcova erano fatti ruzzolare in trabocchetti oppure precipitare nei cosiddetti pozzi a rasoi, cavità ricavate nel suolo e ricoperte di lame taglienti con i manici infissi nelle pareti; secondo i «si dice», erano pozzi ricavati nel pavimento della sua casa, ma di questi non si sono mai trovate tracce, per cui si ritiene a ragione che non siano mai esistiti. Si sa che in molti manieri esistevano veramente i pozzi a rasoi, ma nella palazzina non è stato riconosciuto nessun indizio rivelatore. Anche certi nobili francesi ebbero a dire che era una donna «molto bella, ma altrettanto crudele»: forse non era loro particolarmente simpatica per il suo comportamento con i giovani innamorati… oppure ne erano un pochino invidiosi? È certamente difficile capire che cosa possa pensare la gente.

Ma come è stato possibile per il popolo passare dalla convinzione che Marfisa fosse una donna di casa, amante dei figli e rispettosa per il marito, al ritenerla una scellerata senza pudore e assassina senza scrupoli? Sicuramente qualche scintilla ha acceso il dubbio. Si può valutare se quanto di seguito riportato come possibili indizi sia sufficiente a chiarire il dilemma.

Primo indizio. Tornando alle dicerie che si sono fatte sulla dama, si cerca di capire perché ebbe quella infamante fama di mangiatrice di uomini che sicuramente l’hanno turbata, e continuamente la turbano, nella tomba. Possibile che la scelta dei nomi da parte del padre Francesco prima per lei e successivamente per la seconda figlia, quei nomi provenienti dalle invenzioni letterarie di Boiardo prima e di Ariosto poi, abbia sconcertata la gente, facendo sì che personificasse la nobile d’Este nell’antica guerriera?

Secondo indizio. Alla morte del padre, avvenuta nel febbraio del 1578, Marfisa restò sotto la custodia della zia Leonora, mentre l’eredità paterna le sarebbe stata riconosciuta solamente dopo aver sposato un membro della Casa d’Este. Così, a maggio sposò Alfonsino di Montecchio di tre anni più giovane e tanto in cattiva salute che nel giro di tre mesi morì. Può succedere, purtroppo, però la dama, pur in lutto, continuò a partecipare alla gaia vita di Corte, mentre il Duca Alfonso II, suo tutore, si adoperava per organizzare un nuovo matrimonio, questa volta con l’erede dello Stato di Massa e Carrara Alderano Cybo Malaspina. E, quel che conta, non sembrava per nulla rattristata dalla prematura morte del marito. Ecco, che piano piano può essersi insinuato nella mente della gente il dubbio che lo abbia avvelenato, giacché lo aveva sposato solo per poter ereditare ciò che il padre le aveva lasciato. Ciò le consentì di intraprendere viaggi, di incontrare sempre nuova gente, di organizzare feste, di partecipare a recite, insomma di vivere come doveva essere per una dama del suo rango. Poi, con il 1598, la Devoluzione del Ducato di Ferrara alla Chiesa e la cacciata degli Estensi a Modena. Essendo i Cybo legati allo Stato Pontificio, la famiglia preferisce restare a Ferrara, dove vivrà in tranquillità, da nessuno disturbata.

Terzo indizio. La nobildonna si ritira a una vita privata, senza o quasi contatti con l’esterno; anni di cui ben poco è dato sapere. Che sia questo isolamento a contribuire una volta di più ad alimentare l’aura di mistero che avvolge la dama?

Ognuno tragga le sue conclusioni in base alle poche notizie disponibili che si hanno, però quelle, pur essendo pochissime e vaghe, non riescono a dissipare fino in fondo quelle brume che avviluppano tutta la faccenda.

Marfisa, scomparsa nel 1608, inizialmente fu sepolta nella chiesa di Santa Maria della Consolazione in Via Mortara, per essere definitivamente tumulata a fianco del sepolcro del Duca Borso d’Este, nel cimitero monumentale della Certosa di Ferrara.

La palazzina andò in eredità ai Cybo Malaspina e, dopo un triste abbandono e una serie di passaggi di proprietà, divenne una sede museale nel 1938. Si parla di palazzina, ma si tratta di una dimora veramente principesca, che conserva il fascino dell’epoca in cui fu costruita.

Come tutti i Ferraresi, sono passato di notte lungo Corso Giovecca, sperando o temendo di incontrare il cocchio trainato da tre cavalli, che percorrono al galoppo la grande via, con sopra Marfisa attorniata da un nugolo di fantasmi scheletrici che urlano e schiamazzano. Non ho avuto modo di vederlo, forse sono capitato nelle serate non previste; chissà se, fra i lettori che hanno avuto il coraggio di leggere fino qui, non ci sia qualcuno più fortunato di me. Casomai dovesse capitare, lo prego di comunicarmelo e di raccontarmi come sia andata.

(settembre 2020)

Tag: Mario Zaniboni, Marfisa d’Este, Francesco d’Este, Duca Alfonso I, Lucrezia Borgia, Bradamante d’Este, Duca Ercole II, Papa Gregorio XIII, Orlando Furioso, Ludovico Ariosto, Corte Estense, Matteo Maria Boiardo, Orlando Innamorato, palazzo di Schifanoia, Corso Giovecca, chiesa di San Silvestro, Addizione Erculea, Alfonso I, Palazzina di Marfisa d’Este, Casini di San Silvestro, Alfonso da Montecchio, Alderano Cybo Malaspina, Torquato Tasso, Alfonso II d’Este, Conte Ercole Trotti, delizia di Medelana, Filippo Paladini, Vincenzo Gonzaga, La Principessa Marfisa scomparve stretta fra i suoi rimorsi, pozzi a rasoi, fantasma di Marfisa d’Este.