Niccolò Machiavelli, l’inventore dello Stato moderno
Il grande scrittore fiorentino ruppe con la tradizione medievalista, riconobbe le esigenze dell’individuo, e auspicò un sistema di governo che armonizzasse la volontà del Sovrano con quella dei cittadini

Niccolò Machiavelli

Santi di Tito, Machiavelli (particolare), Palazzo Vecchio, Firenze (Italia)

Il mondo politico dei secoli precedenti a Machiavelli aveva risentito profondamente del pensiero di Sant’Agostino che aveva radicalmente separato il mondo materiale, considerato fonte di ogni male, da quello divino. Autori successivi, come San Bernardo di Chiaravalle, importante pensatore del movimento monastico cistercense, avevano ulteriormente forzato tale visione, arrivando alla svalutazione della ragione di fronte alla fede. Tale modo di pensare portò ad un ridimensionamento del ruolo dell’essere umano, alla disgregazione dello Stato, del diritto, del bene comune, e di conseguenza ad una crescita del ruolo della Chiesa. Nel Medio Evo la Chiesa godeva di un enorme prestigio, deteneva il monopolio della cultura e rappresentava l’istituzione in grado di dare legittimità ai Sovrani, la situazione nei secoli successivi conobbe dei cambiamenti, ma al tempo stesso la struttura organizzativa della Chiesa si andava rafforzando, e attraverso la Santa Inquisizione era in grado di condizionare il mondo della cultura. Tale politica produceva una certa stagnazione civile e culturale, e molti iniziarono a vedere la società degli antichi, Greci e Romani, come un modo di vita più avanzato.

Negli anni di Machiavelli l’Europa stava uscendo dal periodo feudale e si avviava verso la formazione di potenti e stabili Monarchie Nazionali. Le nuove formazioni politiche sebbene più salde delle precedenti signorie feudali, tuttavia non diversamente da quelle, intendevano lo Stato come un patrimonio privato che il Sovrano poteva gestire arbitrariamente per i suoi fini. In Italia nonostante non si avesse la formazione di uno Stato Nazionale, la situazione dal punto di vista sociale e culturale era più progredita rispetto a quella degli altri Stati, e con l’Umanesimo si era diffusa una mentalità più laica e razionalista. Nel nostro Paese in particolare, si era avuta la diffusione delle libere università, che furono le prime istituzioni culturali non gestite dalla Chiesa, tali organizzazioni avevano favorito l’emergere di una cultura più innovativa e più libera.

Per il Machiavelli, come per gli altri pensatori umanisti, le esigenze materiali degli esseri umani non erano qualcosa da disprezzare, ma potevano in qualche modo favorire il miglioramento della società. Data questa premessa, il nostro scrittore passò a descrivere la natura umana, che non era né diabolica né simile a quella del Santo. Nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio scrisse: «Qualunque volta è tolto agli uomini il combattere per necessità, combattono per ambizione; la quale è tanto potente che mai gli abbandona. La cagione è perché la natura ha creato gli uomini in modo che possono desiderare ogni cosa e non possono conseguire ogni cosa». La visione pessimistica dell’uomo, condivisa del resto da molti pensatori dell’epoca, lo spinse a scrivere che il principe doveva sapere usare l’astuzia e mostrarsi formalmente pio e ben disposto verso le consuetudini. L’uomo di governo ha da essere «golpe e lione» come ha scritto in uno dei più celebri passaggi del Principe, tuttavia a ben leggere le sue opere si nota che il Machiavelli non era spinto da quel cinismo che gli è stato spesso attribuito, ed anzi dimostrava un rispetto nei confronti degli esseri umani che molti pensatori dell’epoca non avevano. Bodin, il maggiore pensatore politico francese del Cinquecento, sosteneva una monarchia non stemperata da nobiltà e popolo, Botero, un pensatore gesuita, faceva del Monarca uno strumento della Chiesa che doveva anche con la violenza sopprimere i nemici della stessa, Campanella si orientava verso una repubblica comunista fortemente autoritaria. Non meno autoritari furono due dei massimi pensatori del secolo successivo, Hobbes e Bossuet, i quali per ragioni diverse eliminarono qualsiasi potere minore che potesse ostacolare la volontà del Sovrano. D’altra parte se l’uso della forza e della frode poteva essere effettivamente utile a realizzare grandi conquiste, ciò non era considerato da Machiavelli come un comportamento apprezzabile. «Non si può ancora chiamare virtù» scrisse nel Principe «ammazare li sua cittadini, tradire li amici, essere sanza fede, sanza pietà, sanza religione; li quali modi possono fare acquistare imperio, ma non gloria».

In Machiavelli molto forte è l’ammirazione per lo Stato Romano e per le virtù civiche perseguite da quel popolo. Nei Discorsi scrisse: «La nostra religione ha glorificato più gli uomini umili e contemplativi che gli attivi. Ha dipoi posto il sommo bene nella umiltà, abiezione, e nel dispregio delle cose umane: la religione antica lo poneva nella grandezza dell’animo… E se la religione nostra richiede che tu abbi in te fortezza, vuole che tu sia atto a patire più che a fare una cosa forte. Questo modo di vivere adunque pare che abbi renduto il mondo debole, e datolo in preda agli uomini scellerati». Come molti pensatori antichi, Machiavelli propendeva per uno Stato che sapesse equilibrare la volontà dei cittadini con quella del Sovrano, che fosse pertanto una sintesi di monarchia, aristocrazia e democrazia. Ciascuna delle tre forme di governo senza alcun contrappeso riteneva potesse degenerare, «perché il Principato facilmente diventa tirannico; gli Ottimati con facilità diventano Stato di pochi; il Populare sanza difficoltà in licenzioso si converte», mentre una certa commistione poteva garantire uno Stato più saldo ed equilibrato. In molti scritti Machiavelli sembrava propendere più per un governo repubblicano di cittadini che per un dominio di una famiglia regnante. In questo è la modernità di Machiavelli, che faceva dello Stato l’espressione della società che si auto-amministra senza interferenze religiose e senza ridurre lo Stato alla figura del Sovrano. In Dell’arte della guerra scrisse: «Delle repubbliche esce più uomini eccellenti che de’ regni, perché in quelle il più delle volte si onora la virtù, ne’ regni si teme; onde ne nasce che nell’una gli uomini virtuosi si nutriscono, nell’altra si spengono»; un concetto simile venne espresso anche nei Discorsi: «Non il bene particolare ma il bene comune è quello che fa grandi le città. E sanza dubbio questo bene comune non è osservato se non nelle repubbliche… Se i principi sono superiori a’ populi nello ordinare leggi, formare vite civili, ordinare statuti e ordini nuovi, i populi sono tanto superiori nel mantenere le cose ordinate». Altro elemento di modernità del Machiavelli, è dato dalla sua concezione del rapporto fra religione e politica. Sebbene Machiavelli non fosse scettico, faceva della religione una questione strettamente personale, e mentre l’Europa si avviava ad un secolo di lotte religiose, Machiavelli poneva la politica ben al di fuori della sfera religiosa. Nei riguardi della Chiesa scrisse che aveva gestito i suoi poteri per fini diversi da quelli della fede: «Abbiamo dunque con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obligo: di essere diventati sanza religione e cattivi», e nelle Istorie fiorentine di alcuni anni più tardi: «Vedrassi come i Papi prima colle censure, dipoi con quelle e con le armi insieme mescolate con le indulgenze, erano terribili e venerandi; e come per avere usato male l’uno e l’altro, l’uno hanno al tutto perduto, dell’altro stanno a discrezione d’altri». Infine Machiavelli accennava alla situazione economica dei suoi tempi, molto difficile ovunque, e affermava che nobili e uomini di Chiesa proprietari di vaste proprietà avevano trascurato la gestione delle stesse e avevano scelto una dispendiosa vita oziosa.

(anno 2002)

Tag: Luciano Atticciati, Niccolò Machiavelli, Umanesimo, Italia, Rinascimento, Firenze, politica, Principe, concezione dello Stato secondo Machiavelli.