Isolamento e quarantena
Veramente la storia è maestra di vita?

Ai nostri giorni si sta soffrendo per l’isolamento e la quarantena che sono imposti dalle misure sanitarie per difendersi dall’epidemia che da un anno sconvolge tutto il mondo. Però, non si tratta di novità, giacché da secoli sono precauzioni messe in atto al fine di isolare e combattere quelle malattie epidemiche che sono trasmissibili con facilità attraverso il contatto umano.

Già nel Medioevo, in occasione di epidemie micidiali (quali la peste, il vaiolo e altre calamità di carattere globale per l’epoca), i medici si erano resi conto che (malgrado ci fosse una non voluta ignoranza in merito a esseri microscopici e virus a causa delle limitate conoscenze di allora) queste erano diffuse attraverso le strade e le vie commerciali, trasportate dalle carovane e dalle navi mercantili. Essi non sapevano né come né perché, ma avevano intuito che qualcosa di nocivo e di pericoloso poteva essere trasmesso da individuo a individuo tramite la vicinanza, anche senza contatto diretto. Per tutto questo, non avendo altre possibilità, si era giunti alla conclusione che solamente l’isolamento poteva concretizzare una certa difesa per l’uomo.

Storicamente, risulta che per prime, a prendere la decisione di imporre l’isolamento in forma ufficiale, siano state le autorità della città-stato di Ragusa, Repubblica Marinara della Croazia (l’attuale Dubrovnik), che riuscì a mantenere la sua florida indipendenza per ben 450 anni, dal 1358 al 1808, quando dovette sottomettersi al dominio francese.

Era una città ricca e potente, con contatti con tutto il mondo noto allora, da cui riceveva merci di tutti i tipi; malauguratamente, però, insieme potevano pervenire pure la peste, il colera e altro ancora di pericoloso, se non letale. Le cronache riportano che una delle cause maggiori era da attribuire non alla scarsa igiene, bensì alla mancanza totale dell’igiene. Per esempio, i contenuti dei vasi da notte erano versati in strada dalle finestre e scorrevano in rigagnoli puzzolenti a cielo aperto verso la campagna. Appunto per questo ci si difendeva dalle epidemie come si poteva, usando le uniche armi che si conoscevano che erano l’aglio, l’aceto, lo zolfo, che però davano risultati risibili. Quindi, in occasione della tremenda peste del 1348, per le conoscenze di allora, non c’era null’altro che potesse tentare di sgominare le epidemie se non l’isolamento; per i credenti c’era anche la preghiera.

Era il 27 luglio dell’anno 1377, quando il Gran Consiglio della Repubblica di Ragusa impose che tutti quelli che provenissero da aree infestate dalla peste (marinai, mercanti, visitatori o altro), e le merci, fossero obbligati a trascorrere un periodo di isolamento o, se si vuole dirlo con esattezza, di confino, nelle isole denominate Bobara, Mrkan e Supetar per un periodo di 30 giorni. Erano isole disabitate, tuttavia, senza nessun conforto, per cui tanti di coloro che erano obbligati a risiedervi morivamo più per le condizioni in cui erano stati isolati che per la malattia stessa.

Per ovviare a queste difficoltà, il governo di Ragusa iniziò a fare costruire casette di legno e a organizzare il soggiorno forzato, rendendolo meno disagevole. Rendendosi conto delle difficoltà che erano incontrate, finalmente nel 1397 furono nominati funzionari aventi l’incarico di controllare che le regole d’isolamento fossero rispettate e inoltre, per rendere meno pesante la segregazione, le strutture ricettive furono spostate più vicino alla città.

L’isolamento, che era di 30 giorni, fu chiamato «trentino»; poiché, però, era sembrato che la durata del periodo non fosse sufficientemente lunga da garantire che il contagio non fosse più possibile, si decise di prolungarla a 40 giorni, per cui si ebbe il «quarantino», da cui «quarantena». Secondo altre interpretazioni, il quarantino fu dovuto alla questione religiosa secondo la quale la Quaresima dei Cristiani constava di 40 giorni di purificazione spirituale oppure faceva riferimento alla permanenza di 40 giorni di Mosè sul Monte Sinai oppure ancora a quella di Gesù nel deserto, e infine si riferiva alla durata del diluvio, di cui si parla nel Genesi, e all’Avvento. Alcuni pensano che sia un riferimento alle teorie di Ippocrate a proposito delle malattie acute. Ci sono altri che ritengono che quel numero fosse legato a Pitagora e al significato del numero 4. E per ultimo, ma sicuramente non ultimo, il riferimento va agli astronomi babilonesi, i quali mettevano in risalto i 40 giorni durante i quali la costellazione delle Pleiadi, fra i mesi di aprile e maggio, periodo di piene e di alluvioni disastrose ma essenziali per l’agricoltura, non era visibile.

Comunque sia, ci si è resi conto che un periodo d’isolamento di tale durata era ottimale, e la quarantena è rimasta anche nei giorni nostri a significare che si tratta di un periodo sufficientemente lungo per tornare alla normalità, anche se il termine ormai è usato genericamente per indicare il tempo necessario per raggiungere uno scopo, senza definirne la durata.

Pochi anni dopo, anche Venezia ebbe la stessa intuizione e iniziò a costruire lazzaretti (cioè ospedali per le malattie infettive), fissando lo stesso periodo di 40 giorni. Pertanto, in Europa, furono le due Repubbliche Marinare dell’Adriatico, per prime, a comprendere da cosa provenissero le pandemie, senza comprenderne la vera causa, mancandone le nozioni necessarie: il contagio non poteva essere che dovuto alla vicinanza e al contatto con persone ammorbate, perché viventi nella scarsa, se non totalmente assente, igienicità.

Malgrado tutte le attenzioni, tuttavia, nel 1526 la peste fece da padrona per sei mesi, mettendo Ragusa in ginocchio, paralizzando ogni attività, costringendo il Governo a trasferirsi in un’altra città. Intanto si cominciò a costruire lazzaretti, migliorando l’igiene con la fornitura di fogne, istituendo un corpo di guardie che impedissero le eventuali fughe degli infettati, mentre le merci dovevano essere risanate mediante la fumigazione. Il nome «lazzaretto» deriva dal quello dell’isola della laguna veneziana Santa Maria di Nazareth (un tempo chiamata «Nazarethum»), con l’aggiunta di una «l» iniziale per ricordare la voce «lazzaro» come «lebbroso». Tale organizzazione diede i risultati che si speravano, con un consistente calo dei contagi.

Insomma, Venezia e Ragusa furono le prime due città nel mondo di allora che si adoperarono per tenere fuori dai loro quartieri l’invasione di potenziali diffusori della peste e che intuirono che la vicinanza e il contatto fra le persone era la ragione per la diffusione delle epidemie, soprattutto tenendo bene presente che erano tanti che ritenevano che si trattasse di una punizione divina, contro la quale nulla si poteva fare.

Come si giunse, da parte dei funzionari sanitari, alla decisione di imporre un isolamento di 40 giorni, cioè alla quarantina (la «quarantena») dei Veneti? Se si vuole, fu un po’ per caso: infatti, le autorità appurarono che, se una nave proveniente dall’Asia o da altri porti sospetti fosse lasciata fuori dal porto per 40 giorni, le ipotesi erano due: se non si riscontravano casi di epidemia, tutto era tranquillo e si potevano far scendere i viaggiatori e scaricare le merci, dopo averle opportunamente aerate e fumigate con erbe aromatiche; in caso contrario, si lasciava il tutto come si trovava e, non essendoci rimedi, si lasciavano morire gli uomini isolati sulla nave.

Con questa valida forma di difesa, Venezia non aveva riscontrato la presenza di casi di peste fra i suoi abitanti e la vita scorreva tranquilla.

Un fatto increscioso e definibile «da irresponsabili» avvenne a Venezia nella prima metà del Seicento. Già nel 1624 circolava la notizia che in Europa, e precisamente in Francia, in Svizzera e, nel Nord dell’Italia, in Lombardia e innanzitutto nella Valtellina, si stesse diffondendo la peste; quattro anni dopo, questa aveva raggiunto il territorio di Mantova, concentrandosi particolarmente a Viadana, abitato sulla sponda sinistra del fiume Po. Ed ecco quanto successe. Nel 1630, per conto di Carlo Gonzaga Nevers Duca di Mantova, l’Ambasciatore marchese de’ Strigis si recò nella città lagunare per concordare la pace con l’Imperatore Ferdinando II, presentandosi con tanti regali e con una lettera per il Doge Nicola Contarini. Trattandosi di un personaggio molto importante, non si diede molto peso al suo stato fisico, che si mostrava abbastanza dubbio e per la stanchezza e per l’aspetto malaticcio, sintomi che potevano benissimo denunciare la peste in atto; d’altra parte non ci sarebbe stato da sorprendersi, giacché proveniva dal Mantovano, zona notoriamente appestata. Il Doge, tuttavia, non se la sentì di fargli un torto, per cui il Senato della Repubblica («ubi maior» con quel che segue), invece di lasciarlo in isolamento nell’isola del vecchio lazzaretto, dovette farlo trasferire in un locale sull’isola di San Clemente, molto più comodo. Anzi, per accoglierlo in maniera ancora migliore, gli inviò un falegname con il compito di fare alcuni aggiustamenti della casa. Purtroppo, come qualcuno aveva dubitato, l’Ambasciatore aveva la peste e, forse per scarso senso di prudenza e d’igiene, il falegname portò la peste in città, che si manifestò in un primo momento nella contrada di San Vito, poi si rivelò in quella di San Gregorio e, infine, si estese a macchia d’olio in tutte le contrade cittadine. I dignitari veneziani sentirono sgretolarsi il suolo sotto i piedi ma, invece di reagire convenientemente, attuando le misure restrittive del caso, temendo di mettere in difficoltà sia le attività commerciali e di ogni tipo sia la vita normale dei concittadini, preferirono rimanere in silenzio e lasciarono correre. La scusante era che, qualora si fosse venuto a sapere che la peste stava diffondendosi nell’intera città, sicuramente ci sarebbe stata una rivolta da parte dei Veneziani, a difesa delle loro attività commerciali e ci sarebbe stato un fuggi fuggi generale sulla terraferma di chi se lo poteva permettere. Appunto per questo, il potere impose, in maniera cruda e dura, al Provveditore alla Sanità Giambattista Fuoli, che giustamente era intenzionato a comunicare lo stato di emergenza, di limitarsi «nel proferire così liberamente concetti pregiudiziali a negotii et al commercio publico et privato et alla libertà della patria». Si sperava che la situazione si normalizzasse da sola, ma purtroppo non fu così.

Iniziò un periodo di disperazione e di lutti, che durò 16 mesi. Dopo un inizio un po’ in sordina, i morti tra luglio e agosto furono 48, per giungere a più di 1.100 a settembre e superare i 2.100 a ottobre; la mortalità continuò ad aumentare in modo esponenziale. Il panico si diffuse fra la popolazione che, disperata, smarrita o istupidita, non vedeva nessuna via di scampo e vagava senza meta per le calli oppure restava rintanata nelle sue abitazioni; molti infetti attendevano che qualcuno badasse a portarli nei lazzaretti. Molti abitanti contagiati furono bloccati nelle loro case con due assi inchiodate a croce sugli usci dall’esterno, per impedire di diffondere ulteriormente la pandemia.

I morti erano abbandonati nelle case o in giro per le calli e i campi, perché mancava chi potesse raccoglierli, cioè i «pizzegamorti», come li definivano i Veneziani, corrispondenti ai «monatti» di manzoniana memoria. Una proposta fatta a carcerati alla fine della pena, ma che non avevano pagato le spese di processo, di estinguere il debito e di raccogliere a pagamento i morti, fu accolta favorevolmente da 300 di loro. E i canali e i campi furono lentamente liberati dalla presenza maleodorante dei cadaveri abbandonati in giro. Questi erano trasportati con barche di ogni tipo al Lido e seppelliti in fosse comuni, scavate nei pressi del cimitero ebraico e del convento dei Benedettini.

Come previsto, alla volta di agosto, chi aveva i mezzi, fuggì dalla città per raggiungere le case e le ville di campagna: si ritiene che abbiano partecipato all’esodo circa 24.000 cittadini, lasciandola in sostanza deserta.

Tutta Venezia, non essendo in grado di combattere la pandemia, si rivolse alla clemenza del Cielo, per farla cessare, con processioni, preghiere e quant’altro, a cui parteciparono compatti i cittadini insieme con le autorità. E il 26 ottobre, l’emozionatissimo Doge, a nome di tutti i Veneziani, annunciò la costruzione di una basilica di nome Santa Maria della Salute, da dedicare alla Vergine Santissima, con l’impegno ogni anno di andare lui, e dopo di lui i suoi successori, a visitarla, grati, a ricordo dell’intervento divino. L’opera, iniziata nel 1631 su progetto di Baldassarre Longhena, fu ultimata nel 1687.

Finalmente, la peste, come era giunta, in silenzio svanì. E il giorno 21 novembre 1631 furono ufficializzati i numeri dei defunti per peste: essi furono 46.490 nella città, mentre quelli che perirono a Murano, Malamocco, Chioggia e altri territori dei dintorni ammontarono a 47.746. Una vera ecatombe!

Quando alla fine la peste si dissolse, ci si trovò nella necessità di rinnovare la cittadinanza. Per questo, la Serenissima concesse privilegi, benefici e altri vantaggi. E lentamente, ma con continuità, la vita riprese e, con lungimiranza, le autorità riuscirono a riportare la meravigliosa Venezia all’antico splendore.

(marzo 2021)

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