Riscoperta di una presenza: il Duca di Solona a Milano
L’affascinante e travagliata vita di un patrizio balcanico nella seconda metà del Cinquecento

Il saggio qui presentato delinea, con l’ausilio di documentazione archivistica e bibliografica in parte ancora inedita, la vita del Duca di Solona Nicolò Angelo Cernovicchio (1535-1604).

Nicolò, originario di una delle più importanti famiglie del patriziato balcanico, si ostinò, anche se con molte delusioni e difficoltà, a riavere dall’Impero Ottomano i territori e i feudi che sino alla fine del XV secolo erano appartenuti alla sua famiglia, tentando di coinvolgere in questo progetto – tramite il fratello che rivestì un ruolo importante nell’Ordine Carmelitano – anche la Spagna che, tuttavia, non aveva alcun interesse a farsi trascinare in una guerra lunga e dagli esiti incerti.

Una volta accortosi che le sue aspettative non avevano alcuna speranza di riuscita, Cernovich si lasciò convincere da un amico italiano, il Principe del S. R. I. Federico Landi, a trasferirsi con lui a Milano, dove Nicolò trascorse serenamente gli ultimi anni di una lunga e piuttosto travagliata esistenza.

Nicolò Angelo Cernovicchio nacque a Barletta, nel 1529[1], «da Elia Cernovicchio Duca di Solona[2], ramo dell’albero di Costantino Magno Imperatore, e da Elena Castriota di altissima casata».[3]

Entrambe le famiglie dei suoi genitori erano, quindi, di antica e potente nobiltà: i Castriota, secondo le fonti turche, erano originari di Kastrat nel distretto di Malësi e Madhe nell’Albania Nordorientale[4] e la loro storia iniziò a intrecciarsi con quella dell’altrettanto forte e ramificata casata dei Cernovich – presenti in Montenegro, Macedonia, Croazia e Ungheria[5] – all’epoca dell’eroica resistenza albanese contro la dilagante invasione turca, guidata da Giorgio Castriota detto Skanderbeg (dal turco Iskender che a sua volta deriva dal greco Alexander, a cui si aggiunge il titolo turco «bey», «signore»), brillante generale e strenuo oppositore del dominio islamico nei Balcani, costretto comunque ad abbandonare la sua terra dallo strapotere turco[6]. Egli trovò rifugio nel Regno di Napoli, dove Re Ferdinando lo creò conte di Soleto e signore di Monte Sant’Angelo, Trani, San Giovanni Rotondo, Oria e Gagliano. Il figlio Giovanni, che sposò Irene Branković – figlia di Lazzaro II ed Elena Paleologa, figlia di Tommaso, uno degli ultimi discendenti della famiglia imperiale bizantina – fece un ultimo tentativo nel 1481 di liberare l’Albania, sbarcando con un contingente di armati a Durazzo, ma venendo sconfitto.

I Castriota rimasero a vivere da esuli nel Sud Italia.

Entrambe le famiglie ebbero un potente alleato nella Repubblica di Venezia che appoggiò la loro ostinata resistenza, essendo in primis interessata a porre un freno al dilagante espansionismo turco nel Mediterraneo con ogni mezzo: militare, politico e diplomatico, addirittura aiutando Papa Pio II Piccolomini ad organizzare la sua Crociata contro gli Ottomani, impresa che si arenò a causa del manifesto disinteresse di molte potenze cattoliche e della morte improvvisa del Pontefice, circostanza che segnò anche la fine delle residue speranze dei due casati di riuscire a riprendersi i propri territori.

Riguardo alle preoccupazioni esistenti nella politica veneziana per il dilagante espansionismo turco, E. Orlando[7] così descrive la situazione: «Da tempo Venezia aveva cominciato a vivere con apprensione la stretta esercitata dal Turco sulle terre balcaniche: continuava a sentirsi sicura sul mare, ma pativa la progressione degli eserciti ottomani verso i litorali adriatico e ionico ad Ovest e verso l’Egeo a Sud.

La minaccia era stata anzi tra le cause del maggior impegno territoriale profuso da Venezia sulle coste dell’Adriatico e dello Ionio a partire dagli ultimi decenni del Trecento […]. Da tempo immemorabile, infatti, Venezia possedeva e custodiva l’Adriatico, il suo Golfo, come dominio esclusivo e inalienabile. Una sovranità rivendicata dalla Serenissima sulle acque adriatiche, anche negli accordi veneto-ottomani di fine Quattrocento».

Forte fu anche il legame tra i Castriota e l’Italia, in particolare con la città di Barletta, dove l’esule Skandenberg giunse per portare aiuto «con il suo piccolo esercito, a Ferrante I D’Aragona, assediato in Barletta dalle truppe del principe di Taranto e degli altri baroni ribelli. Fu un intervento risolutore, poiché dopo una temporanea fuga in Basilicata, i nemici furono costretti a chieder la pace al Re e la città di Barletta fu da questi affidata al Castriota […] Un ramo discendente da Giorgio rimase a vivere a Barletta»[8].

I Castriota fecero da apripista anche ad altre famiglie balcaniche, iscritte tra il patriziato veneziano come «non originarie» tra cui molti esponenti dei Cernovich – in seguito italianizzati in Cernovicchio – iscritti nel 1474[9] (l’iscrizione venne concessa a trentuno famiglie di Terraferma che avevano supportato militarmente la Repubblica in varie occasioni, la maggior parte delle quali non fu mai attiva nella politica veneziana, fregiandosi del titolo in modo meramente onorifico).

Al riguardo è stato scritto che «Cernovicchio. Vennero da Albania dove possedevano alcune signorie e furono, per li servigi prestati nella guerra contro il Turco, aggregati alla nobiltà nel 1474. Si estinsero con Giovanni di Vettor nel 1635»[10].

Col tempo, molti di essi si spostarono in altre zone d’Italia in cerca di maggiori fortune, dato che la Repubblica, nell’assegnare incarichi e carriere nei gangli vitali dell’amministrazione, tendeva, come ogni stato dell’epoca, a privilegiare i membri della propria nobiltà originaria[11].

M. Ventimiglia così li descrive: «Tra le famiglie di maggior antichità di sangue è certamente la Casa Cernovichio, traendo ella origine da Costantini Imperadori[12]».

Nicolò ereditò dal padre il titolo di Duca di Solona: originariamente la località faceva parte del Ducato di Neopatria, regione storica ed entità statuale greca, situata in Tessaglia e suddivisa fra i capitanati di Siderocastron, Neopatria e Solona. Sua capitale e centro più importante fu la città di Neopatria (l’attuale Ypati). Fra il 1319 e il 1390 fece parte della Corona d’Aragona e da questa data fino al 1458, fu possesso della famiglia fiorentina degli Acciaiuoli, che cedettero il titolo nobiliare su Solona ai Cernovicchio dopo la definitiva caduta nel 1458 del Ducato in mano turca[13].

Il padre di Nicolò, Elia, si trasferì a Barletta, anche per l’appoggio che avrebbe potuto avere dai Castriota per il suo inserimento nel tessuto socio-economico locale: Barletta nel XVI secolo era una cittadina piuttosto fiorente – un dato riportato da Coniglio accenna a una buona produzione di tomoli di grano e orzo[14] – ed Elia e la sua famiglia sembra godessero di un tenore di vita piuttosto agiato. Dopo Nicolò nacque Don Pietro Angelo che, come era in uso all’epoca, intraprese la carriera ecclesiastica nell’Ordine Carmelitano.

Interessante la descrizione del contesto familiare fatta da Mariano Ventimiglia[15]:«Furon dalla Santa Vergine esaudite le preghiere di Elena, che pregò per la guarigione del figlio suo Pietro Angiolo, in maniera che ritornata in casa ritrovò l’infermo figlio non che libero dal suo malore, perfettamente sano. Dopo sì prodigiosa guarigione ottenuta per mezzo della Madre di Dio, comunicò Elena al figlio il voto da lei fatto, e la promessa fatta alla Vergine di donarlo alla stessa nel suo Ordine Carmelitano; e Pietro Angiolo, che sin da’ più teneri anni sortita aveva un indole inclinata alle cose del Cielo, unì subito il suo volere a quello materno et con spezial promessa confermò egli quella della madre, di vestir l’abito di Maria nel Sacro Chiostro del Carmelo […] Non passò guari però che il demonio, invidioso del bene delle anime, suscitò forte la tentazione et passione nel cuore di Elena di ritirar il filiolo dalla vocatione et anco il figlio maggiore Nicolò, che applicato erasi al mestiere delle armi: tentò allora di far passare Pietro Angiolo ne la Religione Gerosolimitana de’ Cavalieri di Malta, malgrado le ripugnanze del figlio.

Ma il Signore fece ricader ammalato il filiolo per far conoscere alla madre il suo fallo et, divenuta più accorta la madre, lasciò in pace il filiolo nell’Ordine Carmelitano. La verità di questi miracolosi successi fu poi riconosciuta da D. Nicolò Angelo Cernovicchio in Milano, a tal nostro P. Alfonso Caranza nell’anno 1593 cioè 12 anni dopo la morte del servo di Dio».

Infatti Nicolò Angelo che, sempre secondo Ventimiglia[16] «attediato dello stato suo di Cavalier Privato, in cui ridotto l’aveva la sua disgrazia, pensò alla ricuperatione del Principato di Macedonia, di cui spogliato ne aveva il Turco la Sua Casa, con ricorrere all’ajuto et protezione del Monarca delle Spagne Filippo II, et per l’importante affare determinò di servirsi del Religioso Fratello, pregando lui di portarsi in Spagna per operare presso di quella corte, come più efficace pel suo carattere et di minore dispendio. Si portò ben volentieri il fratello in Madrid, ma per segreti arcani de la divina provvidenza nulla ottenne dal monarca».

Nicolò si recò con lui in Spagna anche per sorvegliare da vicino l’evolversi di quella che considerava una trattativa di estremo interesse e, secondo Dìaz Gito[17], «como primogènito es Don Nicolao Cernovichio, Principe de Macedonia Duque de Sabiaca (sic), et legitimo heredero de este principato.

Entre los syufrimientos que el fraile carmelita supo padecer cristianamente se cuenta en su hagiographia el episodio del rapto de su hermano Nicolao par los turcos, de que acabaria librandose milagrosamente.

En 1580 el primogenito habìa mandado su hermano fray Pedro, provisto del pergamino con el àrbor gènealogico familiar, a Madrid, con el encargo de tratar con Felipe II[18] para que pudiese cobrar del turco sus estrado et el fraile, tras el fracaso de su mìsion, que debe relacionarse con la firma del armistizio entre el rey espanol y el sultan tuirco en mismo ano, decide de volver en Valencia».

La missione di Nicolò a Madrid si concluse con un nulla di fatto, dato che i Cernovich nel trattato non sono neanche vagamente citati.

Probabilmente fu sfortuna, ma un passo diplomatico di questo tipo avrebbe avuto bisogno di tempi più lunghi di preparazione, oltre che di qualche appoggio potente a Corte, inoltre il progetto dei Cernovich si poneva in netta antitesi con la politica regia verso i Balcani e l’Adriatico più in generale (senza contare il fatto che, lasciata la patria, i Cernovich si erano rifugiati nella nemica Venezia, il che agli occhi del Re Spagnolo non contribuiva di certo ad aumentare la loro credibilità).

Riguardo all’atteggiamento asburgico verso queste problematiche, così le delinea S. Faroqhi[19], «Filippo II di Spagna sapeva ciò che faceva quando rifiutò varie volte il suggerimento di provocare rivolte nell’Europa Sudorientale, suggeritegli a più riprese anche dai suoi cugini di Vienna mentre erano in corso le loro guerre contro i Sultani (1593-1606)».

Inoltre le preoccupazioni di tipo religioso erano tra le ragioni principali per cui molti dei sudditi dei Balcani non erano per niente entusiasti di finire sotto la dominazione degli Asburgo: sia il ramo spagnolo che quello austriaco avevano infatti una politica statale mirata a imporre l’osservanza del Cattolicesimo tra i propri sudditi, mentre la maggioranza dei Cristiani nei Balcani era ortodossa, così come piuttosto nutrita era la presenza di protestanti in Ungheria e in Transilvania.

Ciò spiega in parte la freddezza spagnola nei confronti dei Cernovich: pur essendo essi Cattolici, la loro presenza e richiesta, non solo si poneva in controtendenza rispetto agli interessi ispanici di quel periodo storico, ma addirittura venne considerata un potenziale freno e un grosso fastidio. Infatti accontentare le loro pretese avrebbe potuto portare non solo uno scontro armato con i Turchi, ma anche l’annullamento delle trattative in corso con gli stessi (che si conclusero con il trattato di pace del 1580) e la conseguente impossibilità di impiegare nuove somme di denaro e truppe nelle Fiandre e contro l’Inghilterra, ciò che fu per tutta la vita la vera ossessione del Re Spagnolo.

La situazione per Nicolò (che aveva puntato invano molte carte sulla possibilità di entrare nelle grazie del Sovrano e della Corte proprio in virtù del suo inserimento in un importante trattato internazionale come la pace con il Turco) peggiorò a seguito della morte del fratello, infatti secondo Seymour Stevenson[20], «Charles Emmanuel I, Duke of Savoy, whose ambitious temperament, not content with aspiring at one time to the throne of France and at another to the Imperial Crown of Charles the Great, prompted him to come forward as the successor of Andronicus The Elder, from whom he was descendant through the Monferrat branch of the Paleologi.

This design however did not stand alone but formed part of a vast project the conception of which had been originated in the fertile brain of one of Philip III’s ministers.

It was arranged firstly that the Pope should effect the conquest of Egypt with the aid of Tuscan and Venetian troops, and should thereupon hand that country over to Spain and the Duke of Savoy becoming Lord of Cyprus».

L’unico tra i principi italiani indipendenti che tentò di inserirsi nel complesso gioco politico Balcani-Spagna-Ottomani fu «l’avventuroso» Carlo Emanuele I di Savoia[21], data la sua innata tendenza a mettersi contro le grandi potenze europee. I Savoia, infatti, avevano già da molto tempo titoli e legami di parentela in Oriente da vantare a sostegno delle proprie pretese. Infatti, nel 1434, grazie al matrimonio tra Ludovico di Savoia e Anna di Cipro – più nota come Anna di Lusignano-Châtillon – si ebbe la trasmissione del titolo regio, sia pur soltanto nella titolarità dei diritti, alla Casa di Savoia. Morta senza eredi la nipote Carlotta, ultima legittima Regina di Cipro, moglie di Luigi di Savoia, le Corone di Cipro, Gerusalemme e Armenia passarono ai duchi di Savoia, che estesero ad esse ogni loro atto ufficiale, non ultimo lo Statuto Albertino[22].

Il progetto balcanico – che il duca di Savoia «accarezzava» già da parecchi anni, assieme a quello di divenire Re di Macedonia e Albania[23] – seppur in seguito abbandonato per contrasti insorti tra le potenze aderenti (nonostante le pressanti richieste di Papa Clemente VIII che involontariamente era divenuto un alleato delle pretese di Nicolò, che scrisse ripetutamente ma invano moltissime missive e brevi a tutti i principi cristiani affinché aderissero ad una sorta di nuova quanto anacronistica crociata di cui egli si proponeva come guida spirituale[24]), prese forma dopo che Nicolò aveva già lasciato la Spagna alla volta di Milano, anche se va aggiunto che a Madrid nessuno dei ministri regi si disturbò minimamente né di ricordarsi di lui, né di contattarlo: lo tennero invece informato alcuni suoi amici, italiani e spagnoli, accendendo un’altra volta molte speranze destinate ad essere ancora una volta deluse.

Molti cortigiani e ministri tentarono di far capire a Nicolò, riuscendoci dopo molte insistenze, che le sue ambizioni personali andavano in direzione diametralmente opposta rispetto alla politica degli Asburgo di Spagna nel Mediterraneo: pressato dalle continue e costose esigenze dalla guerra senza fine nelle Fiandre, dovendo fronteggiare pericoli più immediati e importanti come la pirateria inglese che falcidiava i convogli di galeoni e navi da carico provenienti dalle colonie sudamericane e l’ostilità permanente dei principi riformati europei, Filippo II prima e il figlio dopo, pur continuando a considerarsi i migliori portabandiera della «vera e unica religione», vedevano con molto sfavore il notevole impegno che una guerra lunga e costosa nel Mediterraneo avrebbe comportato per la Corona, con il rischio di combattere su troppi fronti e alla fine vedersi sgretolare tra le mani l’Impero così faticosamente costruito.

Il Papa e i suoi nunzi potevano scrivere e declamare finché volevano: i loro sforzi di mantenere il problema ottomano al centro delle relazioni internazionali come una sorta di «cultura dell’antagonismo», non riuscirono a fare breccia tra i principi dell’epoca. In altre parole i tempi dello spirito di crociata dell’avo Carlo V erano una pagina girata, ora bisognava ragionare non in termini eroico-cavallereschi, ma bensì di plumbea «real policy». Inoltre, importante aspetto da tenere presente, Nicolò era giunto a Madrid in una situazione personale molto simile a quella del giovane D’Artagnan del romanzo di Dumas, molti progetti e belle speranze, ma ben pochi solidi addentellati a Corte e denari per «regalie» e mance – prassi invalsa e rispettata in tutte le Corti all’epoca – che lo rese agli occhi di tanti un personaggio di secondaria importanza e poco appetibile.

Ma non vi erano soltanto i progetti riguardanti i territori balcanici persi nel secolo precedente (che i Cernovicchi tuttavia, a livello di ostentazione di titoli nobiliari e terre su cui appoggiarli, non avevano mai rinunciato a rivendicare per quella che consideravano una vera e propria usurpazione) a preoccupare Nicolò: come tanti altri Italiani sudditi della Corona di Spagna, egli sperava di poter fare rapidamente fortuna in terra iberica grazie anche all’eventuale appoggio di Filippo II, immaginandosi la Corte Spagnola non come quel nido di vipere che in effetti era, ma come un luogo di occasioni sociali per un giovane di belle speranze come egli si considerava; si immaginava di fare una rapida e ben remunerata carriera nell’amministrazione statale o nell’esercito, ma i suoi sogni, come quelli di tanti altri suoi coetanei, sarebbero stati ben presto stroncati dalla realtà.

Filippo era quotidianamente assediato da reggimenti di postulanti, ognuno dei quali arrivava con una più o meno solida raccomandazione di qualche parente o amico nobile o ecclesiastico, e il Re in alcuni periodi era talmente pressato e, occorre dirlo, quasi disgustato da questa marea di personaggi – molti dei quali erano reputati, spesso non a torto, famelici avventurieri che volevano solo darsi alla bella vita con i soldi pubblici – che finì col riservare le udienze solo agli ambasciatori accreditati, ad alti ecclesiastici e a una ristrettissima cerchia di alti cortigiani, quali Grandi di Spagna, Comandanti di truppe o Ministri.

Contro questo muro di gomma andarono a cozzare, per poi infrangersi, oltre i progetti e le speranze di molti sudditi del «Rey», tra cui Cernovicchio, anche quelle di un altro giovane patrizio italiano, il principe di Borgo Val di Taro Federico II Landi, il quale con ogni probabilità gli fu presentato dal Duca di Terranova, lontano parente di sua moglie Placidia Spinola – dato che era presente alla Corte Madrilena proprio nello stesso periodo del Cernovicchio, cioè tra il 1590 e il 1591, anno in cui prese le redini del governo del suo stato feudale appenninico alla morte del padre Claudio[25].

Landi e Cernovicchio avevano molte cose in comune: entrambi esuli dalle rispettive patrie (il primo per le ritorsioni e il rancore farnesiani nei confronti della sua famiglia, il secondo per l’invasione ottomana), entrambi con un atteggiamento di amore/odio nei confronti della Spagna, bisognosi di potenti e influenti amicizie e benevolenza regia, desiderosi di ampliare le proprie entrate tramite pensioni statali e incarichi nell’esercito o nell’amministrazione pubblica.

Landi giunse a Madrid che aveva 17 anni e l’amicizia e l’appoggio di persone più grandi di lui non potevano che tornargli molto utili: lo scopo della sua visita, oltre che di accattivarsi la simpatia del Re e dei suoi ministri, era quello di ottenere più consistenti aiuti regi per il recupero di un feudo della sua famiglia, Borgotaro, di cui si era impossessato il duca di Parma Ottavio Farnese, la cui famiglia era «inimicissima assai dei Signori Prencipi Landi», ma anche lui si vide messo frettolosamente alla porta con un sacco di vane promesse da funzionari regi senza avere alcuna possibilità di vedere di persona il Re, nonostante le sue credenziali di Principe del Sacro Romano Impero e feudatario imperiale che, sommate all’appoggio dell’ambasciatore mediceo e del Re di Svezia, lo rendevano almeno in teoria un personaggio di maggior importanza di Nicolò!

Nicolò, che all’epoca aveva 45 anni, entrò subito in sintonia con Landi divenendo ben presto suo amico, un sentimento che i due si sarebbero portati dietro per tutto il resto della vita.

Tornando ai tentativi di Nicolò di vedere di persona ed entrare nella benevolenza di Filippo II, sappiamo che le provò davvero tutte, come è testimoniato da due documenti spagnoli[26].

Nel primo, datato 7 marzo 1585, egli scrisse personalmente al Monarca, ostentando una familiarità un po’ sfacciata che con un carattere come quello di Filippo II a stento si sarebbe potuto permettere un Grande di Spagna, chiedendogli un incarico remunerato a Corte, commettendo però l’errore di non specificare quale, il che lo rendeva atto a saper fare un po’ di tutto e un po’ di niente: protocollare, cortesissima ma gelida la risposta del Sovrano, che si limitò a lodarlo «con muchas buenas palabras» e promettergli di tenerlo presente per tempi futuri, il che significava «scartato».

L’esperienza rese un po’ più saggio Cernovicchio, che tornò alla carica il 10 luglio 1585 con una lettera di presentazione che portava l’autorevole firma del Duca di Terranova[27] che chiedeva al Re di prendere al suo servizio – cioè trovare un posto di rilievo nell’esercito o nell’amministrazione statale – «por el Real servicio» il Duca di Solona, magnificandone le doti di ottimo e devoto suddito, buon capitano d’arme e soprattutto uomo molto leale nei confronti della Corona e della Famiglia Reale, sottolineando come nel marzo di 3 anni prima, gli era già stata concessa una «renta» di 35 scudi annuali, dei quali – vizio molto noto a cui gli Spagnoli soggiacevano da tempo – aspettava il pagamento di tre rate trimestrali. La supplica al Sovrano terminava con un’esplicita richiesta di voler prendere sotto la sua diretta protezione i diritti che Cernovicchio vantava su feudi e beni in terre occupate dai Turchi.

Questa volta il Re, chiaramente infastidito, non si prese nemmeno il disturbo di una risposta e il documento, come tantissimi altri dello stesso tenore che lo accompagnavano (e altri ancora che lo avrebbero seguito) finì a fare la polvere negli archivi regi.

Nicolò Angelo a seguito di queste disavventure si convinse che la sua dispendiosa presenza a Madrid non gli avrebbe procurato alcunché e, soprattutto dopo la morte del fratello, si decise a trasferirsi a Milano, in questo sollecitato e consigliato ancora una volta da Landi, che in una sua lettera del maggio 1586[28] gli promise di trovargli una collocazione adeguata tramite il suo giro di conoscenze milanesi, risultato che per lui sarebbe stato senza dubbio più facile da ottenere lì che non nella lontana e anche per lui molto infida Madrid (come ebbe egli stesso modo di costatare più volte, soprattutto negli anni della gestione della tutela dei nipoti Grimaldi, principi di Monaco).

A complicare ulteriormente la non facile situazione del Cernovicchio comparve anche un abile truffatore e falsario che si spacciava per lui e che raggirava, pare con una certa astuzia, vari personaggi in vena di scalate sociali, rifilando, dietro consistenti esborsi in denaro, titoli nobiliari e attestati cavallereschi di varia natura, che una volta presentati in pubblico si rivelavano essere solo delle abili e ben congegnate contraffazioni.

Il vero Nicolò Angelo ebbe notizia delle sue losche attività già nel maggio 1580[29], quando il solito, sollecito Landi lo informò della sua presenza in Spagna, notizia che aveva avuto da alcuni suoi confidenti – sarebbe forse meglio definirli spie – da Madrid[30].

Chi era veramente lo pseudo-Angelo?

Secondo Dìaz Gito[31], «un extremo est eque se apresura a confirmar notarialmente uno mas de los autodeclarados depositario de los derechos imperiales costantinopolitanos, un tal Nicolao Cernovechio (sic), un pobre diablo a la sazòn en Madrid por èsta epoca a la caza y captura de algùn incauto a quien embaucar abrumàndolo con el desplieugue de un impressionante peergamino genèalogico: el blasòn de este supuesto descendiente de los principes de Montenegro comparte con ellos de Lecca el aquilà bicefala coronada de oro explayada sobre campo de gules lo que sirve a Vasquez para dar verosolimitud a esta occurrencia, que de paso, le confiere legitimidad par asumir como propria la divisa de los emperadores bizantinos».

Il povero diavolo cui si riferisce l’autore dell’articolo non era poi tale, dato che viveva «more nobilium» e pare potesse godere di uno stile di vita piuttosto raffinato, in realtà[32] «il sedicente Cernovichio risultò essere un tavernaio di Brindisi e celebre falsario già condannato a Venezia dal Consiglio dei XL l’8 luglio 1593 e evaso dal carcere, riconosciuto da vari testimoni – come Cesare Zaccone e Marco Samuel – che dichiararono in sede di testimonianza che con fraude et falsità creava Cavalieri dell’Ordine di San Giorgio e della Croce Rossa.

Il 15 luglio 1597 venne condannato da Don Carlo Cappello, Luogotenente Criminale dell’Auditore Generale della Camera Apostolica».

Incastrare il personaggio non fu per niente facile. Abile nel destreggiarsi, indubbiamente molto colto e preparato, come tutti i grandi falsari sicuramente disponeva anche di una solida rete di complicità e di autorevoli personaggi disponibili, dietro adeguato compenso, a coprirgli le spalle: un vero e proprio passo falso lo fece seguendo le orme di Nicolò a Roma e pretendendo di ripetere lì le proprie imprese. Ciò che contribuì a smascherarlo fu un atto di concessione del 1592 di titoli fatto dal truffatore a tale Don Alfonso Ciccarellio, che sborsò una cifra consistente per poi ritrovarsi tra le mani un pezzo di carta senza valore, da qui iniziarono i sospetti[33].

Chi mise in realtà la giustizia pontificia sulle sue tracce fu Landi[34], il quale, venuto a conoscenza di questo atto nel maggio di quell’anno, nonostante la Chiesa fosse parte in causa contro di lui nella vicenda processuale borgotarese, si mosse a protezione del suo amico Nicolò dato che godeva di «alchune aderentie» presso la Corte Pontificia.

Far arrestare il reo a Roma fu molto più semplice, dato che la giustizia papale era molto meno indulgente rispetto a quella spagnola nella repressione di questo genere di reati.

L’episodio è ricordato da Onorato di Santa Maria[35], «un tale che fecesi chiamar Andrea Angelo Cernovichi volea usurpar il titolo di Maestro di San Giorgio, et in tal qualità far de’ cavalieri; sotto Papa Clemente VIII fu condemnato al bando perpetuo et alla galea a vita per sentenza della Real Camera Apostolica».

L’episodio causò non pochi e seri imbarazzi all’autentico Duca di Solona, che si trovò a più riprese a dover dare a svariati personaggi non facili spiegazioni, dato che il falso Nicolò aveva iniziato a investire anche Cavalieri della cosiddetta Milizia Aurata, di cui, nel testo di riforma della stessa, tra le firme di avallo del testo (i Cernovicchi erano infatti pienamente coinvolti «de jure» nella amministrazione della Milizia) figura anche proprio quella di «Nicolò Cernovicchio affine del Principe [Gerolamo Angelo Principe di Tessaglia, nota dell’Autore] et Sottoluogotenente Generale dell’Ordine».[36]

La Milizia Aurata non era un vero e proprio Ordine Cavalleresco, bensì un titolo nobiliare, più precisamente di dignità gentilizia e di diretta emanazione e pertinenza pontificia, concesso per collazione diretta o subcollazione, in virtù della quale gli insigniti potevano avere legalmente accesso alla nobiltà ereditaria che promanava dal conferimento pontificio.

L’accesso era comunque molto rigido e selettivo, con un esame preliminare del candidato e del suo status di persona vivente «more nobilium», in quanto esso era conferito per riconoscimento di maturata condizione gentilizia.

La Milizia Aurata inoltre concedeva anche il privilegio del titolo di Conte Palatino.

Il titolo non era ereditario, ma conferiva la nobiltà generica ereditaria, almeno da Paolo III alle riforme ottocentesche. Il Sovrano Ordine di Malta, considera il Palatinato di nobiltà generosa solo se in presenza della Milizia Aurata.

Esso viene ritenuto il più antico Ordine Cavalleresco della Santa Sede e viene conferito solo per merito, non tenendo conto perciò della nobiltà di nascita, come era caratteristica del vecchio titolo.

Ma i problemi del povero Nicolò non erano ancora finiti.

Infatti, dopo la morte del fratello nel 1581[37], egli ebbe dei grossi problemi, trascinatisi sino al 1584, per entrare in possesso di alcuni beni che il fratello gli aveva lasciato, la situazione ad un certo punto divenne di una gravità tale da richiedere il diretto intervento del Vescovo di Valencia Giovanni De Ribera che, dando esecuzione a una bolla emanata da Papa Gregorio XIII su richiesta del duca di Solona (in cui si minacciava la scomunica per chi godesse senza averne titolo legale di beni, scritture ed altro appartenenti a Pietro Cernovicchio, duca di Sabiaci, morto nel castello di Torrente), riuscì a far riavere a Nicolò ciò che gli spettava.[38]

Queste ultime vicende, unitamente al dolore per la perdita dell’amato fratello, indussero il duca a dare ascolto ai sempre più pressanti e reiterati inviti fattigli da Federico Landi affinché si decidesse a trasferirsi in pianta stabile a Milano, città dove avrebbe goduto di una maggior stima e rispetto che non a Roma o a Madrid e dove, almeno così lo rassicurava Landi, avrebbe potuto passare il resto della sua vita in piena tranquillità e lontano dalle tante angosce e travagli che l’avevano caratterizzata sino a quel momento.

Nicolò si dimostrò in questo caso persona piuttosto elastica e adattabile, finì con l’accettare quella che gli appariva come una delle poche, serie alternative che gli erano rimaste e, facendo pieno affidamento sul buon senso e l’intelligenza del suo amico, decise di traslocare definitivamente nel capoluogo del ducato che dal 1535 era passato sotto il diretto dominio spagnolo.

Milano, tra le tante città che componevano il multietnico Impero Spagnolo, era una delle più accoglienti e vivibili per un esule: la lontananza da stati nemici confinanti o situazioni di guerra (si pensi alle Fiandre), l’importante collocazione geografica, la vivacità e dinamismo della vita culturale ed economica cittadine, il prestigio e l’importanza della nobiltà milanese la rendevano un interessante e favorevole potenziale «porto d’approdo». Con Cernovicchio a Milano in un certo senso erano tutti un po’ soddisfatti, il Re di Spagna perché si levava di torno un’ingombrante e imbarazzante presenza, Landi perché poteva contare su un fidato amico in più, oltretutto esponente di una delle famiglie più antiche, celebri e prestigiose del patriziato balcanico, agendo anche in questo caso del tutto autonomamente e al di fuori dell’orbita regia e dimostrando ancora una volta di essere ben conscio che «l’auto-organizzazione patrizia come ceto dominante, proprio per il suo inserirsi come variante del modo aristocratico di organizzazione del potere, nonché per l’ampiezza dei referenti di cui dispone, è in grado di informare di sé, e strutturare in relazione a sé, tutta la società»[39].

I Landi a Milano erano infatti una famiglia nota e socialmente ben inserita già dal XV secolo.[40]

Federico, personaggio molto colto e di gran levatura, come Cernovicchio, aveva ben presente la necessità e l’importanza di una solida integrazione con il notabilato milanese e l’élite nobiliare cittadina[41] e, già dal suo arrivo a Milano nel 1590, si fece conoscenze importanti nell’ambito del patriziato, come Trivulzio, Borromeo, Stampa, Simonetta e altri[42], quindi (anche se purtroppo non è stata reperita precisa documentazione al riguardo) si può avanzare l’ipotesi che sia stato proprio lui a introdurre e presentare l’esule balcanico negli ambienti «importanti» di Milano, anche se Nicolò dà l’impressione di un carattere molto schivo e riservato.

La sua presenza a Milano e la sua stessa vita possono a questo punto, in mancanza di ulteriori fonti note di riferimento, essere seguite sulla scia di vari atti notarili conservati all’Archivio di Stato di Milano, che servono comunque almeno a tracciare una fotografia piuttosto nitida e precisa sull’effettiva ricchezza del personaggio e sulla gestione del suo patrimonio, caratterizzata peraltro da una certa vivacità e ingegnosità nelle scelte fatte.

Per quanto riguarda la situazione economica e sociale del ducato negli anni in cui egli vi visse, vide l’acutizzarsi di una forte regressione del sistema economico e culturale milanese che si era determinata a partire dalle vicissitudini politiche del secolo precedente causata, in parte, dal consolidarsi del dominio spagnolo.

Tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo carestie e peste si abbatterono sul ducato rendendo ancor più problematica la situazione.

La Monarchia Spagnola aveva imposto dazi sulla produzione di tipo manifatturiero che colpirono il ceto imprenditoriale, mentre non fu tassata o tassata poco la proprietà immobiliare e terriera, ingenerando fenomeni di rendita passiva. Il ceto imprenditoriale, mercantile e finanziario, si rifugiò quindi nelle campagne, adeguandosi allo stile di vita della nobiltà di matrice feudale, indirizzando gli investimenti alle attività agricole per evitare le tassazioni spagnole: ciò che fece anche Cernovicchio, che peraltro, essendo nobile, era esentato dal pagamento di quasi tutte le imposte.

I suoi investimenti denotano una certa agiatezza economica, senza contare il fatto che, all’epoca, «la ricchezza era un importante supporto della condizione nobiliare (un nobile povero poteva infatti essere costretto ad azioni disonorevoli per sé e per l’intero ceto), serviva a ostentare la magnificenza, a praticare la liberalità, a esercitare il mecenatismo, ad assegnare alle figlie doti matrimoniali confacenti al loro stato.

La terra, e le entrate che da essa si ricavavano, costituiva la parte preponderante dei patrimoni nobiliari. Non mancavano però anche coloro che disponevano di ampie proprietà immobiliari urbane o che avevano investito denaro in titoli di stato o nelle azioni delle compagnie commerciali o che ricavavano profitto dal possesso di mulini e osterie, dall’esercizio di giurisdizioni […] Il vivere di rendita restava la più diffusa forma di comportamento economico dei nobili e l’uso della ricchezza che essi facevano era ben lontano dai criteri che regolano la sana amministrazione di un patrimonio[43].

Non siamo in possesso di una data precisa che indichi l’arrivo di Nicolò a Milano, anche se si può collocare subito dopo il 1582, dato che le fonti consultate non danno più sue notizie né a Madrid o a Valencia o a Roma.

Egli è invece sicuramente citato in uno Stato D’Anime della Parrocchia Milanese di San Bartolomeo dell’anno 1600, in cui il parroco registrò che il suo nucleo familiare era così composto[44]:

«Cernovichio Nicolò Duca di Solona a casa del Signor Perego età 64 circa

Anna Ferega sua domestica età 22 circa

Francesco De Malnate domestico età 25 circa».

Nicolò non si sposò né ebbe propria discendenza, come è confermato anche dai suoi due testamenti.

Per quanto riguarda gli atti notarili individuati, essi si collocano in un arco di tempo che va dal 1592 al 1603, dei quali si presenta un breve regesto:

1) 5 febbraio 1592, Nicolò affitta a Bartolomeo Giannini un appezzamento di terreno arabile con casa, pozzo e attrezzi da lavoro, per la durata di anni nove, per un corrispettivo di canone di lire 300 imperiali da versarsi in due rate, la prima per la Festività Pasquale, la seconda il giorno dedicato a San Michele, con la clausola che anche il mancato versamento di una sola rata nel periodo concordato darà luogo all’annullamento del contratto[45];

2) 21 luglio 1594, Nicolò affitta un suo immobile a Milano a Cesare Lazzari per la durata di anni sette a fronte di un canone annuo di lire 200 imperiali, da versarsi in tre rate[46];

3) 4 settembre 1594, Nicolò presta a Giulio Cesare Conti la somma di lire imperiali 200 e soldi 120 con l’obbligo per il debitore della restituzione della somma entro un anno in tre rate all’interesse pattuito del 4%, come era di prassi dando in garanzia tutti i propri beni al creditore[47];

4) 3 aprile 1595, Nicolò, dovendosi assentare da Milano, nomina per la durata di mesi 6 Cesare Canzani di Cornaredo suo procuratore per il disbrigo dei suoi affari e il pagamento di canoni e interessi a vario titolo da lui goduti, a fronte di un pagamento di lire 25 imperiali[48];

5) 26 agosto 1595, Nicolò affitta una sua casa a Milano a Camillo Gallio per la durata di anni sette, a fronte di un canone annuo di lire imperiali 90, da versarsi in due rate, la prima per Pasqua e la seconda il giorno dedicato a San Michele[49];

6) 13 novembre 1595, Nicolò rinnova l’affitto di un appezzamento di terreno in Cesate a Giovanni Pietro Zocola, con casa, pozzo, giardinetto e orto, per la durata di anni nove a fronte di un canone di affitto da versarsi in due rate pari a scudi 50 d’oro. Interessante un fogliazzo annesso all’atto, che narra di un contratto d’affitto stipulato tra i due nel 1594 per un identico canone, che Zocola non aveva onorato e per il quale Cernovicchio lo aveva portato di fronte al Capitano di Giustizia, l’atto riporta che, conformemente alla sentenza, il duca doveva ridurre il debito di nove scudi d’oro per migliorie fatte da Zocola a proprie spese nei terreni, piantandovi nuovi alberi e anticipando il pagamento delle sementi[50];

7) 13 luglio 1596, Nicolò affitta un terreno arabile con casa e pozzo a Bartolomeo Marchesi per la durata di anni tre a fronte di un canone annuo di 30 scudi, da pagarsi in due rate secondo le date d’uso, il locatore si impegna ad anticipare l’acquisto di sementi e attrezzi il cui costo, debitamente documentato, gli sarebbe stato poi scalato dalla prima rata del canone[51];

8) 24 marzo 1597, Nicolò affitta due sue case ubicate a Milano a Cesare Garibotto per la durata di anni sette a fronte di un canone annuo, per entrambe, pari a 119 lire imperiali, da pagarsi alle scadenze d’uso[52];

9) 28 luglio 1597, Nicolò affitta al marchese Pirro Malacrida tre suoi terreni arabili con case, pozzi, giardini e orto per il canone globale di scudi 90 d’oro, da versarsi nelle date d’uso, il marchese si impegna ad anticipare il costo di sementi e attrezzi, da scalare poi alla prima rata[53];

10) 26 settembre 1597, Nicolò concede a Pirro Malacrida una sola dilazione nel pagamento di una delle rate pattuite con l’atto precedentemente descritto con la penalità di ulteriori scudi sei per compensarlo del periodo di ritardo[54].

La lettura di questi atti trasmette l’immagine di una persona benestante, coincidente con un allodiero di livello medio-alto, ben inserito nell’ambiente sociale ed economico milanese: Federico Landi aveva quindi mantenuto la sua promessa.

Si riportano altresì i due testamenti di Nicolò, dato il particolare e ben noto valore storico e documentario di questa tipologia di atti notarili:

1) nel primo, rogato a Milano il 28 ottobre 1603[55], Nicolò alias Angelo figlio di Elia lasciò disposizione per la sua sepoltura, che volle fosse fatta con corazza e decorazioni «et cinto de la mia spada indorata», in ricordo del fratello volle che la sua bara fosse portata e interrata da 12 frati carmelitani, raccomandando che il suo corpo fosse posto nel sepolcro sotto la cappella dedicata alla Vergine Maria di Costantinopoli ubicata nella chiesa di San Bartolomeo di Milano, con l’obbligo per il clero lì dimorante di far dire tre Messe a suffragio entro i 40 giorni dalla sua morte e un totale di 40 Messe annue, a fronte di un versamento di 200 scudi annui provenienti dalle rendite e canoni dei suoi beni immobili affittati in Milano e contado, che egli lasciò in blocco alla parrocchia di San Bartolomeo, più esattamente alla cappella dove volle esser sepolto, nominando curatori dei suoi beni il parroco e i fabbriceri, con l’obbligo a loro carico di tenere aggiornato l’archivio dei contratti e fare nel termine di due mesi un inventario generale dei suoi beni sia immobili che mobili, cioè anche argenti, monete antiche della sua collezione e la quadreria. Nella sua veste di «Patrono et Capo della Religione Aureata Angelica Costantiniana sotto il titolo di San Giorgio», egli nominò eredi dell’archivio, documenti pergamenacei papali connessi e «altre scrithure di pertinentia» il Re di Spagna Filippo III – cui andavano anche il suo titolo ducale e quello principesco sulla Macedonia – e un suo cugino, Geronimo Angelo (che, per la fedeltà dimostrata alla Santa Sede, era già stato insignito dai Pontefici Paolo IV e Giulio III di vari benefici canonicali e del diritto di poter creare cavalieri), anche se per quest’ultimo codicillo non è molto chiaro né dove sarebbe stato depositato l’archivio dell’Ordine Costantiniano né come Geronimo e il Re Spagnolo avrebbero potuto interagire al riguardo;

2) nel secondo, rogato sempre a Milano il 29 febbraio 1604[56] «in articulo mortis», sono in generale ribadite le norme generali già disposte per la sepoltura, ma con alcune notevoli variazioni di sostanza rispetto al testamento precedente. Innanzitutto Nicolò, che si fa chiamare con il nome completo di Angelo, dava disposizione che dopo la sua sepoltura nella cappella già citata, venissero pagati 25 scudi d’oro annuali a sostentamento di un sacerdote che si assumesse però l’incarico di dire almeno 12 Messe annuali a suffragio della sua anima e di quella dei suoi genitori.

I rapporti con il cugino citato nel 1603 si erano forse nel contempo deteriorati, dato che questi nella seconda redazione non figura nemmeno citato, così per il Re di Spagna, dal quale Cernovicchio si era accorto di essere stato soltanto illuso e preso in giro.

In questa versione testamentaria chi compare è invece una delle poche persone che gli vollero davvero bene e curarono al meglio i suoi interessi, cioè Federico Landi, nominato anzitutto esecutore testamentario.

Val la pena a questo punto riportare uno stralcio del documento che ben ci illustra i reali rapporti di affetto e attaccamento che intercorrevano tra i due: «Nomino mio executore l’Ecc.mo Don Federico Landi Prencipe del Sacro Romano Imperio, et di Val di Taro quarto, Marchese di Bardi et Conte de Compiano qui lo eleggo per mio filiolo dilettissimo et come fusse del mio stesso sangue, et dispongo che egli agiunga alle sue armi et nome quelle de Cernovicchio, de poter portar la Croce del mio Ordine de’ Cavalieri et porti l’insegne de le mie armi qual son un aquila d’oro con due teste coronate e nel mezzo di esse teste una corona imperiale, in campo rosso et che potrà far ciò anco con i soi discendenti legittimi et a chi li parerà più oportuno […] Item lassio al detto Sig. Principe tutte le scritture et ragioni spettanti all’imperio Costantinopolitano, al Ducato de Solona al Principato de Macedonia et li altri mei beni positi in Ongaria con le ragioni ad essi spettanti potendo egli lassiarle anco a suoi successori legittimi. Lasio inoltre al detto Prencipe de voler far fare inventario de tuti li miei beni».

Federico non unì mai le armi e insegne dell’amico alle proprie. Inoltre, il principe sapeva benissimo che i territori lasciatigli dall’amico erano in quegli anni – e vi sarebbero rimasti ancora a lungo – sotto il controllo ottomano e a Istanbul non si sarebbe, per ovvie ragioni, mai consentito ad un principe cristiano, cioè a un infedele, di avere terre e feudi nei territori di sovranità del Gran Sultano, con la conseguenza che le disposizioni testamentarie relative a Landi rimasero lettera morta.

I beni di Cernovicchio lasciati alla parrocchia di San Bartolomeo andarono invece effettivamente a quest’ultima, anche se, con la soppressione della parrocchia in età napoleonica, l’archivio, esclusa la parte anagrafica, è andato del tutto perduto.

Questo l’atto di morte di Nicolò[57]:

«Adì 6 marzo 1604.

È morto il Signor Nicolò Cernovichio Duca di Solona de anni 75 in casa dell’Emilio Perego, ricevuti tutti i Santissimi Sacramenti».


Note

1 Anno desunto dal suo atto di morte.

2 Solona (in croato Solin) è una città della regione spalatino-dalmata, in Croazia.

3 G. M. Fornari, pagina 380. Anno memorabile de Carmelitani, nel quale a giorno per giorno si rappresentano le vite, l’opere, i miracoli di S. Elia profeta loro patriarca, e di tutti li santi, e sante, beati, e venerabili eroi del suo sacro ordine della beatissima Madre di Dio Maria Vergine del Monte Carmelo, ordinato, e disposto dal padre maestro Giuseppe Maria Fornari, Milano, Gagliardi, 1688, pagina 380.

4 N. Noel Malcolm, Kosovo: a short History, New York, New York University Press, 1998, pagina 88.

5 Al riguardo si rimanda ai testamenti di Nicolò citati successivamente.

6 Per maggiori notizie su di lui, vedere J. W. Sedlar, East Central Europe in the Middle Ages (1000-1500), University of Washington Press, 1994, pagina 393 e seguenti.

7 E. Orlando, Paci e confini nei Balcani, in Balcani Occidentali, Adriatico e Venezia tra XIII e XVIII secolo (a cura di G. Ortalli e O. J. Schmitt), Osterreische Akademie Der Wissenschaften Philosophisch-Historicke Klasse, Wien, 2009, pagine 103-116.

8 A. Vitrani e F. Pinto, Barletta. Stemmi di famiglie nobili, Ricerche della Biblioteca, Barletta, s.d., pagina 79.

9 S. Chojnacki, La formazione della nobiltà dopo la Serrata, in Studi Veneti, volume III, Treccani, Roma, 1997.

10 C. Spagnuolo Tentori, Dizionario storico portatile di tutte le Venete Patrizie Famiglie, Bettinelli, Venezia, 1780, pagina 35.

11 Al riguardo vedere Dorit Raines, Cooptazione, aggregazione e presenza al Maggior Consiglio: le casate del patriziato veneziano, 1297-1797, in Storia di Venezia-Rivista, I, 2003, pagine 2-64 e Todesco Maria-Teresa, Andamento demografico della nobiltà veneziana allo specchio delle votazioni nel Maggior Consiglio (1297-1797), in Ateneo Veneto, Venezia, G. Alvisopoli, volume CLXXV.

12 P. M. F. Mariano da Ventimiglia, Sll acro Carmelo Italiano ovvero l’ordine della SS. Vergine Madre di Dio Maria del monte Carmelo nella sola Italia disteso colle sue provincie, suoi conventi, ed uomini illustri da quelli dati alla luce descritto da... Mariano Ventimiglia. Vita del Venerabile Pietro Cernovichio, F. Giuli, Venezia, 1779, pagina 60 e seguenti.

13 Kenneth M. Setton e Harry W. Hazard, A History of the Crusade, volume III, vedi i capitoli: The Catalans in Greece e The Catalans and Florentins in Greece (pagine 225-277), Madison (Wisconsin) e Londra, Ed. University of Wisconsin Press, 1975.

14 G. Coniglio, Il Viceregno di Napoli nel secolo XVII, in Storia ed Economia, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1955, pagina 43.

15 P. M. F. Mariano da Ventimiglia, Il Sacro Carmelo Italiano, opera citata, pagine 130-133.

16 P. M. F. Mariano da Ventimiglia, Il Sacro Carmelo Italiano, opera citata, pagina 131.

17 M. A. Dìaz Gito, Dos cartas de Calvete de Estrella al Secretario Real Mateo Vazquez De Leca, in Calamus Renascens, Universidad de Càdiz, Espana, volume 7, 2006, pagina 68.

18 L’accordo tra Filippo II e il Sultano Murad III fu provocato dalla necessità della Spagna di un maggiore impegno nei Paesi Bassi e per l’intervento militare in Portogallo. Inoltre vi era la necessità per i Turchi di affrontare con maggiori forze il nemico persiano.

19 S. Faroqhi, L’Impero Ottomano, Universale Paperbacks, Il Mulino, Bologna, pagina 20.

20 F. Seymour Stevenson, A History of Montenegro, Jarrold, London, 1914, pagina 105 e seguenti.

21 V. Castronovo, Carlo Emanuele I Duca di Savoia, in Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, Roma, volume 20.

22 Sull’argomento confronta D. Taverna, Anna di Cipro. L’eterna straniera, Jaka Book, Roma, 2008; M. J. di Savoia, Le origini di Casa Savoia, Mondadori, Milano, 2001.

23 F. Rignon, Carlo Emanuele I e la Macedonia, in Antologia di Scienze, Lettere ed Arti, Firenze, volume 66, novembre-dicembre 1904.

24 G. Poumarède, Il Mediterraneo oltre le Crociate. La Guerra Turca nel Cinquecento e nel Seicento tra leggende e realtà, Utet, Torino, 2009, pagina 243.

25 R. De Rosa, Lo Stato Landi, Biblioteca Storica Piacentina, Piacenza,2008, capitolo V.

26 Entrambi i documenti in AGS, Estado, leg. 1260, fogli 61, 144.

27 Si tratta di Carlo d’Aragona Tagliavia (Palermo, 1520-Madrid, 1599), appartenente alla famiglia dei marchesi d’Avola, ottenne il titolo di duca alla morte della madre dal 1542 (il nonno materno l’aveva ottenuto nel 1502), era figlio di Giovanni Tagliavia, conte di Castelvetrano, e di Antonia d’Aragona, unica figlia di Carlo d’Aragona, marchese di Avola, e duca di Terranova. Egli fu Viceré di Sicilia per ben due mandati, dal 1556 al 1568 e dal 1571 al 1577. Nel 1581 fu nominato Viceré di Catalogna, per poi trasferirsi a Milano ove fu Governatore del Ducato dal 1583 al 1592, entrando in ottimi rapporti con Federico Landi, che cercò di aiutare l’amico Nicolò anche tramite il Duca. Archivio Doria Landi Pamphily (di seguito ADPL), scaffale 84/56.

28 ADPL, scaffale 40/32.

29 Il che sposta indietro di almeno due anni la prima notizia certa sulle attività del losco individuo rispetto a A. Marini Dettina, Il legittimo esercizio del Gran Magistero del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2003, pagina 46 e seguenti.

30 ADPL, scaffale 42/60.

31 M. A. Dìaz Gito, Encomio de Mateo Vasquez y Heràldica de los Lecca el La Corsica de Calvete De Estrella, Talia Dixit, Càceres, Espana, numero 9 (2014), pagina 87.

32 A. Marini Dettina, Il legittimo esercizio del Gran Magistero del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, opera citata, pagina 46 e seguenti.

33 Archivio Storico Capitolino, Archivio Urbano sezione 1, notaio Giacomo Grenieri, volume 348, foglio 55 e seguenti.

34 ADPL, scaffale 41/53.

35 Onorato di Santa Maria, Dissertazioni storiche e critiche sopra la Cavalleria antica e moderna, Secolare e Regolare, Brescia, G. Rizzardi, 1761, capitolo IV.

36 Hieronimo Angelo Principe di Tessaglia, Statuti et Capitoli della Militia Aureata Angelica Costantiniana di San Giorgio di nuovo riformati et approbati dall’Illustrississimo et Eccellentissimo Hieronimo Angelo Principe di Tessaglia, Sovrano, Patrone et Gran Signore dell’Ordine, Venetia, M. Bonelli, 1573, pagina 48.

37 Così in P. Giuseppe Maria Fornari, Anno Memorabile de’ Carmelitani, opera citata, pagina 384: «E così […] egli professò virtù principali, vita singolare, perfettione suprema, et perciò visse da Principe Christiano et perfetto Religioso, e finì la vita caduca et mortale con honore et gloria singolare di osservante tra’ Claustrali Carmeliti l’8 ottobre 1581».

38 Copia del documento in ADPL, 78/30. La presenza del documento nell’archivio principesco indurrebbe a ritenere come molto probabile un ennesimo, diretto intervento di Federico Landi.

39 C. Mozzarelli, Il Sistema Patrizio, in Antico Regime e Modernità (a cura di C. Mozzarelli), Bulzoni, Roma, 2008, pagina 16.

40 R. De Rosa, Storia dello Stato Landi (1257-1682), Società Storica Piacentina, volume 23, 2008.

41 Sull’argomento vedere C. Cremonini, Le vie della distinzione. Potere e cultura a Milano tra XV e XVIII secolo, EduCatt, Milano, 2012, capitolo I.

42 R. De Rosa, Un Principe, uno Stato: vita di Federico Landi, Centro Studi Val Ceno, Bardi, 2015.

43 A. Spagnoletti, Il Mondo Moderno, Il Mulino, Bologna, 2005, pagine 130-131.

44 ASDMI, Archivio Spirituale, Status Animarum di San Bartolomeo di Milano, volume VII.

45 Archivio di Stato di Milano (di seguito ASMi), Fondo Notarile, fz. 20074.

46 Ibidem.

47 Ibidem.

48 Ibidem.

49 Ibidem.

50 Ibidem.

51 Ibidem.

52 ASMi, Fondo Notarile, fz. 20075.

53 Ibidem. I Marchesi Malacrida erano originari di Musso, ebbero da Carlo V i feudi di Poschiavo, Traona e Colico, e la terra di Musso eretta in marchesato dal duca Francesco Sforza, investitura confermata da Carlo V nel 1536.

54 Ibidem.

55 ASMi, Fondo Notarile, fz. 20645.

56 Ibidem. Copia del testamento invece in ADPL, 78/30: si ringrazia la Dottoressa Morgantini dell’Archivio Doria Pamphilj Landi di Roma, per la disponibilità e l’aiuto dati all’Autore.

57 Parrocchia di San Bartolomeo (archivio conservato presso la Chiesa di San Francesco di Paola di Milano), Liber Mortuorum (1597-1611), volume II.

(gennaio 2017)

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