Donato Bramante, un grande architetto
Con le sue opere innovò l’architettura
italiana
«Non si può negare che Bramante fosse valente nell’architettura». Questo scarno giudizio avrebbe costituito per Donato Bramante il maggiore riconoscimento a tutta la sua opera: esso è infatti del sommo Michelangelo, che lo scrisse nel 1555, quando Bramante era morto da oltre quarant’anni.
Sono poche le notizie che riguardano la vita privata di questo grande artista del Quattrocento. Il destino non gli fu avverso, e non gli fece mancare gloria e onori: Ludovico il Moro, che di arte se ne intendeva, lo apprezzò moltissimo e lo volle alla sua Corte, e l’esigentissimo Papa Giulio II lo scelse fra tanti artisti per affidargli la ricostruzione della Basilica di San Pietro, il centro della Cristianità Occidentale. Sappiamo che Bramante era un uomo allegro e generoso, amante della buona tavola e della compagnia: a Roma lo si vedeva spesso a banchetto con brigate di amici, e la sua abitazione era il luogo di ritrovo preferito del Perugino, del Signorelli, del Pinturicchio, di Raffaello e di altri artisti. E poiché aveva anche una buona vena poetica (ci sono giunti 23 suoi sonetti), egli soleva intrattenerli improvvisando poesie burlesche che accompagnava al suono della lira. Alcuni suoi biografi ci informano che Bramante scrisse una grande opera in cinque libri intitolata Dell’architettura: di questa, però, sfortunatamente non ci rimane nulla. Abbiamo però le costruzioni da lui progettate, che dimostrano quanto fosse grande il genio artistico di questo innovatore dell’architettura italiana; suo grandissimo pregio sono la decorazione sobria ed efficace e il senso della spazialità: la ricerca di spazi e di volumi tersi ed esatti. Non pochi furono gli artisti della prima metà del Cinquecento che si ispirarono all’opera architettonica di questo grande creatore.
Scarse e incerte sono le notizie che riguardano la fanciullezza di Bramante: di certo si sa che nacque nel 1444 a Monte Asdrualdo (oggi Fermignano), nel Ducato di Urbino, e che fin da ragazzo mostrò una particolare attitudine alla pittura.
Urbino era a quel tempo uno dei maggiori centri artistici d’Italia: invitati dal Duca Federico da Montefeltro, che voleva creare nella città una Corte sfarzosa, vi lavoravano alcuni tra i migliori artisti dell’epoca. Per il giovane Bramante, giunto lì dal paese natío con la precisa intenzione di intraprendere la carriera artistica, non si poteva pensare ad un ambiente più favorevole; oltretutto, ebbe la fortuna di avere come maestri due artisti di sommo valore, il pittore Piero della Francesca e l’architetto Luciano Laurana. Gli insegnamenti dei due «grandi» furono fondamentali per lui: le sue prime opere pittoriche furono apprezzate dallo stesso Federico da Montefeltro, che gli fece eseguire alcuni dipinti nel Palazzo Ducale. Ma la pittura non fu la sola arte a cui si dedicò il giovane Bramante: l’altra sua grande passione – nella quale maggiormente rifulse – fu l’architettura.
Nel 1476, all’età di trentadue anni, Bramante lasciò Urbino: il suo desiderio era viaggiare per conoscere da vicino le opere dei maggiori innovatori dell’arte italiana. Prima tappa fu Mantova, dove andò a vedere i dipinti del Mantegna; poi si recò a Firenze ad ammirare la cupola di Santa Maria del Fiore (il capolavoro del Brunelleschi) e le opere mirabili di Leon Battista Alberti. Nel 1477 giunse a Bergamo, ottenendo l’incarico di affrescare il Palazzo della Ragione. Ma ormai aveva in mente di dedicarsi soltanto all’architettura.
L’occasione di mostrare le proprie capacità come architetto gli si presentò nel 1481, a Milano: saputo che il Duca Ludovico il Moro aveva intenzione di far ricostruire la chiesa di San Satiro, il Bramante gli presentò un suo progetto, che prevedeva un edificio a pianta latina con tre navate. Il Duca ne rimase entusiasta e gli affidò la ricostruzione della chiesa.
Per il Bramante fu un grande successo. Ad opera compiuta, nel 1486, venne già considerato uno dei migliori architetti dell’epoca.
Eccezionale è la finta fuga prospettica «a cassettoni» che si trova sulla parete fondale della chiesa, in corrispondenza della navata centrale: si entra nella chiesa e si ha l’impressione che, dietro l’altare, ci sia un grande spazio, un’abside regolare con colonne e decorazioni. E invece, si tratta solo di un’illusione ottica: dietro l’altare non si passa, c’è poco meno di un metro di spazio... l’abside che par di vedere nella realtà non esiste. Non potendo fare un’abside di 9 metri e 70 centimetri come aveva previsto nel progetto originale, Bramante riportò in scala le stesse misure che aveva ideato, realizzando un’abside di 97 centimetri. Ma l’inganno è così perfetto, che bisogna arrivare fin quasi all’altare per accorgersene: e, man mano che ci si avvicina, gli occhi sono presi da uno strano dolore perché vedono una cosa ma il cervello, che sa la verità, ne registra un’altra... da un impedimento, Bramante trasse un capolavoro.
Interno della Chiesa del Divo Satyro, Milano (Italia); fotografia di Simone Valtorta, 2015
Interno della Chiesa del Divo Satyro, Milano (Italia); a differenza di quanto appare dal fondo della navata, se ci si avvicina lateralmente si scorgono le reali,
minuscole dimensioni dell'abside; fotografia di Simone Valtorta, 2015
Ludovico il Moro non si lasciò sfuggire un artista di così grande talento: lo ospitò alla sua Corte e gli offrì uno stipendio mensile di cinque ducati, assai superiore a quello degli altri architetti che lavoravano per lui. Al Bramante, che fino allora non si era mai visto passar per le mani troppo denaro, non parve vero di poter disporre di una tale ricchezza. Ma se la meritava: negli anni in cui fu al servizio del Moro, fu impegnato in parecchie opere di architettura; quella che gli diede maggiore fama fu la chiesa di Santa Maria delle Grazie – la maestosa cupola che sovrasta la parte absidale della chiesa venne giudicata una delle più belle costruzioni architettoniche dell’epoca.
Oggi, il destino di Bramante a Milano è bizzarro: ha costruito due capolavori, ma spesso è come se non esistessero. San Satiro è proprio a due passi dal Duomo, seminascosta in Via Torino, con una facciata anonima in pietra grigia (l’originale del Bramante non fu terminata e in seguito venne abbattuta); Santa Maria delle Grazie è per tutti solamente la chiesa del Cenacolo vinciano, e capita spesso che le comitive dei turisti che si recano da Leonardo non diano più che un’occhiata distratta alla bellissima chiesa che è proprio lì di fianco.
Nel 1499, poco prima della caduta di Ludovico il Moro, il Bramante decise di trasferirsi a Roma. Questa scelta non era frutto del caso: vi si recava col preciso proposito di studiare i monumenti antichi, le loro proporzioni e la tecnica con cui erano stati costruiti; era convinto che solo ispirandosi alle opere della classicità greco-romana sarebbe stato possibile rinnovare veramente l’architettura italiana dandole due caratteristiche che ancora le mancavano, cioè la semplicità e l’armonia.
Nella Città Eterna, il Bramante si dedicò ad un imponente complesso di opere. I primi lavori eseguiti furono il chiostro di Santa Maria della Pace, il Palazzo del Cardinale di Corneto (l’odierno Palazzo Torlonia), la facciata e il cortile del Palazzo del Cardinale Riario (l’attuale Cancelleria). Poi, ecco l’opera che fece del Bramante il vero innovatore dell’architettura italiana: il tempietto di San Pietro in Montorio; l’elegante edificio circolare, con le colonne e la cupola di forma classica (lo studio delle opere antiche cominciava a dare i suoi risultati) venne considerato un’opera mirabile per tecnica costruttiva e perfezione di proporzioni, e gli architetti lo studiarono e lo misurarono come se fosse stato un capolavoro d’arte antica recentemente scoperto.
Tempietto di San Pietro in Montorio, 1502, Roma (Italia)
Il pittore Vasari scrisse, nelle sue Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, che «era tanto terribile [intendi formidabile] l’ingegno di questo meraviglioso artefice [il Bramante] che sentendo di avere il Papa [Giulio II] la volontà di buttare in terra la chiesa di San Pietro per rifarla di nuovo, gli fece infiniti disegni, fra i quali uno molto mirabile». Il «mirabile» disegno fu accettato dal Papa e nel 1505 Bramante venne nominato «direttore della fabbrica di San Pietro». I lavori furono iniziati nell’anno successivo e fu tale «la voglia di vedere questa fabbrica andare innanzi» (scrive sempre il Vasari) «che rovinò in San Pietro [nella vecchia Basilica] molte cose belle»: Bramante fece cioè ridurre in frantumi senza alcun riguardo le belle colonne e i capitelli che si sarebbero potuti togliere intatti. Per questa «furia distruttiva» i Romani diedero al Bramante il poco simpatico appellativo di «Maestro ruinante»; a parte questo, però, bisogna ammettere che il suo progetto per la nuova Basilica era veramente grandioso: l’edificio, a pianta greca, doveva essere sormontato da un’immensa cupola e fiancheggiato da quattro torri. L’orefice milanese Caradosso incise una medaglia che raffigurava la Basilica secondo la concezione bramantesca.
I lavori furono però interrotti nel 1513 per la morte di Giulio II; l’anno successivo, anche il Bramante cessava di vivere. La direzione della «fabbrica» fu affidata successivamente ad altri artisti (Raffaello, Giuliano e Antonio da Sangallo, Michelangelo e infine Carlo Maderno), i quali però più o meno mutarono il progetto del Bramante. Vi si avvicinò – in parte – Michelangelo, affermando che «chi si allontana da Bramante si allontana dalla verità».
Il Vasari ci riferisce che Bramante fu un uomo di un’attività e di una capacità organizzativa veramente prodigiose. Questo gli consentiva di dedicarsi contemporaneamente a più opere: negli anni in cui fu impegnato nella fabbrica di San Pietro, riuscì a dirigere la costruzione di altre opere grandiose come ad esempio il Palazzo dei Tribunali, i cortili del Belvedere in Vaticano (con il caratteristico «nicchione»), la casa che sarà poi di Raffaello e, fuori Roma, la rocca del porto di Civitavecchia (che prese il nome di Michelangelo, anche se quest’ultimo si limitò a realizzare la parte superiore del maschio esagonale) e lo scalone nel Palazzo d’Accursio in Bologna. Tutto immerso nel suo lavoro, si curava poco del denaro, e Giulio II doveva ordinargli di accettare cariche con i cui introiti potesse mantenersi. Bramante diede anche ottime prove come ingegnere idraulico, sistemando il Tevere entro le mura di Roma, e nell’urbanistica: tracciò infatti la Via Giulia, che divenne la strada più importante della Roma cinquecentesca.
Bramante ebbe un nipote, Raffaello Sanzio, anch’egli architetto, ma universalmente noto soprattutto come pittore – uno dei più celebri pittori della Storia!