Cesare Borgia, precursore dell’Unità
Il Duca Valentino nel quinto centenario del Principe

Il sogno petrarchesco dell’Italia unita, che avrebbe dovuto e potuto realizzarsi grazie al successo della «virtù» contro il «furore» in una lotta dura ma dall’esito scontato, perché «l’antiquo valore negli italici cor non è ancor morto»1[1] parve trovare un’imprevista, sebbene tardiva opportunità, all’inizio del XVI secolo, grazie alla rapida ascesa di Cesare Borgia, il figlio del Papa Alessandro VI che era diventato «Duca Valentino» per ragione del matrimonio con Carlotta d’Albret in terra di Francia.

Nel disegno di Niccolò Machiavelli (la cui massima opera politica sta celebrando nel 2013 il suo cinquecentesimo anniversario – e non a caso, senza adeguate attenzioni), Cesare assunse il ruolo del Principe coraggioso e consapevole di una nuova filosofia finalizzata a conseguire la «salvezza» dello Stato come priorità assoluta, fino al punto da ravvisare nel suo avvento il vessillifero di un’ardua ma suggestiva unità nazionale (seppure limitata ad alcune regioni centrali e perseguita da un casato straniero), presente da secoli nella cultura italiana ma del tutto latitante a livello istituzionale, in una stagione decisamente individualista come quella del Rinascimento.

Cesare fu una meteora destinata a tramontare non appena priva della protezione papale che venne meno con l’improvvisa scomparsa del Pontefice, ma seppe coniugare al meglio l’idea machiavelliana della «fortuna» che regola metà delle cose umane e che bisogna «cogliere» senza indugio non appena compare (in quanto labile e transeunte), con quella della «virtù» intesa non più in chiave meramente tradizionalista, ma in senso rinascimentale e per taluni aspetti moderno, come capacità di governare lo Stato organizzandone la struttura, ottimizzandone la difesa e programmandone lo sviluppo.

Nel caso del Valentino, erano state «fortuna» l’appartenenza al casato dei Borgia e la discussa nonché opinabile ascesa di Alessandro al massimo soglio della Cristianità, ma furono «virtù» le sue doti politiche, non disgiunte dalla prontezza nell’azione, dalla duttilità operativa e dall’autonomia ideologica (aveva rinunciato presto al cappello cardinalizio con una scelta che oggi si potrebbe definire laica ma che in un personaggio senza soverchi scrupoli come il Valentino avrebbe potuto costituire un qualche ostacolo al perseguimento di obiettivi a tutto campo).

Sarebbe opera certamente vana cercare in Cesare Borgia il retaggio sia pure strumentale dei principi teocratici che avevano fatto grande la Chiesa del Medio Evo e quello di un’etica di sapore medievale a cui la politica potesse essere in qualche misura subordinata: in questo senso, egli fu in tutto e per tutto uomo del Rinascimento, con la sua grandezza, ma nello stesso tempo con le sue ombre. Il crudo realismo «seguito dal Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il Signor Pagolo e il Duca di Gravina Orsini» che venne descritto in pagine memorabili dallo stesso Segretario fiorentino, gli avrebbe garantito una rapida ascesa, ma nello stesso tempo avrebbe posto in evidenza i rischi che più tardi, al tramonto della «fortuna», aggravato dalla malattia del Valentino, ne avrebbero accelerato la caduta.

Al pari della sorella Lucrezia, cui fu legato da vincoli di intenso affetto, quasi a sottolineare la permanenza di sentimenti «gentili» anche in cuori resi duri dalle circostanze, Cesare ebbe vita breve ed un destino tragico che si sarebbe perpetuato anche dopo la morte, quando gli venne negato il sepolcro in terra consacrata: un destino che avrebbe trovato la sua catarsi soltanto nel 2007, quando il Vescovo di Pamplona, ricorrendo cinquecento anni dalla scomparsa del Duca Valentino, diede l’autorizzazione affinché i suoi resti mortali trovassero definitivo riposo a Viana, nella chiesa di Santa Maria.

La critica storica non è stata aliena dal manifestare qualche attestato di comprensione talvolta non effimera, se non anche di parziale giustificazione, nei confronti del Borgia. Ad esempio, Leopold Von Ranke, pur avendolo definito un «virtuoso del delitto»[2], vide nella sua azione politica l’impatto di un leader energico e determinato che usava contro i piccoli despoti della sua trista epoca le medesime armi di forte violenza, ma infrangendo senza remore e senza titubanze «le regole del vecchio gioco».

Non a caso, Corrado Vivanti ha ravvisato nell’esperienza politica di Cesare Borgia, «nonostante le nefandezze notorie ed i crimini atroci», una specificità decisionale ed una concretezza operativa tali da impedire «ancor oggi di provare troppa avversione» per un personaggio che «rivolse contro i signorotti e i tirannelli trovatisi ad ingombrargli il cammino» le loro stesse strategie, ma «con ben altra coerenza spregiudicata»[3], finalizzata a conseguire un obiettivo di ampiezza politica ed istituzionale incomparabilmente maggiore, e «superbamente espresso nel motto» che il Duca Valentino aveva scelto di attribuirsi al momento della sua massima fortuna: «Aut Caesar aut nihil». Quattro sole parole, a testimonianza di una vocazione da protagonista e nello stesso tempo della capacità non comune, anche in tempi tanto ardui, di rischiare il tutto per tutto, anticipando di secoli, almeno sul piano psicologico, qualche tratto del futurismo e del superomismo.

C’è di più. Senza l’apporto del Valentino, la concezione rivoluzionaria di Machiavelli, basata sullo svincolo della politica dalla morale tradizionalista e sull’avvento di una nuova idea dello Stato come soggetto titolare di un’autonoma etica «universale», non avrebbe trovato riferimenti concreti nella prassi, incontrando difficoltà certamente maggiori nei successivi affinamenti, ed in primo luogo nell’elaborazione di una teoria della «ragione di Stato» come quella di Giovanni Botero, dove un misurato «eccesso dal giure comune» deve essere consentito in funzione della «pubblica utilità».

Oggi, dopo l’esperienza degli Stati nazionali e la maturazione di una nuova sensibilità comunitaria, la parabola di Cesare Borgia e la sua stessa vita così ricca d’avventura, come avrebbe potuto dire il poeta iberico, possono sembrare oscurate ed obsolete, in quanto appartenenti ad un’epoca in cui il valore della vita era relativo, se non altro perché paradossalmente subordinato alle esasperazioni degli individualismi; e la Rai-Tv ci ha messo del proprio, con l’ennesima recente rievocazione nazional-popolare, inidonea a comprendere davvero, pur nelle ricorrenti scelleratezze, il sogno del Duca Valentino.

In effetti, quella del Borgia rimane figura di effettiva attualità per avere incarnato l’ideale, non già banalmente «machiavellico» ma più specificamente machiavelliano, di una rivoluzione politica fondata sul ruolo dello Stato, a prescindere dalla sua struttura istituzionale, come centro di aggregazione della coscienza collettiva e di una possibile unità italiana che la storia avrebbe dimostrato appartenere, non già alla sfera dell’utopia, ma a quella di una grande Idea, ad un tempo etica e politica.


Note

1 Francesco Petrarca, «Italia mia», Canzoniere, CXXVIII.

2 Leopold Von Ranke, Storia dei Papi, Sansoni Editore, Firenze 1959, pagina 45.

3 Corrado Vivanti, Dall’avvento delle Signorie all’Italia spagnola, in «Storia d’Italia», Edizioni Einaudi-Il Sole 24 Ore, Milano 2005, volume primo, pagina 360.

(ottobre 2013)

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