Beatrice Cenci
Quando l’esasperazione trionfa

Una triste storia è stata vissuta da una ragazza, giovane nobildonna di una delle più antiche, ricche e potenti famiglie di Roma, che viveva nelle vicinanze del quartiere ebraico del Ghetto. Era nata il 6 febbraio 1567, figlia del conte Francesco Cenci e di Ersilia Santacroce, facendo parte di una nidiata di figli costituita da dodici unità. Il padre era ben addentro alla Chiesa di Roma nella sua qualità di erede di Monsignor Cristoforo Cenci, tesoriere della Camera Apostolica. Quando, all’età di sette anni, rimase senza la madre, il 15 giugno 1574, insieme con la sorella maggiore Antonina fu data in affidamento alle monache francescane del monastero di Santa croce a Montecitorio. Quel luogo, che era destinato a giovani popolane, era inadatto per ragazze nobili, ma fu scelto dal padre per risparmiare sulla retta.

Giunta all’età di quindici anni, ritornò in famiglia, dove trovò un ambiente per nulla accogliente, nel quale subì parecchi maltrattamenti e, ciò che maggiormente indigna, le attenzioni poco pulite del padre (se si può continuare a chiamare padre un individuo con tali perversioni sessuali).

Più tardi, nel 1593, Francesco sposò l’avvenente vedova Lucrezia Petroni, madre di un ragazzo, dalla quale non ebbe figli.

Il padre godeva di una brutta nomea a Roma per la sua avarizia e per il suo carattere violento che scaricava su tutti, familiari compresi, le sue ire più o meno giustificate. Dei figli, da dodici che erano, solamente sette giunsero alla maturità. Di questi, il maggiore, stanco in tutti i sensi del padre, riuscì a scappare per vivere per conto suo, mentre altri due, Cristoforo e Rocco, forse attaccabrighe come il genitore, lasciarono la pelle in brutte e sanguinose risse.

Antonina, che non riusciva più a sopportare le angherie e tutto quanto di assolutamente negativo le proveniva dal padre, si rivolse al Papa Clemente VIII, facendogli presente in uno scritto tutto quanto di odioso avveniva nella sua famiglia e chiedendogli il suo aiuto per individuare un giovane al quale unirsi in matrimonio oppure, in alternativa, di aprirle la porta di un convento in cui diventare suora: tutto questo per potersi allontanare dal padre.

Per il Papa il racconto di Antonina non fu una novità, perché il conte era famoso a Roma per i processi in cui era incappato e, per di più, perché era risaputo che si era dato al vizio della sodomia, che allora era punita con la pena di morte. Il fatto che lui fosse un nobile, legato alla Chiesa, gli consentì di cavarsela egregiamente con il pagamento di multe molto elevate, dilapidando lentamente ma costantemente il suo patrimonio.

Il Papa accettò la prima soluzione e perciò la fece sposare con un nobile dell’umbra Gubbio, Carlo Gabrielli; in tal modo essa si allontanò da quella casa degli orrori.

Beatrice, visto il risultato favorevole della sorella, fece altrettanto. Papa Clemente VIII, capito il ripetersi della situazione, comprese che per togliere la figlia dalle voglie di quell’energumeno era opportuno combinare il matrimonio della ragazza. Così, le trovò un giovane nobile, bello e prestante, e intimò a Francesco di provvedere a darle una cospicua dote, anche se ci si potrebbe chiedere da quale cilindro avrebbe potuto estrarre il denaro occorrente, dibattendosi lui in una situazione fallimentare o giù di lì. Pertanto, non deve meravigliare se il matrimonio andò a monte ancora prima di essere stato celebrato.

Nel frattempo, Francesco si era risposato con la vedova Lucrezia Petroni, che aveva un figlio.

Altra persona, purtroppo per lei, sulla quale scaricare tutta la sua violenza e la sua cattiveria.

Nel 1595, infatti, Beatrice e la matrigna erano state relegate a Petrella Salto nel castello La Rocca nel Cicolano nel territorio del Regno di Napoli; erano praticamente segregate nel piano nobile del castello, nelle condizioni di vere e proprie carcerate. In quel maniero, esse avevano contatto solamente con il castellano, l’amministratore Olimpio Calvetti, dipendente dei Colonna, e con due servitori. Naturalmente, se Beatrice prima odiava il padre, ora lo aborriva addirittura, tanto che il suo stato di esasperazione giunse al punto di essere insopportabile. Intanto, Francesco divideva la sua vita fra Roma e il castello, dove di quando in quando si presentava all’improvviso. Nei dintorni, andava spesso a caccia e, in una di quelle volte, tentò di abusare del figliastro. Avutane notizia, Lucrezia andò su tutte le furie e apostrofò furiosamente il marito, con il risultato di essere violentemente pestata e di ritrovarsi con uno sfregio sul volto.

Beatrice, non rassegnata a quelle condizioni di carcerata, ritenne che l’unico modo per togliersi dal padre fosse quello di scappare e, magari, di chiedere ancora una volta un aiuto in Vaticano.

Perciò, chiese aiuto a uno dei due servitori, che di nome era Marzio da Florian detto Il Catalano, affinché l’aiutasse a fuggire. Ma il ragazzo, temendo le ire da parte del conte qualora fosse venuto a sapere che lui ne aveva favorito la fuga, non volle correre rischi; tuttavia, impietosito dalla disperazione della ragazza, si mise a sua disposizione per portare fuori dal castello le lettere che lei aveva scritto, indirizzandole ai fratelli e a uno zio materno, nelle quali era raccontato per filo e per segno quanto succedeva laggiù e pregandoli di toglierla da quella terribile situazione, ripetendo quanto aveva chiesto in precedenza al Papa Clemente VIII, cioè o di procurarle un marito oppure di aprirle la strada per entrare in un convento.

Ma purtroppo, il diavolo – come si dice – ci mise la coda: Francesco, non si sa come, intercettò uno dei messaggi di Beatrice e, pur essendo inverno, non ebbe alcun ripensamento e affrontò una bufera di neve, pur di essere al castello nel più breve tempo possibile, per punire chi non voleva stare alle sue decisioni. Laggiù giunto, per prima cosa malmenò violentemente la figlia e quindi segregò le due donne nel piano alto del castello, chiudendo il piano nobile.

Era una situazione che non poteva continuare e, pertanto, Beatrice si rivolse a Olimpio Calvetti, con il quale pare avesse dato avvio a un rapporto intimo, perché non era più in grado di sopportare il padre; questi si dimostrò comprensivo nei confronti delle lamentele della ragazza, tanto da giungere al punto di confessarle che, secondo lui, l’unica soluzione per risolvere l’intricata faccenda, senza tanti giri di parole, era quella di fare fisicamente fuori il genitore.

Giunti al 1597, il conte aveva 48 anni, non un’età eccessiva per quei tempi, però era affetto dalla gotta e dalla rogna, malattia quest’ultima della pelle, causata dalla proliferazione di acari sia sopra sia sotto la cute, dove scavano gallerie. Egli, da Roma si trasferì a Petrella, anche e soprattutto per evitare di uscire di casa per non incontrare i suoi pressanti creditori che chiedevano la restituzione di soldi prestati o il pagamento di servizi resi; per cui, se la situazione per le due donne era grave, con la sua presenza al castello divenne insostenibile. E – come si dice – il dado fu tratto: Beatrice decise che era ora di farla definitivamente finita, sbarazzandosi del litigioso, violento, licenzioso padre. Ed erano talmente stanchi di Francesco che contribuirono alla sua eliminazione fisica la moglie Lucrezia, i fratelli Giacomo e Bernardo, il castellano amministratore Calvetti e uno dei servitori, il già citato Catalano.

Come siano andate le cose non è dato saperlo con sicurezza, ma quel po’ che è giunto fino a noi dimostra quanto fossero tutti inesperti di operazioni del genere e digiuni della malizia necessaria, comunque spesso insufficiente, per prendere per il naso la giustizia.

Il primo tentativo fu quello di avvelenarlo, ma andò a monte perché egli non mangiò né bevve ciò che gli era stato ammannito, forse suggeritogli dal buon senso. Allora, si rivolsero a una banda di fuorilegge, cui promisero una lauta ricompensa se l’eliminazione del conte fosse andata a buon fine; ma essi, temendo le ire del conte qualora non fossero riusciti nel compito loro affidato, preferirono disinteressarsene. Allora fu decisa la forza bruta. Giacomo preparò una bevanda in cui l’oppio abbondava e riuscì a farla bere al padre che cadde profondamente addormentato. E qui i futuri assassini, digiuni dei metodi e della perspicacia degli investigatori, approfittando del suo stato di incoscienza, lo uccisero, prima impedendogli di reagire con Marzio che usò un mattarello per rompergli le gambe e poi con Olimpio che infierì sulla sua testa con un martello e un chiodo, facendone scempio.

Chiaramente, se volevano sfuggire ai rigori della legge, dovevano allestire una ricostruzione plausibile. Così, dopo un paio di tentativi che fanno a pugni con le più normali operazioni tecniche, di cui non vale la pena parlare, insieme gli assassini decisero che la cosa più plausibile da fare era quella di buttare il cadavere dalla balaustra del castello, tentando di far credere che fosse caduto a causa di un cedimento strutturale.

Il 9 settembre 1598, fu rinvenuto il corpo in un orto sottostante. Celebrato il funerale, il conte fu inumato nella chiesa di Santa Maria del luogo e tutti i congiunti, felici di essersi finalmente liberati da quell’essere cattivo, abietto e volgare, si trasferirono a Roma nel palazzo Cenci, non molto lontano dal Ghetto. Inizialmente, non furono avviate indagini, ma voci maligne, anche se veritiere, fomentate dalla triste nomea di cui si era circondato il conte nella sua vita e dall’odio che aveva suscitato nei suoi familiari, furono sufficienti a indurre le autorità ad aprire un’inchiesta per cercare di capire se la verità fosse quella raccontata dai parenti o se ci fosse qualche altro fatto rimasto nascosto.

Per primo si mosse il feudatario del castellano Petrella, il duca Marzio Colonna, poi fu la volta del conte di Olivres, don Enrico di Gusman, Viceré del Regno di Napoli, al quale si associò il Papa Clemente VIII che desiderava che la vicenda fosse del tutto chiarita. Così, per fare le cose a modo, fu riesumata la salma per poter esaminare con attenzione le ferite, al fine di stabilire se fossero compatibili con l’impatto del corpo sul suolo a conclusione del volo; il medico e i due chirurghi incaricati di stabilire la veridicità di quella circostanza furono d’accordo: no, le ferite non potevano essere dovute all’impatto sul terreno. Fu ascoltata pure la lavandaia, alla quale Beatrice aveva affidato il compito di lavare le lenzuola macchiate di sangue dovuto – secondo la sua versione – alle sue mestruazioni; ma la lavandaia ammise che quella giustificazione non l’aveva convinta. Oltretutto, ad accrescere ulteriormente i dubbi contribuì la constatazione che non c’erano tracce di sangue dove il corpo esanime fu rinvenuto.

Insomma, l’inghippo venne scoperto e per il gruppo di assassini non ci fu scampo.

Calvetti fu eliminato da un conoscente della famiglia Cenci, affinché non gli sfuggisse detto quanto era veramente accaduto. Marzio da Florian, torturato a morte, non confessò nulla. Beatrice inizialmente negò disperatamente di aver partecipato al complotto che aveva portato Francesco alla morte, accusando come unico colpevole Olimpio; ma la tortura della corda cui fu sottoposta le strappò la verità.

Nel caso in esame, sembra assodato che gli accusati fossero veramente colpevoli, però il voler estorcere la verità, qualora veramente ci sia, o farla inventare, qualora non ci sia, per far cessare gli spasmi della tortura, non gioca certo a favore della veridicità delle confessioni; d’altra parte è noto che la storia è colma di casi che, risolti con l’uso della tortura, hanno portato a risultati che la stessa, successivamente, ha dimostrato essere stati dei veri e propri buchi nell’acqua: pertanto, metodo poco probante nella ricerca della verità.

Però nel caso in esame, erano stati acquisiti tutti gli elementi necessari per aprire un processo, in attesa del quale, mentre Beatrice era rinchiusa nel carcere di Corte Savella, i suoi due fratelli Giacomo e Bernardo lo furono in quello di Tordinona.

Nel processo condotto dal giudice Ulisse Moscato, si trovarono di fronte due dei migliori avvocati dell’epoca: per l’accusa Pompeo Molella di Alatri e per la difesa Prospero Farinacci. Quest’ultimo, per aiutare Beatrice, puntò il dito sul conte ammazzato, accusandolo di stupro nei confronti della figlia, ma essa non volle mai confermare tale asserzione. Le prove a disposizione contro gli assassini erano talmente evidenti e incontrovertibili che tutti gli imputati furono condannati a morte.

Molti personaggi vicini al Papa (Cardinali e autorità pontificie) avanzarono richieste di clemenza, ma Clemente VIII, preoccupato per quanto di violento e di incontrollato si stava verificando nello Stato della Chiesa, si girò dall’altra parte. Beatrice e la matrigna furono condannate alla decapitazione e Giacomo allo squartamento. Per il giovane Bernardo, con la certezza che non aveva partecipato direttamente all’assassinio del padre, ma con la colpa di aver taciuto sul complotto che era stato deciso, si decise di commutare la pena in quella di condanna al ruolo di vogatore in una galera pontificia per tutta la vita; tutto sommato, forse sarebbe stata preferibile la morte; questa variante gli fu comunicata solamente a poche ore dalla sua esecuzione. Inoltre, quale pena aggiuntiva, fu costretto ad assistere all’esecuzione dei suoi familiari legato a una sedia. Solamente qualche anno dopo raggiunse la libertà a seguito del pagamento di un vistoso riscatto in denaro.

Il giorno 11 settembre 1799, in Piazza Sant’Angelo, furono eseguite le condanne comminate a Beatrice e Lucrezia, decapitazione con la spada, e a Giacomo, torturato con tenaglie infuocate durante il tragitto, mazzolato, cioè colpito alla testa con un maglio, e alla fine squartato.

L’esecuzione delle condanne fu seguita nell’assoluto silenzio da parte delle numerosissime persone intervenute, commosse, per assistervi. Tutto questo dopo che ci furono diversi tentativi, accompagnati da discussioni e scontri fra i popolani nell’intento di cambiare quanto era stato predisposto: questo fu una evidente dimostrazione della disapprovazione e del malcontento suscitati nel popolo dalla decisione del Papa. Ma con questa vicenda, che scosse molto la gente, il Papa Clemente VIII volle dimostrare che il suo Stato c’era ed era potente e autoritario, dando un pesante segnale in vista del giubileo in programma per l’anno successivo, il 1600.

In mezzo alla folla erano tanti artisti, fra i quali il Caravaggio, che pare abbia preso appunti per un suo quadro, Guido Reni e Orazio Gentileschi con la figlia Artemisia, che divenne una pittrice di fama internazionale.

Nella giornata di fine estate, ancora molto calda e afosa, furono diverse le persone colpite da un’insolazione che ne causò la morte, mentre altre furono ferite o uccise nella calca; qualcuno, scivolando nel Tevere, finì annegato.

Il corpo di Beatrice fu sepolto in un loculo dell’altare maggiore della chiesa di San Pietro in Montorio, come da lei desiderato, nascosto sotto una lastra senza nome, come era prescritto dalla legge per coloro che erano giustiziati.

Tutti i beni della famiglia Cenci furono confiscati dalla Camera Apostolica e venduti all’asta; una cospicua parte divenne proprietà del nipote del Papa, Gian Francesco Aldobrandini. Le cause legali promosse dai parenti ebbero come risultato la restituzione parziale dei beni della famiglia Cenci.

Un fatto riprovevole accadde quando i Francesi, al comando del Generale Berthier, occuparono l’Urbe durante la Prima Repubblica Romana: i soldati si diedero a effettuare nefandezze, con razzie, distruzioni, appropriazioni indebite di beni altrui, e fra l’altro ci fu la profanazione di tombe per appropriarsi del prezioso piombo delle casse. Il pittore Vincenzo Camuccini, che stava lavorando al restauro del quadro La Trasfigurazione di Raffaello nella chiesa di San Pietro in Montorio, vide entrare un gruppetto di soldati che, insieme con un loro connazionale pittore, si diedero a rompere le lapidi delle tombe, poste a pavimento. Una di queste conteneva i resti di Beatrice e un soldato si appropriò del vassoio d’argento che custodiva la testa della defunta; quello, senza tanti complimenti, malgrado le proteste del Camuccini, la gettò in aria come se fosse una palla. Che lampante esempio di carità umana! Era l’anno 1799.

Con il trascorrere dei secoli, la figura di Beatrice ha acquisito l’alone dell’eroina che, per liberarsi dalla violenza in tutti i sensi cui era soggetta da parte di chi solamente per natura ne era il padre, uccise il genitore, tanto da attirare l’interesse di molti scrittori e artisti che la immortalarono nelle loro opere con le quali fu resa famosa in tutto il mondo.

(novembre 2023)

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