Voto alle donne
Fine di un diritto negato

Da quando il mondo è mondo, quasi tutte le donne hanno accettato (talora solo per il quieto vivere) la priorità del maschio per quel che riguarda la vita pubblica, limitandosi a comandare in casa, a meno che non incontrassero un uomo violento al punto da farle diventare delle vere e proprie schiave, nate solamente con il compito di procreare maschi, che danno prestigio, e accettando spesso malvolentieri, come si dice «obtorto collo», le femmine.

Di quando in quando, però, nella storia compaiono figure femminili che dimostrarono tutto il loro disappunto per tale situazione, per cui la tendenza alla parità di doveri e di diritti divenne una bandiera.

In Francia, fin dal XIV secolo, esistevano i cosiddetti Quaderni delle lamentele (Cahier de Doléances), cioè registri nei quali venivano annotate le richieste e le critiche della popolazione, che solitamente riguardavano il pagamento delle tasse, il malcontento per la differenza di trattamento esistente fra popolo e ricchi e nobili e altro ancora. Ebbene, durante la Rivoluzione Francese, Madame de Keralis presentò il Cahier de Doléances des femmes (Quaderno delle lamentele delle donne), in cui chiedeva che fossero riconosciuti i loro diritti. È probabile che questa richiesta sia stata la prima nella storia.

Nel 1793, quando Robespierre faceva il bello e il cattivo tempo controllando con il Terrore la Francia in notevoli difficoltà per la guerra e per la ribellione scoppiata in Vandea, ci fu chi, coraggiosamente e senza paura, scrisse un’opera il cui titolo era tutto un programma: Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina; questa persona era la scrittrice Olympe de Gouges, paladina in difesa degli ideali repubblicani.

A cavallo fra il XVIII e il XIX secolo, fu coniata la parola «suffragette» che era l’appellativo con il quale erano indicate le donne che facevano parte del movimento che puntava alla loro emancipazione attraverso la concessione di diritti importanti, fra cui quella relativa all’ottenimento del diritto di voto, «in primis»; in definitiva, parità di doveri e soprattutto di diritti con i signori maschi.

Comunque, solamente più tardi, nei secoli XIX e XX, ci fu chi decise di fare sul serio: furono le donne inglesi, che iniziarono ad alzare la voce a proposito dei propri diritti e lottarono strenuamente per averli. Certo, la faccenda non piacque a tutti, tanto che scoppiarono scioperi della fame, azioni ostruzionistiche e altro ancora, e perfino si giunse a mettere donne in carcere.

D’altra parte, se una persona riesce a ottenere con estrema difficoltà un dito, è umano che poi punti direttamente a tutta la mano. Purtroppo la storia insegna che non si possono fare passaggi da certe situazioni ad altre del tutto contrarie di colpo, d’«emblée»: si devono affrontare gradualmente, dando il tempo ai cambiamenti di essere digeriti prima di avviarne altri.

Fu questo il caso di una certa Mary Smith di Stanmore, che voleva che le fosse concesso di prendere parte alle elezioni dei rappresentanti del Governo e di partecipare attivamente alla promulgazione delle leggi, giustificando che essa era soggetta alle stesse leggi degli uomini, come loro pagava le tasse e, perciò, parità di doveri e parità di diritti. Questa sua richiesta fu trattata dal Parlamento Inglese il 3 agosto 1832. Il deputato rimase sorpreso per tale richiesta che avrebbe dato luogo a situazioni ambigue, come quelle di vedere di notte e insieme, nello stesso ambiente, uomini e donne riuniti per deliberare.

Il «modus vivendi», che prevedeva il dominio dell’uomo sulla donna, perché più prestante e intellettualmente superiore (sic), era un fatto consolidato e indiscutibile. Ma le donne ritenevano giusto opporsi a un tale stato di cose e non mancavano coloro che le spingevano a reagire: si possono ricordare William Thompson e Anna Wheeler, che nel 1825 scrivevano alle donne stimolandole alla reazione, di smetterla di starsene buone buone, oppresse e soprattutto umiliate, di alzare la voce e di chiedere ciò che era un sacrosanto diritto.

Ma il tutto passava sotto un rumoroso silenzio, anche perché, è opportuno ricordarlo, nei regimi parlamentari il voto per l’elezione dei governanti non era per tutti gli uomini, bensì solamente per un 20% circa, cioè per quello costituito da intellettuali colti; solo loro erano ritenuti in grado di decidere per il meglio a favore degli altri uomini e delle donne, considerate eterne immature.

I movimenti femminili, in ogni modo, non mollarono e continuarono a lottare per l’eguaglianza dei diritti. Se nel 1830 erano pochi e sparuti, sei lustri più tardi divennero più numerosi e più forti, con le loro richieste fra cui sempre primeggiava il diritto al voto. Un commento molto interessante e rilevante venne dal filosofo inglese John Stuart Mill, che si chiese per quale ragione non si dovevano concedere alle donne gli stessi diritti degli uomini, quando la loro Regina Vittoria aveva dimostrato le sue doti eccezionali quale governante.

Nel 1867, ci fu un salto di qualità quando la percentuale degli aventi diritto al voto passò dal 20 al 30%, però una leggerezza nella formulazione della legge relativa mise in difficoltà il legislatore, perché ci fu chi ne approfittò. Era successo che era stato scritto che chi poteva votare apparteneva alla categoria «men» («uomo»), senza tener conto che il termine poteva fare riferimento all’uomo come specie, cioè uomo e donna; infatti, per maggiore chiarezza avrebbe dovuto scrivere «males» («maschi»). Ciò diede libero adito alla «comoda» interpretazione da parte delle suffragiste che al voto potevano partecipare tutti, maschi e femmine. Comunque, si andò avanti fra malintesi e mugugni, finché successe un altro fatto significativo. Per un errore nell’elenco dei nominativi del collegio elettorale entrò il nome di una certa Lily Maxwell, che votò a favore di un candidato favorevole all’emancipazione femminile; il legislatore fu costretto a mettere mano alla legge, chiarendo che non si riferiva assolutamente alle donne.

Per le suffragette fu una sconfitta, però tutto questo «tira e molla» mise ulteriormente in vista la loro attività, anche se i «bastian contrario» furono sempre convinti che la concessione del voto alle donne avrebbe creato differenze fra celibi e sposati, perché ciò avrebbe indotto una sperequazione; questo nel senso che gli sposati avrebbero partecipato alle votazioni con due voti, il proprio e quello della moglie, che sicuramente avrebbe votato secondo i «desiderata» del marito; oppure, qualora i due coniugi fossero su sponde opposte, sarebbero sorti antipatici malumori in famiglia. E un’altra ipotesi che dava parecchio fastidio riguardava ciò che avrebbe seguito la libertà di voto, perché dopo sicuramente le donne avrebbero preteso di entrare nel Parlamento e di partecipare alle attività del Governo; e altrettanto sicuramente non sarebbero state fisicamente in grado di sostenerne il ritmo e le fatiche: parere più che sufficiente per tirarsi addosso le critiche e gli anatemi delle interessate.

E intanto il tempo passava e si tirava avanti fra i pareri favorevoli al voto e a quelli contrari degli uomini.

E le suffragette, imperterrite, continuavano le loro riunioni e organizzavano manifestazioni pubbliche, fra il favore e il dissenso degli uomini. Le donne salivano sul palco per esprimere il loro parere e per divulgare le loro idee. Ma bisogna ricordare che molte dissentivano dal mettersi in mostra: per esempio, una certa Margaret Nevinson riteneva che il parlare di una donna in pubblico dimostrasse una volgarità e una violenza non certo confacente con l’essere donna. Tuttavia le oratrici non mollavano, anche se spesso erano oggetto di insulti, di lancio di oggetti vari, di maltrattamenti e percosse: si ricorda il caso di Charlotte Despard che, malgrado fosse colpita in volto dal lancio di un uovo, continuò il suo comizio come se nulla fosse successo. E pure le spettatrici non erano esenti da parolacce e quant’altro come se si fosse trattato di prostitute, spesso costringendo le guardie a intervenire per proteggerle.

Molti episodi sono testimoni delle difficoltà del momento. Per esempio, si può ricordare quel certo Knowles che, venuto a sapere che la figlia Esther stava partecipando a una manifestazione di suffragiste, pestò violentemente la moglie perché le aveva consentito di andare.

Erano tanti gli anti suffragisti, ma le donne non mollarono. E il primo scricchiolio fra di loro si sentì quando nel 1869 nello Wyoming negli USA fu concesso il voto alle donne, seguito alla concessione inglese alle donne di votare nelle elezioni per l’istruzione; poi, nel 1894, tale concessione si estese alle giunte distrettuali, mentre nell’isola di Man il voto fu concesso a nubili e vedove.

Erano sempre in un numero maggiore coloro che parteggiavano per le suffragiste, che aumentarono la loro attività e le varie organizzazioni nate nel 1860; infatti, si unirono a formare, nel 1897, l’«Unione nazionale delle società per il suffragio femminile» («National Union for Women’s Suffrage Societies» – NUWSS), a seguito dell’appassionato e stimolante interessamento della scrittrice Millicent Garrett Fawcett, avente lo scopo di giungere finalmente al suffragio femminile attraverso incontri e marce pacifiche.

Però, all’interno dell’organizzazione non tutti erano d’accordo con le decisioni della Fawcett, che riteneva che questa dovesse essere apolitica: per esempio, Emmeline Pankhurst riteneva che questa dovesse essere di tipo militare, e inoltre che il movimento fosse d’azione, dimostrandolo con manifestazioni, interruzioni di riunioni di partiti, cercando di entrare in Parlamento, disturbando membri del Governo, incatenandosi davanti alle case dei Parlamentari, eccetera. E, quando erano multate per questi atti, pagavano con l’arresto, guadagnandosi gli applausi della popolazione quando uscivano di prigione. La Fawcett era per una politica più tranquilla, convinta che si sarebbe ottenuto di più cercando di fare comprendere le proprie ragioni. Così, l’incrinatura divenne insanabile, tanto che la Pankhurst nel 1903 fondò il movimento «Unione sociale e politica delle donne» («Women’s Social and Political Union» – WSPU), che visse fino solo al 1917, giacché la sua politica non era apprezzata da tutti.

Comunque, fino al 1918 ci fu un tiramolla senza vinti né vincitori, fino a quando, in febbraio, fu approvata la legge che dava il diritto di voto alle donne almeno trentenni, estendendola anche agli uomini con età superiore ai 21 anni. Insomma, non era una luce solare, ma qualcosa era sorto all’orizzonte femminile. Finché, nel luglio 1928 anche le donne ebbero il diritto di voto dall’età di 21 anni.

Da questo esempio è possibile comprendere come i cambiamenti non possano essere approvati dall’oggi al domani, perché devono essere ragionati, valutati e, infine, accettati, con la convinzione generale che si sia operato per ottenere il meglio.

(gennaio 2024)

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