Che cos’era la «pastorale della paura»?
Uno studio del compianto storico francese (morto di recente) Jean Delumeau sulla «pastorale della paura»

Forse alcuni dei lettori ricorderanno di avere sentito parlare, magari dai genitori o dai nonni, di episodi in cui la religiosità veniva declinata in modo piuttosto cupo, persino pauroso: parroci che insistevano molto sul peccato e sull’Inferno, omelie ripetutamente dedicate ai «novissimi», dettagliata enumerazione dei peccati, colpevolizzazione e così via. Questo aspetto della storia del Cristianesimo è stato approfondito dalla storiografia francese e, in particolare, dal compianto Jean Delumeau, morto lo scorso 13 gennaio[1]. Si tratta di un argomento di straordinaria attualità, quindi vale la pena approfondirlo, anche perché, almeno a mia conoscenza, in Italia questa riflessione non ha avuto una eco molto ampia.


Alle origini di una questione storiografica

Il concetto di «pastorale della paura» designa un approccio pastorale in cui la paura, la menzione ripetuta dei «novissimi» (morte, giudizio, Inferno, Paradiso, ma più l’Inferno che il Paradiso), l’insistere sul peccato e la conseguente colpevolizzazione prevalgono su altre verità più rasserenanti della fede cristiana. Esso è stato sviluppato da Delumeau sulla scia della scuola storiografica degli «Annales», una celebre rivista intorno a cui, verso la metà del XX secolo, si sono riuniti studiosi (come Fernand Braudel, Lucien Febvre o Jacques Le Goff) interessati a una storia «a 360 gradi», cioè attenta agli sviluppi dell’antropologia, della cultura e delle mentalità: quindi ben al di là dei limiti consueti alla storia politica e istituzionale. In un articolo in cui traccia il proprio percorso autobiografico, lo stesso storico racconta come arrivò a occuparsi di questo soggetto[2].

Jean Delumeau narra di essere cresciuto lui stesso in un focolare cattolico molto tradizionale, in cui la religiosità veniva vissuta in modo «pessimistico e meccanico»; incontrò un altro approccio religioso quando fu assunto come insegnante, tra il 1940 e il 1942, in un collegio di Marsiglia, dove molti Cristiani vivevano la loro fede con gioia. Anzi, fu proprio lì che lo storico fece amicizia con un giovane collega protestante, poi morto nella Resistenza, e il cui esempio lo incoraggiò a proseguire i suoi studi sulla storia del Cristianesimo, della Riforma e sulla de-cristianizzazione. Dopo essersi lungamente occupato della Riforma, sia protestante che cattolica, Delumeau approdò al tema della paura solo nel 1972, quando si rese conto di quanto questo soggetto fosse stato fino ad allora negletto. Tuttavia, i ricordi della sua infanzia e giovinezza ebbero ancora un ruolo preponderante affinché lui arrivasse a focalizzarsi su questa tematica.

Difatti, nella celebre introduzione del suo ben noto volume Il peccato e la paura, in cui egli segue l’evoluzione storica della paura tra XIV e XVIII secolo[3], lo storico attinge ancora alla propria esperienza personale e racconta come, quando a 11 anni viveva in un pensionato salesiano di Nizza, ogni primo venerdì del mese recitava coi suoi compagni le Litanie della Buona Morte. Queste litanie sono ampiamente citate nel passo e descrivono l’agonia con dovizia di particolari cupi: perciò Delumeau stesso aveva conosciuto la «pastorale della paura», per di più da bambino. Così, si è sentito ancora più incoraggiato ad approfondire l’argomento.


La tesi di Delumeau e la pastorale della paura

La tesi da cui Delumeau parte in un altro volume, La paura e l’Occidente, è celebre[4]. A partire dalla Peste Nera del 1347-1348, l’Europa Occidentale visse una serie di «ondate di “choc”», per così dire, e di avvenimenti traumatizzanti, per cui la vita divenne estremamente precaria: la terribile Peste Nera diede così il via a una lunga serie di carestie, pestilenze, guerre, scismi, spesso interdipendenti tra loro, traumi che incisero profondamente sulla psicologia collettiva e individuale, come dimostra anche l’iconografia della Prima Età Moderna[5]. In assenza di risposte adeguate da parte della medicina, della scienza o della politica, si sarebbe sviluppata una «mentalità da stato d’assedio»; il ceto ecclesiastico avrebbe insistito allora per spiegare queste catastrofi con l’ira e il castigo divini, indicando però anche una soluzione nella conversione:

«I pericoli identificabili erano diversi, esterni e interni; ma satana era dietro ognuno di essi. In questa atmosfera carica di tempeste, predicatori, teologi e inquisitori desiderano mettere in moto tutte le loro energie contro l’offensiva demoniaca. Inoltre, più che mai essi vogliono dare l’esempio. La loro denuncia del complotto satanico si accompagna con un doloroso sforzo verso un maggior rigore personale. In queste condizioni si può legittimamente presumere, alla luce della psicologia del profondo, che una libido più che mai repressa si sia cambiata in loro in aggressività»[6].

Se lo scopo era quello di galvanizzare la reazione dei fedeli contro una massa di pericoli che piovevano da ogni parte, d’altro lato l’approccio era, per forza di cose, colpevolizzante e traumatizzante. La questione viene ulteriormente approfondita nel ponderoso, già citato volume Il peccato e la paura[7]. Per riassumere, indicherò qui i punti fondamentali della «pastorale della paura», sviluppati nei numerosi capitoli del libro attraverso una massa imponente di fonti di ogni genere (letterarie, ecclesiali, iconografiche eccetera):

1) Netto pessimismo antropologico, per cui l’essere umano appare come quanto mai vile e meschino; nell’emergere di questa concezione ha avuto un ruolo notevole il pensiero di Sant’Agostino.

2) Morale monastica del «contemptus mundi», volta cioè a deprezzare la vita terrena e corporea; essa ha forti radici platoniche, ma si è formata soprattutto in ambito ascetico-monastico. Il «contemptus mundi» (= «disprezzo del mondo») confondeva tra il mondo come creazione e il mondo inteso come parte dell’umanità opposta a Dio; quindi, questa concezione portava a svilire eccessivamente la vita terrena. Ovviamente, era inadatta alla maggioranza dei Cristiani, specie ai laici, ma a partire dalle élites dei consacrati si diffuse in tutti gli strati della Chiesa.

3) Dolorismo, cioè pratica degli eccessi penitenziali, eccessi divenuti ben noti nell’agiografia: molti Santi si cibavano e dormivano pochissimo, si flagellavano, auto-torturavano, nutrivano di spazzatura e simili.

4) Forte insistenza sul peccato e conseguente colpevolizzazione dei fedeli, specie nella prassi penitenziale.

5) Concezione della «massa damnata»: anche chi non credeva alla predestinazione (come facevano i calvinisti o i giansenisti), era convinto che la maggioranza dei fedeli (il 90%!) si sarebbe dannata, in ossequio a una concezione già agostiniana.

6) Ripetuta focalizzazione dell’omiletica sul giudizio (particolare e universale) e sull’Inferno, talora con tratti «horror». Persino il Purgatorio prese ad assomigliare sempre di più all’Inferno e fu invaso dalle fiamme.

7) Forte insistenza sulla preparazione alla morte, che veniva facilitata grazie a una letteratura specializzata: i cosiddetti «apparecchi di morte», cioè libretti ricchi di devozioni a questo scopo. Si moltiplicarono anche motivi, letterari e iconografici, attinenti alla sfera del «macabro».

8) Infine: presentazione di Dio come un giudice severo, talora persino duro, crudele, molto lontano dalla misericordia. Questo è il nocciolo della «pastorale della paura».

Va sottolineato che questa prospettiva regnava tanto sul lato cattolico, quanto su quello protestante.


Per riprendere un po’ di coraggio…

Il quadro è ben lungi dall’essere allettante e non stupisce che abbia suscitato delle resistenze, anche tra i colleghi storiografi di Delumeau. Lui stesso, come confessa nel suo percorso autobiografico, a furia di raccogliere testimonianze del genere entrò in crisi, tanto che aveva pensato di interrompere il suo lavoro, perché aveva molti dubbi all’idea di presentare una prospettiva così cupa sul Cristianesimo Occidentale. Ma proprio il parere positivo di alcuni pii sacerdoti lo incoraggiò a continuare: essi ritenevano che fare i conti con questa parte del passato cristiano avrebbe avuto un effetto terapeutico. In effetti, come recita un versetto evangelico: «La Verità vi farà liberi» (confronta Vangelo secondo Giovanni 8,32). Fu così che Delumeau concluse il suo ciclopico lavoro, per dedicarsi poi anche al lato più rassicurante della fede in Rassicurare e proteggere[8]. Bisogna infatti sottolineare che la «pastorale della paura» presenta solo una faccia della vita cristiana del passato, che era invece molto più variegata.

Al termine di questa lettura, la visione del Cristianesimo di «Ancien Régime» potrebbe risultare (anzi risulta) francamente terrificante. Tuttavia, Delumeau opera alcuni aggiustamenti della sua analisi, che smussano la prospettiva:

1) Sulla base di complessi calcoli che sarebbe qui inutile anche solo sintetizzare, egli conclude che il contenuto terrorizzante e colpevolizzante ammontava a circa la metà delle fonti da lui esaminate. Quindi, la pastorale della paura si alternava, per così dire, alla pari, a una visione molto più ottimistica e rasserenante.

2) Questo si nota soprattutto nel caso della prassi penitenziale: il predicatore che tuonava dal pulpito, di norma, doveva essere quanto mai dolce e mite in confessionale, per agevolare i penitenti[9]. In generale, chi si mostrava un «leone» nella predicazione, diventava un «agnello» in confessionale.

3) Dato che alcuni storici ritenevano la pastorale della paura indirizzata soprattutto alle masse e ai ceti inferiori[10], Delumeau ha obiettato che anzi, i più segnati dalla pastorale della paura erano proprio i religiosi, gli ecclesiastici e i sacerdoti, o comunque, i fedeli più osservanti: tanto che, ad esempio, Papa Alessandro VII teneva una bara sotto al letto come forma di «memento mori» e mangiava in piatti di terracotta decorati con figure di teschi…[11]


Le missioni interne

Mi sono dilungata parecchio sul lavoro dello storico francese, perché la sua è una posizione articolata e complessa e i suoi volumi rappresentano una sorta di «summa» sull’argomento che, a mia conoscenza, non è stato mai più ripreso con tale ampiezza. Nutro anzi l’impressione che, al di là di alcune critiche circostanziate, dopo Delumeau tra gli storici serpeggiasse l’idea che sul soggetto della paura e del peccato ormai «tutto fosse stato detto» o quasi. In realtà, il lavoro è ancora in gran parte da svolgere e i libri di Delumeau sono un punto di partenza, non di arrivo.

Prima di proseguire, bisogna però tratteggiare l’ambito in cui affiorava di solito la pastorale della paura. Essa non era tanto tipica della normale prassi parrocchiale, quanto delle missioni interne: si trattava di vere e proprie spedizioni di religiosi (di solito Gesuiti, Cappuccini, ma anche Oratoriani, Lazzaristi, Eudisti e appartenenti a vari Ordini o congregazioni nate con la Riforma Cattolica), che dedicavano in una zona prescelta periodi prolungati alla predicazione e ai sacramenti in forma intensiva. Soprattutto nelle campagne i missionari avevano a che fare con un’ignoranza religiosa spaventosa (almeno dal loro punto di vista, formatosi in base agli standard appresi in seminario o in convento): quindi, durante la predicazione applicavano un metodo «da “choc”» e, avendo poco tempo a disposizione, cercavano le «conversioni rapide», insistendo in particolare sul peccato e la necessità della conversione. Non era anzi raro che durante le loro omelie si scatenasse nell’uditorio un’emozione generale, con pianti e grida di pentimento. I missionari erano però molto più mansueti in confessionale.

In effetti, la missione interna era un’occasione eccezionale di evangelizzazione, in cui parecchi si decidevano a «rimettere a posto i propri conti con Dio»: non per nulla, i missionari passavano giornate intere in confessionale. Prima di pronunciare giudizi inclementi sul loro operato, bisogna difatti ricordare alcuni aspetti fondamentali della questione: innanzitutto, i missionari (e i sacerdoti in genere) ricorrevano a questo tipo di pastorale perché erano sinceramente preoccupati, anzi angosciati per la salvezza delle anime a loro affidate; fanno pensare a un insegnante esasperato che minaccia i suoi allievi con l’idea di una bocciatura, purché studino. Difatti, l’opera spirituale dei missionari incontrava anche molte resistenze e non era facile convincere le persone alla conversione. Inoltre, durante le loro attività di missione essi si sottoponevano a fatiche e «tours de force» impressionanti, a tal punto che alcuni ne avevano la salute minata o, persino, morivano. Basti un esempio: la missione in Valmaggia dei Gesuiti inviati dal Vescovo di Como nel 1630 e la cui relazione è stata studiata da Paola Vismara; le strade erano aspre, il clima inclemente, la gente viveva nella miseria più nera, in tuguri in cui dormiva su letti di foglie[12]. Del resto, durante le missioni i religiosi riuscivano a riportare la pace in paesi dilaniati dalle faide e rendevano possibili numerose riconciliazioni[13].

D’altronde, altri studiosi hanno sottolineato – cosa che, del resto, aveva già fatto lo stesso Delumeau – come la «pastorale della paura» fosse alternata costantemente a una «pastorale della seduzione», della dolcezza: tra questi, soprattutto Bernard Dompnier[14]. Tuttavia, la prospettiva di Delumeau, così impressionante, ha forse ancora bisogno di alcuni aggiustamenti?


Aggiustamenti

Il problema della pastorale della paura è reale ed essa è veramente esistita. Ho svolto attività pastorale da laica nella diocesi svizzera di Friburgo e ho potuto così verificarlo di persona «sul campo»: mi sono sentita raccontare da alcune persone anziane che gli abitanti delle montagne ancora ricordavano quando, da bambini, avevano paura ogni volta che il parroco arrivava in visita a casa. Tempo fa, ho sentito da un sacerdote di Ferrara che in passato i giovani sposi giravano il crocefisso della camera da letto contro la parete prima di compiere l’unione coniugale. Potrei dilungarmi con molti altri esempi, ma sono certa che parecchi dei lettori avranno ben presente la questione. A questi atteggiamenti faceva da sfondo una ben determinata teologia e antropologia di stampo autoritario e pessimista, teologia e antropologia superate, secondo Delumeau, solo col Concilio Vaticano II e con l’enciclica Dives in misericordia di Giovanni Paolo II. In fin dei conti, la pastorale della paura è un rischio di lunga data e ci interpella un po’ tutti. Del resto, in un’epoca in cui la vita era molto più breve e la morte incombeva a ogni pie’ sospinto, reazioni del genere sono ampiamente comprensibili.

In ogni caso, la prospettiva sulla pastorale della paura necessita di una maggiore contestualizzazione. Innanzitutto, bisogna situare il lavoro stesso di Delumeau nel suo contesto storico, subito dopo la fine del Concilio Vaticano II. Come ha chiarito di recente Guillaume Cuchet[15], l’opera di Delumeau è segnata proprio dall’atmosfera del dopo-Concilio, quando si è operato un tale ribaltamento pastorale che le generazioni più anziane si sono trovate del tutto sbalestrate: è proprio allora che si è manifestata la crisi, perché chi è stato liberato da quest’atmosfera (quella che Cuchet chiama il processo di «desinfernalisation» del Cristianesimo), ha provato stupore, nostalgia del passato e incredulità, ma anche la sensazione di essere stato «ingannato». Cuchet specifica però che questa è stata una crisi di lungo periodo, tanto da essere iniziata già nel Settecento; lo ha del resto documentato già lo studioso anglicano John MacManners: la pastorale della paura suscitava dubbi e facili ironie già nel secolo dei Lumi, tanto da divenire sempre meno popolare persino tra i sacerdoti[16]. Delumeau fa parte in ogni caso di quella generazione di «stupiti» e, per così dire, «traumatizzati», che non riuscivano più a raccapezzarsi in questo ribaltamento epocale.

D’altronde, la percezione dei traumi può cambiare da un’epoca storica all’altra (non è detto che traumi analoghi abbiano gli stessi effetti in epoche diverse[17]), così come le soglie di percezione da un’epoca all’altra (il 1600 pareva duro nel 1700 e questo nel 1800 e così via), da una regione all’altra, da un contesto all’altro, da un genere letterario all’altro: un conto sono le prediche, un conto i libretti devozionali, la musica, la mistica eccetera.[18]

Ma anche altre critiche sono state mosse all’opera di Delumeau. La nostra (compianta) Paola Vismara parla più volte in merito di «evidenti limiti interpretativi» e si affretta ad affermare che la pastorale delle missioni presentava anche un Dio misericordioso[19]. Probabilmente, in Paola Vismara era molto attiva la sua radice ambrosiana, legata a un Cattolicesimo operoso, alacre e più ottimista; difatti, come ha sottolineato di recente J.-L. Quantin, non era particolarmente attratta dal giansenismo che, pure, studiava con competenza[20].

Secondo chi scrive, invece, i due volumi qui esaminati di Delumeau sono troppo ponderosi e ampi, mettono insieme troppo materiale (e, come ho già osservato, di tutto: opere ecclesiastiche, laiche, artistiche, letterarie e così via), tanto da offrire un’impressione, forse fallace, di completezza. Perciò, è onnipresente il rischio di un’inadeguata contestualizzazione delle fonti stesse e degli errori interpretativi cui accennava Paola Vismara. Per esempio, Thomas Tentler (statunitense), pur elogiando il lavoro enorme del collega, ha indicato nella sua recensione alcune sviste nella lettura delle fonti inglesi, come il Racconto del Prete nei Canterbury Tales, che situa una prospettiva da «contemptus mundi» entro un’opera di tutt’altro orizzonte[21]. Appaiono, a mio avviso, particolarmente a rischio quelle sezioni in cui si mescolano materiali poco omogenei, come i primi 5 capitoli relativi al «contemptus mundi» e al pessimismo antropologico. Difatti, stupisce trovare, ad esempio, delle citazioni di Machiavelli e del Principe a sostegno del pessimismo antropologico qui presentato da Delumeau[22]: ora, se Machiavelli era radicalmente pessimista, la sua antropologia era ben diversa da quella agostiniana o anche solo cristiana; in lui, infatti, si rivela una forte radice materialista-epicurea, confermata dal suo interesse precoce per Lucrezio e il De rerum natura, che egli stesso copiò dal manoscritto ritrovato in Germania da Poggio Bracciolini[23]. Suscita ugualmente la mia perplessità trovare bollato come colpevolizzante persino Dante e la Divina Commedia, la cui prospettiva universale va ben al di là di una considerazione colpevolizzante del peccato: Dante esamina il male alle sue radici, non certo con queste scappatoie. Insomma, in un’opera così ampia il pericolo dell’equivoco interpretativo è perennemente dietro l’angolo e appaiono molto più convincenti le parti e i capitoli in cui Delumeau affronta un problema specifico e si serve di fonti omogenee[24]. D’altronde, servirebbero delle messe a punto metodologiche su ciascun settore o genere letterario affrontato da Delumeau: i manuali di confessori, ad esempio, non sono la stessa cosa dei canti liturgici, bensì richiedono attenzione all’epoca, all’orientamento teologico del singolo autore, come ha dimostrato eloquentemente Monsignor Marcel Bernos[25]. In sostanza, bisognerebbe riprendere la questione per settori più ristretti o autori singoli.

Una migliore contestualizzazione del problema dovrebbe cogliere nella trattazione di questi temi le divergenze, talora enormi, tra epoche diverse, anche non molto distanti. Per esempio: esiste una differenza notevole tra la concezione «barocca» della morte e del peccato, rintracciabile, mettiamo, nelle omelie del Padre Gesuita Segneri «senior» agli inizi del Seicento e la magnanimità classicheggiante con cui tratteggia la vanità di tutte le cose Boussuet nei suoi discorsi funebri alla fine del medesimo secolo; l’evoluzione e il cambiamento di sensibilità sono più che evidenti. Lo stesso si può affermare a livello geografico. Nella sua opera, Delumeau cita di tutto: canti boemi, letteratura francese o italiana, manuali di confessori, trattati teologici in latino e così via. Ma la sensibilità muta molto, anche entro il Cattolicesimo, da una regione all’altra, per non parlare da una Nazione all’altra. Basterà un esempio. Nel 1745 il Gesuita Lorenese Padre Jean Pichon pubblicò il libretto L’Esprit de Jésus-Christ et de l’Eglise sur la fréquente Communion in cui incoraggiava alla Comunione frequente per accelerare la santificazione; ma questo pio proposito suscitò una vera e propria levata di scudi tra il clero più o meno giansenisteggiante della sua Francia, anche tra sacerdoti e presuli che non erano propriamente Giansenisti. I Giansenisti, infatti, inclini a una morale molto severa e al pessimismo antropologico di marca agostiniana, incoraggiavano piuttosto a sentirsi indegni e a diradare la Comunione, ma molti li seguivano in questo, perché una certa mentalità austera aveva ormai segnato inesorabilmente la sensibilità della cultura francese. A fronte di queste reazioni, il Vescovo di Basilea, quindi Tedesco, Joseph-Guillaume de Rinck de Baldenstein rimase allibito: egli infatti – e a ragione – si stupiva che dei Vescovi potessero disapprovare una pratica così benefica come la Comunione frequente e che il latore di una verità così ovvia potesse essere perseguitato! Ma lui apparteneva all’area tedesca[26]. Del resto, Mario Rosa ha ampiamente documentato le differenze, non piccole, del Giansenismo italiano a fronte di quello francese[27] ed è arcinoto che il Cattolicesimo francese del Seicento (e non solo) diffidava profondamente di quello italiano.

Infine, un altro critico molto attento dell’opera di Delumeau è J. K. Powis[28]. Se la pastorale della paura contrassegnava la mentalità ecclesiastica, non è detto che i laici ne fossero condizionati in maniera esclusiva e automatica, anzi: secondo lo studioso anglofono, Delumeau dà così troppo peso alla visione clericale[29], tanto più che i laici, costantemente accusati di ignoranza dagli ecclesiastici, potevano nutrire punti di vista più indipendenti. Inoltre, continua Powis, Delumeau non accorda molta attenzione alle associazioni o manifestazioni collettive del Cristianesimo, quasi che celassero forme di superstizione: forse, si potrebbe aggiungere, ciò rivela in lui una certa diffidenza nei confronti del Medioevo Cristiano. Accanto ad altre numerose obiezioni – Delumeau insisterebbe troppo sul ruolo di epidemie o catastrofi, tali da far aumentare secondo lui, in modo deterministico, l’ansia religiosa; egli dimentica che si può coltivare una cultura attenta alla morte, senza viverla in modo colpevolizzante o pessimistico –, Powis però ne sottolinea soprattutto una, molto interessante: la morale cristiana veniva insegnata, specie nelle famiglie e tra i laici, non solo per paura dell’Inferno, ma anche per i suoi benefici e senza tante querimonie colpevolizzanti; il nocciolo dell’etica evangelica, in fin dei conti, era la benevolenza, il rispetto del prossimo, il migliore «collante sociale», tanto che veniva spontaneo ed era tradizione condannare ciò che contrastava con essa[30]. In effetti, questa è l’obiezione più importante: bisogna ricordare che la morale cristiana veniva insegnata anche per vari altri motivi e non solo con modalità traumatizzanti, soprattutto perché offriva un codice etico riconosciuto come di valore e benefico per la comunità.

In definitiva: Jean Delumeau ha il grande merito di avere intrapreso un percorso di studi e di avere dissodato il campo mediante una quantità impressionante di letture, indicando un problema non indifferente della pastorale cristiana di età moderna, percepito ancora nel passato recente. Tuttavia, è necessaria ancora una larga messe di approfondimenti, contestualizzazioni e aggiustamenti, pena il rischio di generalizzazioni nocive. Sicuramente, però, non bisogna dimenticare un dato fondamentale: anche in momenti di forte severità pastorale, l’ultima parola doveva rimanere alla speranza.


Note

1 Confronta Franco Cardini, Addio a Jean Delumeau, lo storico della paura e del Paradiso, «Avvenire», 14 gennaio 2020, https://www.avvenire.it/agora/pagine/morto-jean-delumeau-storico-della-paura-e-del-paradiso, Url consultato l’8 aprile 2020.

2 Confronta Jean Delumeau, The Journey of a Historian, «The Catholic Historical Review» 96 (2010), pagine 435-448.

3 Confronta Jean Delumeau, Il peccato e la paura: l’idea di colpa in Occidente dal 13° al 18° secolo (traduzione italiana; I edizione Paris, Fayard, 1983), Bologna, Il Mulino, 2019, introduzione.

4 Confronta Jean Delumeau, La paura e l’Occidente. Storia della paura nell’età moderna (traduzione italiana; I edizione Paris, Fayard, 1978), Milano, Il Saggiatore, 2018.

5 Confronta Gianni C. Sciolla, Fame, epidemie, guerre e pietà nell’iconografia religiosa tra Cinquecento e Seicento, in Jean Delumeau edizioni, Histoire vécue du peuple chrétien, 2 volumi, Tolosa, 1979, pagine 545-560.

6 Confronta Jean Delumeau, La paura e l’Occidente, citazione dal paragrafo La demonizzazione della donna.

7 Confronta Jean Delumeau, Il peccato e la paura.

8 Confronta Jean Delumeau, Rassicurare e proteggere (traduzione italiana; I edizione Paris, Fayard, 1989), Milano, Rizzoli, 1992.

9 Questo è anzi il soggetto principale di un altro volume di Jean Delumeau, La confessione e il perdono. Le difficoltà della confessione dal XIII al XVIII secolo (traduzione italiana; I edizione francese, Paris, Fayard, 1990), Milano, Edizioni Paoline, 1992, che illustra la prassi penitenziale sulla base dei manuali dei confessori.

10 Esprime questo avviso Daniel Roche al termine del suo studio, «La Mémoire de la Mort»: recherche sur la place des arts de mourir dans la Librairie et la lecture en France aux XVIIe et XVIIIe siècles, «Annales. Economies, sociétés, civilisations» 31 (1976), pagine 76-119.

11 Confronta Jean Delumeau, Il peccato e la paura, pagina 597.

12 Confronta Paola Vismara, Una missione dei Gesuiti in Valmaggia nel 1627, in «Cattolicesimi. Itinerari Sei-Settecenteschi», Milano, Edizioni Biblioteca Francescana, 2002, pagine 65-76 (cronaca di una missione in Valmaggia fondata sulla relazione dei due Padri Gesuiti inviati dal Vescovo di Como Carafino).

13 Confronta Eugenio Dos Santos, Le missioni in epoca moderna in Portogallo, in Jean Delumeau edizioni, Histoire vécue du peuple chrétien, 2 volumi, Tolosa, 1979, pagine 515-540; Gaetano Greco, La Chiesa in Italia nell’età moderna, Roma-Bari, Laterza, 1999, pagine 112-113.

14 Confronta Bernard Dompnier, Pastorale de la peur et pastorale de la séduction. La méthode de conversion des missionnaires capucins, in La conversion au XVII siècle. Actes du XII colloque de Marseille (janvier 1982), Centre méridional de rencontres sur le XVII siècle, Marseille, 1982, pagine 257-281.

15 Confronta Guillaume Cuchet, Jean Delumeau, historien de la peur et du péché. Historiographie, religion et société dans le dernier tiers du 20e siècle, «Vingtième Siècle. Revue d’histoire» 107 (2010), pagine 145-155.

16 Confronta il suo ampio John McManners, Morte e Illuminismo. Il senso della morte nella Francia del XVIII secolo, Bologna, Il Mulino, 1984 (edizione originale inglese, 1981, specie il capitolo 5, L’anima, il Paradiso e l’Inferno, pagine 171-207.

17 Confronta Jacques Le Brun, Cancer serpit, pagina 193, nota 87, sul rischio di anacronismi. L’autore ritiene anche che Delumeau generalizzi l’effetto di panico e repressione dura nelle considerazioni sulla caccia alle streghe.

18 Confronta Guillaume Cuchet, Jean Delumeau, historien de la peur et du péché. Historiographie, religion et société dans le dernier tiers du 20e siècle.

19 Confronta Paola Vismara, Il Cattolicesimo dalla «Riforma cattolica» all’assolutismo illuminato, in Giovanni Filoramo-Daniele Menozzi curatori, Storia del Cristianesimo. L’età moderna, volume 3, Roma-Bari, Laterza, 1997, pagine 151-290, nello specifico, pagina 228, o il già citato studio sulla Missione in Valmaggia, in particolare pagina 67; o ancora Paola Vismara, Il «buon prete» nell’Italia del Sei-Settecento, «Rivista di Storia della Chiesa in Italia» 60 (2006), pagine 49-67, dove in nota 56, pagina 60, la Vismara rinvia a Delumeau, Il peccato e la paura, e parla proprio di «evidenti limiti interpretativi» nell’opera dello storico francese.

20 Confronta Jean-Louis Quantin, Un Cattolicesimo severo: Paola Vismara storica del giansenismo e del rigorismo, in «In ricordo di Paola Vismara. Storia, storiografia e testimonianze, Rivista di storia della Chiesa in Italia» 71 (2017), pagine 25-32. Ringrazio lo studioso per avermi gentilmente trasmesso il suo contributo, in un momento in cui era impossibile adire alle biblioteche.

21 Confronta la recensione di Thomas Tentler, «The American Historical Review» 90 (1985), pagine 1186-1187.

22 Confronta Jean Delumeau, Il peccato e la paura, pagine 270-271.

23 Confronta ad esempio Alison Brown, Machiavelli e Lucrezio. Fortuna e libertà nella Firenze del Rinascimento, Roma, Carocci edizioni, 2013.

24 Confronta ad esempio il già citato Jean Delumeau, La confessione e il perdono, frutto del lavoro svolto per l’opera maggiore.

25 Confronta Marcel Bernos, Des sources maltraitées pour l’époque moderne: manuels de confession et recueils de cas de conscience, «Revue d’histoire de l’Eglise de France» 86 (2000), pagine 479-492.

26 Confronta Olivier Andurand, Le triomphe postume du Grand Arnauld. L’affaire Pichon, in La Grande Affaire. Les évêques de France face à l’Unigenitus, Presses Universitaires de Rennes, 2017, pagine 151-174, in questo caso pagina 165.

27 Confronta Mario Rosa, Il giansenismo nell’Italia del Settecento. Dalla riforma della Chiesa alla democrazia rivoluzionaria, Roma, Carocci edizioni, 2014.

28 Confronta J. K. Powis, Repression and Autonomy: Christians and Christianity in the Historical Work of Jean Delumeau, «The Journal of Modern History» 64 (1992), pagine 366-374.

29 In effetti, lo stesso Delumeau deve ammettere che noi udiamo solo la voce normativa dei manuali dei confessori, ma non quella dei laici che si confessavano: confronta Jean Delumeau, La confessione e il perdono, Introduzione.

30 Confronta Powis, pagina 372. A questa critica è collegata quella indirizzata alla mancanza di considerazione di Delumeau per la dimensione politico-istituzionale e sociale della religione. In effetti, in The journey of a Historian, Delumeau ammette di non essere attirato da questa sfera.

(agosto 2020)

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