Storia dei dolci
Un semplice modo per migliorare il gusto del cibo è diventato un’arte raffinata

Sono i più grandi amici dei buongustai, fedeli alleati di diabete e colesterolo, nemici irriducibili della linea e di ogni tipo di dieta, croce e delizia di chi stenta a rinunciare ai piaceri della gola. Sono i dolci.

Non sappiamo con esattezza quando gli uomini cercarono di migliorare il gusto dei cibi di cui si nutrivano con l’aggiunta di sostanze dolci, di spezie, di frutta secca, di uova, di grassi, ma dovette essere molto presto: già tra le decorazioni della tomba del Faraone Ramsete III spiccano le immagini di un forno per la produzione di pane e dolci sacri, confezionati con miele, latte, uva e datteri, indici di una tecnica dolciaria già avanzata. Gli Ebrei avevano fama d’essere particolarmente golosi di dolci, ed ancor oggi uno dei piatti principali del «seder» (la grande cena pasquale ebraica) è il charoset, una salsa ottenuta mescolando nocciole e fichi secchi tritati, arance, miele e vino; su un’altra sponda del Mediterraneo, alla triade «olio, vino e farina» i Greci univano i semi di sesamo, con i quali cospargevano le focacce.

A Roma erano numerosi i venditori di frittelle e di grosse cialde ripiene di ricotta, miele e frutta secca, aromatizzate con finocchio selvatico; la torta di ceci era considerata una vera prelibatezza. In una poesia intitolata Pistor dulciarius (Il pasticciere), Marziale così si esprime: «Le sue mani [del pasticciere] confezionano per te mille e più dolci. Per lui solo lavora la laboriosa ape»; dai versi latini appena riportati possiamo notare come, in un’epoca in cui non si conosceva lo zucchero, il miele fosse la principale sostanza dolcificante (ne esistono una vasta gamma di varietà aromatiche, di volta in volta corrispondenti alle fioriture su cui vanno a far bottino le api). Per i Romani era la più grande ghiottoneria: era usato in abbondanza, anche per «allungare» il vino, in quanto gli venivano attribuite qualità curative.

L’eredità latina sopravvisse nel millennio successivo, soprattutto grazie all’attività dei monaci: il Medioevo è stato, infatti, l’epoca in cui nacque la prima pasticceria secca. Nei monasteri si continuò la preparazione di dolci a base di miele, perché i monaci allevavano le api per ottenere la cera per le candele: la fabbricazione di dolciumi al miele si accompagnò così alla fabbricazione delle candele e, per tutto il periodo del Rinascimento, i fabbricanti di candele e quelli di dolci furono sempre uniti in una sola Corporazione.

Nell’827, i musulmani sbarcarono a Marsala e portarono in Europa la canna da zucchero, il gelsomino, l’anice, il sesamo, la cannella e lo zafferano; abilissimi pasticcieri, crearono molti dolci profumati, tra cui il cannolo elaborato poi dalle donne di Caltanissetta ospiti dell’Harem «Kalt El Nissa» («Castello delle Donne»). L’influenza araba portò ad una innovazione nella realizzazione dei dolci, costituita dall’aggiunta di droghe ed essenze, come l’acqua di rose, l’essenza di muschio, i pistacchi ed i pinoli. In seguito alle Crociate, nei monasteri giunsero nuove spezie e soprattutto il già ricordato zucchero di canna, che andò a sostituire il miele e gli altri dolcificanti, costituiti, fino ad allora, soprattutto dal mosto d’uva, dalla frutta matura, dai rarissimi datteri, dai fichi secchi e dall’uva zibibbo.

Nel Medioevo, oltre ai fabbricanti di dolciumi che gestivano una bottega aperta al pubblico, vi erano pasticcieri di grande fama che lavoravano esclusivamente presso le corti dei principi e che, per accattivarsi i favori del loro signore, escogitavano di continuo nuove ricette, di cui custodivano gelosamente il segreto. Nacquero così dolci di grandissima mole che strabiliavano i contemporanei, come quello confezionato per lo sposalizio di un principe di Mantova: fu infatti servita una gigantesca torta sormontata da «tre grandi statue di marzapane, di altezza di quattro palmi l’una» come afferma Cervio, uno scrittore dell’epoca, presente al banchetto. Per ridurre l’eccessivo spreco delle materie prime usate per confezionare dolci tanto grandi, vennero approvate, in alcune città italiane, speciali leggi che ponessero fine allo sperpero compiuto dai grandi signori: curiosa è una legge bolognese del 1294, che vietava che nei banchetti venisse servita più di una specie di dolciumi.

Oltre i flutti schiumosi dell’oceano, in America, fin dal tempo degli Aztechi la coltivazione dell’albero del cacao veniva accompagnata da riti particolari: per esempio, prima della semina le fave migliori del cacao venivano esposte ai raggi della luna per quattro notti e durante quel periodo gli uomini «addetti ai lavori» dovevano rimanere casti. L’arrivo del cacao in Europa al seguito delle scoperte geografiche diede il via ad una nuova rivoluzione dolciaria, anche se la vera svolta epocale si sarebbe impressa solo con la Rivoluzione Industriale.

Il Rinascimento si caratterizzò per un crescente tripudio di sapori e di scoperte gastronomiche. È ad esempio proprio agli inizi del XVI secolo, che in Toscana si cominciarono a fabbricare i gelati, non molto differenti da quelli attuali. I gelatieri fiorentini divennero subito espertissimi nella nuova arte, e alcuni di essi, emigrati all’estero, aprirono nelle più importanti città europee negozi di gelati. A Parigi, nel 1600 un gelataio fiorentino, Procopio Coltelli, aprì un caffè con vendita di gelati che ancor oggi esiste ed è notissimo: il «Café Procope». Dalla Toscana la nuova arte si estese a tutte le città italiane ed estere. Curiosi furono i gelati che vennero serviti alla fine di un banchetto offerto dal principe di Condé al Re Luigi XIV di Francia: avevano la forma di un uovo ed erano stati preparati con tanta cura che gli invitati li crederono veramente uova e non si accorsero di nulla finché non li mangiarono. I Napoletani ed i Siciliani divennero anch’essi abilissimi gelatai ed ancor oggi hanno il primato nella fabbricazione dei gelati. Oltre ai gelati veri e propri, ci sono i sorbetti (contengono liquori), le granite (pezzettini di ghiaccio aromatizzati con l’aggiunta di sciroppi) e le gramolate (che si preparano facendo gelare il preparato per un gelato alla frutta senza rimescolarlo, così che, gelando, formi delle minutissime scaglie di ghiaccio).

(Una curiosità: uno studio dello «Smell and Taste Treatment and Research Foundation» di Chicago pubblicato sulla rivista di ricerca medica «Medical News Today» riferisce che le preferenze in materia di gelato svelerebbero molto sulla personalità: così, chi ama il gelato alla vaniglia è spesso impulsivo, suggestionabile ed idealista; chi preferisce quello al cioccolato è una persona drammatica, generosa e un po’ credulona; chi sceglie i frutti di bosco è tollerante, devoto e introverso; gli amanti del gelato alla crema sono amorevoli, solidali e riservati; chi prende il gelato al caffè è una persona scrupolosa, coscienziosa e amante della perfezione; chi, infine, predilige i gusti alla frutta ha una personalità analitica, decisa ed anche, a volte, pessimista).

Per puro caso, nel XVII secolo, un fabbricante di paste, Claudio Lorrain, detto Claudio Gelée, scoprì per caso – o, se vogliamo, a causa di un suo errore – il metodo di preparazione della pasta sfoglia. Mentre stava impastando alcuni dolci, si accorse di essersi dimenticato di unire la prescritta dose di burro. Pensò quindi di aggiungerlo, ma ormai aveva impastato la farina. Lo aggiunse man mano e manipolò bene l’impasto. Quale non fu la sua sorpresa quando, terminata la cottura dell’impasto, si accorse di avere ottenuto dei dolci molto friabili, formati da una pasta sottilissima e sfogliata.

Nel 1680 l’ottico danese Leewenhock scoprì il ruolo delle cellule di lievito come principio lievitante, riuscendo ad evidenziarle osservando al microscopio i residui della lavorazione della birra. Il lievito, composto da microorganismi – detti saccaromiceti – che in determinate condizioni ambientali si riproducono e provocano la trasformazione degli zuccheri in anidride carbonica, facendo di conseguenza rigonfiare gli impasti, è utilizzato in molti dolci, come ad esempio il pandoro e il panettone. Oltre ai lieviti naturali, nella pasticceria casalinga si usano oggi spessissimo lieviti chimici, che si acquistano solitamente in bustina.

L’inizio della produzione industriale del cioccolato, inizialmente usato soltanto dai farmacisti in piccole dosi, permise anche ai pasticcieri di acquistarne grosse quantità ed impiegarlo nella preparazione dei dolciumi al cioccolato, ancor oggi tanto diffusi.

Fino all’inizio del secolo XIX, lo zucchero, elemento fondamentale dell’industria dolciaria, era rimasto un prodotto raro e di lusso, poiché veniva estratto esclusivamente dalla canna. Ma nei primi anni del secolo successivo sorse in Europa l’industria per l’estrazione dello zucchero dalla bietola.

Negli stessi anni comparvero, per la prima volta, sul mercato mondiale, i confetti colorati. I confetti bianchi erano già noti fin dal Cinquecento ed erano ottenuti ricoprendo di zucchero e di creme di liquori mandorle e nocciole. La parola stessa «confetto», in origine, significava semplicemente «frutta sciroppata», ma in seguito il suo significato si estese ad indicare quei particolari dolci che tutti ben conosciamo.

Con le nuove tecnologie e la produzione di massa, la pasticceria assunse una dimensione democratica e popolare, perdendo parte del suo alone di emozione domestica e simbolica. Ma la sapienza casalinga non è andata persa perché, proprio nel momento in cui l’industria si appropriava del lato dolce della storia, entrarono in scena personaggi come Pellegrino Artusi, che iniziarono a raccogliere nei propri ricettari l’antica saggezza delle massaie.

Oggi la pasticceria, che alle sue origini era stata opera del lavoro artigiano, è organizzata massicciamente su scala industriale. I prodotti non vengono affatto toccati dalle mani degli operai, essendo la dosatura degli ingredienti, il loro passaggio da un recipiente all’altro e la confezione completamente affidati a macchinari complessi; la materie prime usate vengono attentamente selezionate in veri laboratori scientifici da tecnici e chimici che nulla, tranne il bianco camice, hanno in comune con gli antichi cuochi. Da lunghe catene di lavorazione esce, nel tempo più breve, un numero altissimo di «pezzi» preparati secondo i dettami più scrupolosi dell’igiene e della moderna dietetica.


Italia, terra dei dolci

Cioccolatini, meringhe coperte di panna, torcetti croccanti, minuscoli o grandi bignè, soffici mousse e budini, torte di frutta, semplici paste di granturco, panettoni, sformati, gelatine… la ricchezza e l’abbondanza dei dolci è davvero proverbiale. Questo vale anche per l’Italia, da sempre all’avanguardia nel mondo per le sue creazioni culinarie, molto gustose e di piacevole aspetto. Riservati originariamente ai soli momenti di festa, ghiottonerie esclusive per le occasioni di gioia, nell’immaginario popolare, oltre che nella realtà dei fatti, i dolci spesso sono diventati l’emblema di un’area geografica, di una provincia o addirittura di un comune, identificandone tradizioni, usi e storia.

Per esempio il «pandesio», che deriva il suo nome dal paese di provenienza, Desio appunto, è fatto con pan grattato, zucchero, uova, cacao ed uva passa, e si prepara tradizionalmente nel periodo dei morti (primi giorni di novembre).

Caratteristici di Novara, invece, sono i biscotti.

Famosi sono gli amaretti di Saronno (molto buoni anche gli amaretti di Sassello, in Liguria), sebbene questi biscotti secchi o morbidi, a base di mandorle e dal gusto leggermente amaro, sarebbero stati inventati non in Lombardia, bensì in Piemonte da Francesco Moriondo, cuoco e pasticciere alla Corte dei Savoia, nella prima metà del Settecento; in cucina gli amaretti interi, passati in pastella, fanno parte del famoso fritto misto alla piemontese.

Originario del Piemonte è anche quello che viene chiamato sanbajon (zabaione), dal nome di San Pasquale di Baylon, nato in Spagna nella prima metà del Cinquecento e trasferitosi a Torino al seguito di Emanuele Filiberto: si narra che un giorno il Santo, nel tentativo di montare delle uova con lo zucchero, vi aggiunse del vino dolce per renderle più spumose, facendo così nascere lo zabaione.

Tipico del Trentino è il morbidissimo strudel, mentre a Verona impera il più morbido pandoro (il mio dolce preferito).

Cremona ha come dolce simbolo il torrone, invece Mantova predilige la sbrisolona (una torta secca preparata con farina, uova, strutto e mandorle, che si può conservare molto a lungo); il dolce tipico di Bozzolo, piccolo centro del Mantovano, è il bissolan (una torta morbida di forma rettangolare, un tempo tipica delle classi popolari).

Genova offre il pandolce, Siena il panforte, l’Emilia le sue gustosissime ciambelle.

Nel Mezzogiorno, Napoli è nota per la sfogliatella, mentre in Sicilia vengono preparati ottimi frutti di marzapane, ma potremmo citare anche i cannoli o le cassate, gelati di panna con varie qualità di frutta candita. Il nome «cassata» deriva dall’etimo arabo «quas’at» che significa «ciotola rotonda», poiché tale era la sua forma primitiva; la cassata siciliana, con il passare dei secoli, divenne una specialità conventuale, tanto che nel sinodo dei Vescovi tenutosi nel 1575 a Mazara del Vallo il dolce venne considerato indispensabile per la celebrazione delle feste pasquali.

Ma il vero dolce italiano, quello che è maggiormente noto e richiesto in ogni parte del mondo, è senza dubbio il panettone di Milano, un tipico dolce natalizio.

Le sue origini sono narrate da un aneddoto: ai tempi di Ludovico il Moro viveva a Milano un vecchio fornaio, i cui affari, purtroppo, andavano male; nel vicino Borgo delle Ochette era stato infatti aperto un nuovo negozio di panettiere.

Un giovane garzone del vecchio fornaio, per aiutare il suo padrone, decise di migliorare la qualità del pane, aggiungendovi uova, burro, uva passita e cedro.

La nuova qualità del pane, battezzata col nome di «panettone», incontrò il favore del pubblico e divenne sempre più richiesta: la bottega del fornaio tornò ad essere affollata e i suoi affari prosperarono.

Il panettone è oggi molto apprezzato per il gusto fresco e la leggerezza della sua pasta, ma oltre ad essere molto buono è anche assai nutriente: i prodotti con cui è confezionato (farina, burro, uova, zucchero, latte, frutta) sono molto energetici e danno al nostro organismo un gran numero di calorie. Basti pensare che un chilo di panettone ha un potere nutritivo equivalente a 1.782 grammi di carne di bue, 2.240 grammi di carne di vitello, 51 uova fresche, 1.265 grammi di carne di maiale. È quindi un dolce da mangiare con… parsimonia!

Tipico anch’esso del periodo natalizio e conosciuto col soprannome di «panettone dei poveri», è il pan tramvai, un dolce fatto con uva passa, noci e fichi secchi nato nella Lombardia del 1899 con gli operai pendolari che cominciavano ad utilizzare i tram elettrici per gli spostamenti: il pan tramvai veniva dato come resto del biglietto del tram sulla tratta Monza-Milano. Nel dopoguerra scomparve per via del tesseramento, per ricomparire poi ai giorni nostri nelle panetterie del Nord Italia; è stato anche designato dolce simbolo del territorio della Brianza all’Expo 2015.

Mi sia consentito concludere quest’articolo citando un altro dolce del mio paese, Desio: è il papùrogiu, un bambolotto di pasta dolce (pasta da veneziana), con tre chicchi d’uva che mettono in evidenza gli occhi e l’ombelico, e che si mangia tradizionalmente il giorno dell’Epifania!

Ed ora, non mi resta che augurarvi… un buon appetito!

(dicembre 2013)

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