JFK. Un caso ancora aperto
Le lobby e l’America

Le persone che appartengono alla mia generazione conoscono bene la figura di John Fitzgerald Kennedy. Il Presidente «glamour» ucciso a Dallas il 22 novembre 1963 a soli 46 anni.

Era figlio di Patrick Kennedy, un ex Ambasciatore e Senatore democratico la cui famiglia aveva radici irlandesi. Stabilitisi a Boston, Massachusetts, la famiglia cattolica del Presidente aveva avuto una importante ascesa sociale a partire dal XIX secolo. Come molti Irlandesi, con la crisi della patata e le innumerevoli difficoltà di sopravvivenza in Patria, avevano fatto degli Stati Uniti la loro Patria elettiva.

Era dentro al Partito Democratico, ormai costola di quel Partito Repubblicano cui appartenne anche il Presidente Abramo Lincoln, che si era suddiviso nell’attuale distinzione tra Repubblicani e Democratici proprio nella seconda metà dell’Ottocento. Ciò che conoscevamo prima non era il Partito Democratico di oggi ma un Partito Agrario, la cui ispirazione era una società statunitense dei primordi, legata alla terra, alle piantagioni del Sud, allo schiavismo. L’industria, quella vera, prodottasi – ahimè! – anche in questo caso dopo un aspro conflitto interno, la Guerra di Secessione, era esplosa dopo l’uccisione di Lincoln, uccisione che aveva rappresentato la volontà di far dominare il Congresso e la Costituzione democratica su poteri in ascesa lobbistici e affaristi, tra cui proprio la potentissima lobby delle armi.

Esattamente un secolo dopo, nel 1963, con John Fitzegerald Kennedy, nulla era mutato!

A confermarlo, prima ancora del comportamento del Presidente, la vita politica e sociale di suo padre, il finanziatore della campagna elettorale che aveva visto salire il giovanissimo rampollo sugli altari.

Ricordiamo una celebre canzone che tutti conosciamo: «Chi ha ucciso l’Uomo Ragno, chi sia stato non si sa, forse quelli della mala, forse la pubblicità!»

La frase si adegua perfettamente alla situazione. Nonostante le molte traballanti inchieste, ancora oggi non è stato svelato chi armò la mano dell’attentatore texano Lee Harvey Oswald.

Una cosa è certa. Il traffico delle armi passa attraverso la mafia e il padre di JFK non disdegnò quegli ambienti, anzi sappiamo bene che ne ricevette lauti finanziamenti. Poi il figlio Bobby, alias Robert Kennedy, fratello minore del Presidente eletto, nominato Ministro della Giustizia dal fratello, decise di combattere a spada tratta i gruppi malavitosi e lo fece senza colpo ferire.

Il gigante americano, che non è affatto il gigante buono, si risvegliò. Come era accaduto a Lincoln, il Presidente dovette rispondere con la sua vita, e così lo stesso Robert Kennedy, candidato alla Presidenza cinque anni dopo. Rei entrambi di aver tradito il «mandato». Perché nel sistema americano il Pentagono è essenziale, e con gli affari giganteschi che muove, i contesti mafiosi nazionali ed esteri non si lasciano sfuggire un piatto così ricco.

Sam Giancana, un capo mafia di allora, aveva conosciuto e finanziato la campagna presidenziale. Le numerose inchieste lo accusano, senza tuttavia al momento provare la sua complicità. Ma ancor più la questione della Baia dei Porci. Kennedy non era Biden. Aveva un suo alto profilo morale che esulava la figura del vecchio padre «tycoon» e che aveva sin da giovanissimo, in Profili di coraggio, la sua tesi di laurea, tollerato ma anche contrastato. Divenne Presidente solo perché il padre glielo impose. Era morto il fratello maggiore durante la Seconda Guerra Mondiale e allora gli interessi familiari paterni si concentrarono sul giovane Jack che era meno votato del fratello a idealità di potere. Tuttavia lo fece per senso del dovere e anche perché a un padre non proprio tollerante (la sorella Rosemary, terzogenita dopo Jack, è acclarato, fu fatta lobotomizzare perché ritenuta troppo scandalosa per gli interessi familiari senza che nessuno avesse potuto contrastarlo) difficilmente ci si poteva opporre.

Le contraddizioni del colosso americano emersero così facilmente.

Jack fece una brillante carriera al Senato nelle file del Partito Democratico fino a una risicata, ma pur sempre acquisita, Presidenza.

Doveva non sgarrare. E invece sgarrò. Quando si profilò la crisi di Cuba nel 1962, Kennedy non mise in pericolo la pace internazionale, neppure in nome dei suoi interessi personali. Così in Texas, un anno dopo, venne tragicamente ucciso.

E l’intera famiglia, che attraverso Robert Kennedy e dopo la morte di questi, tramite il fratello Ted, perseguì da lì in avanti tale politica, fu messa in cima alla lista degli «indesiderabili».

Anche Ted subì un attentato, da cui si salvò, ma senza aver mai potuto definire in modo preciso le dinamiche dello stesso.

Lo misero fuori gioco per la Presidenza con una campagna denigratoria basata sulla sua vita privata.

Le lobby delle armi, quelle stesse lobby fanno dire negli Stati Uniti a personaggi come la cantante Madonna: «Mi vergogno di appartenere a un Paese così». Un Paese dove le armi si comprano al supermercato.

Eppure il mondo degli sceriffi aveva fatto grande anche nell’immaginario collettivo la Grande America, quella che si era liberata del giogo della Corona Inglese, e che aveva saputo a Washington fondare una Repubblica Presidenziale, unica sulla faccia della Terra, capace di divenire in breve tempo la Potenza mondiale che ancora conosciamo. Questi valori, questi principi, sono diventati affare, sistemi bancari, peso finanziario.

A Wall Street il denaro non dorme mai. Famosa frase, anche un po’ fumosa, quella del Gordon Kekko del celebre film del 1987 di Oliver Stone. Il mondo hollywoodiano coinvolto nei traffici, in quanto la mafia qui è ben radicata. E gli stessi personaggi che ritroviamo nel traffico delle armi li ritroviamo finanziatori losangelini.

I Kennedy e i loro amici e parenti frequentavano ampiamente anche quel mondo. Non dobbiamo tuttavia da Europei osannare il comportamento autenticamente morale di un Presidente come fu quello di Kennedy, anche se per qualcuno il tradimento prevedeva necessariamente la condanna di chi certi tradimenti non poteva perdonarli. Perché comunque Kennedy esprimeva il proprio Stato e gli interessi della sua popolazione. Che per Kennedy fortunatamente non era rappresentata solo da pochi ma dalla media borghesia, e perché no, anche dal cittadino comune.

L’Europa dovrebbe semmai emulare la complessità americana. Fatta di gigantismo politico e non solo finanziario. Dobbiamo ammettere che anche i Presidenti Americani spesso di politico hanno poco, tuttavia senza dubbio una parvenza di decisionismo politico devono mantenerla di fronte non solo al Parlamento ma anche ai comuni cittadini. Negli Stati Uniti facilmente alle elezioni successive «si va davvero a casa».

Non così in Europa dove da 70 anni a questa parte ci si affida alla Nato, non si ha un proprio sistema di sicurezza. Non si riesce a contare nulla sul piano diplomatico e soprattutto non si ha un Governo politico centralizzato. E qui potremmo già fermarci per capire quanto determinante sia che l’Europa non abbia mai avuto un suo John Fitzegerald Kennedy, nel bene e nel male.

Poi si accusano gli avversari, non ultima la Russia. La Russia non è un gigante buono. Non lo era con Krusciov, non lo è con Putin.

Ma l’unico modo per mettere a tacere i giganti buoni e quelli meno buoni è esserci. Banchieri e uomini di affari non si possono improvvisare politici. Non compete loro, possono solo rappresentare se stessi e le banche e gruppi di affari da cui provengono.

Questa è un po’ la storia dell’Europa, non solo la nostrana. I tecnocrati e burocrati europei, almeno i più importanti, provengono da quel mondo o sono diretta emanazione di esso.

Putin e il suo mondo, per «crescere» e diventare meno aggressivo ha bisogno di un contraltare, un’Europa unita e ricca di sovranità. Che smetta di fare il bastoncino della Nato. Ci siamo preoccupati della Brexit, e abbiamo fatto bene. Perché la Brexit è stato un segnale che qualcosa non andava. Gli Inglesi quando si isolano e pretendono di ritornare ago della bilancia tra Stati Uniti ed Europa, significa che l’Europa non naviga in buone acque. Due dittatori europei, accostati spesso per la loro infausta campagna di Russia, sono Napoleone I e Hitler. In modo molto diverso e in contesti assolutamente diversi hanno osato sfidare il gigante che si spinge oltre gli Urali. Eppure paradossalmente avevano una loro idea geopolitica, sbagliata, ma assolutamente presente. L’Europa di adesso non ha un suo piano politico, tanto meno geopolitico. Basta visionare che cosa fa nel Mediterraneo, come in un breve articolo pubblicato sul sito ho provato a tratteggiare.

JFK fu dunque un visionario, magari poco pragmatico di fronte allo strapotere mafioso e delle armi, ma pur sempre un visionario. Che faceva della classe media americana ancora il fulcro, il pilastro del sistema. Anni luce sono passati. Gli Stati Uniti tuttavia mantengono ancora coscienza che la classe media ha un suo peso politico. Sempre più eroso, rispetto al passato, tuttavia ancora presente. È del tutto evidente che i sistemi tecnologici, mondializzanti e spesso sganciati da reali controlli di potere, anche nel colosso americano muovono passi importanti, decisivi. In senso contrario. Ma nell’inconsistenza dei sistemi europei, addirittura questa classe media si è quasi «volatizzata». Negli Stati Uniti il contropotere dell’ex contrastatissimo Presidente Trump, per tutelare le proprie risorse, si è addirittura costruito un suo «social», nella speranza di rientrare in gioco sul piano politico. Nessun Paese Europeo può «vantare» altrettanto. Insomma, come ai tempi di Kennedy, se non vogliamo conflitti in casa dobbiamo avere «coraggio», sfidare il sistema, metterlo in discussione, capire che i pesi e contrappesi in politica prima che in economia sono essenziali. I giochi di sempre, che l’Europa, passando per tragici conflitti, non ha mai saputo equilibrare. Se vogliamo fare un azzardato paragone possiamo emettere un’equazione. L’Europa del passato stava all’Italia come adesso gli stati Uniti all’Europa. Ve li ricordate i vari Sovrani Europei che venivano chiamati in Italia perché Lorenzo il Magnifico da solo non riusciva a gestire la sua impalcatura chiamata «politica dell’equilibrio»? Analogamente l’Europa chiama gli Stati Uniti perché una sua politica dell’equilibrio non sa trovarla.

(aprile 2022)

Tag: Elena Pierotti, JFK, John Fitzegerald Kennedy, Abramo Lincoln, Brexit, Robert Kennedy, Nikita Krusciov, le lobby e l’America.