La Guerra del Pacifico e la questione
boliviana dell’accesso al mare
Nel 1879, il Cile invade Bolivia e Perù,
strappando alla Bolivia il suo unico sbocco sull’oceano. La
questione dell’accesso al mare non ha ancora avuto una
soluzione
La vita, nell’ultimo scorcio del XIX secolo, trascorre sonnacchiosa in Bolivia, specie ad Antofagasta, dove le onde dell’oceano si distendono languide su spiagge d’un biancore abbacinante e le strida rauche dei gabbiani si perdono all’orizzonte.
È una zona desertica, quella dove sorge Antofagasta, ma ricca: vi sono molte miniere di salnitro (nitrato di sodio), necessario per fabbricare la polvere da sparo finché i Tedeschi, nel 1910, riusciranno a riprodurlo in laboratorio; per ora, è considerato «oro bianco». E c’è il guano, escrementi di uccello che servono da combustibile e come fertilizzante.
All’occhieggiare dell’alba del 14 febbraio 1879, il prefetto Severino Zapata si appresta alla colazione, quando dalla baia risuonano sette salve di artiglieria: la nave cilena Blanco Encalada, all’ancora nel porto, saluta le compatriote Lord Cochrane e O’Higgins, che puntano sulla città.
Zapata può contare su 60 gendarmi armati di fucile e 500 civili boliviani; il generale cileno Emilio Sotomayor sbarca con 200 uomini ben armati e con l’appoggio della maggior parte della popolazione, che è di nazionalità cilena. La bandiera boliviana è ammainata e strappata, al suo posto viene inalberato il vessillo cileno.
Sono le prime battute di quella che passerà alla storia come la «Guerra del Pacifico» e che vedrà la Bolivia e il Perù opporsi ad un Cile finanziato dall’Inghilterra, avida d’impossessarsi dei giacimenti di salnitro.
I confini della Bolivia, del Perù e del Cile prima della Guerra del Pacifico
Le forze in campo sono impari, eppure già i giorni seguenti all’inizio dell’invasione gruppi di gendarmi e semplici cittadini cominciano a raggrupparsi spontaneamente a Calama, punto strategico per i viaggiatori tra la costa e l’altopiano, con l’idea di far fronte agli invasori; respingono le intimazioni di resa, scavano fosse ed erigono parapetti.
Il problema è che l’allora Presidente boliviano, spregiativamente soprannominato «il Napoleone della Bolivia» per aver rovinato il Paese andino (proprio come fece il generale córso con la Francia), preferisce lasciar terminare i festeggiamenti del carnevale prima di dare l’annuncio alla nazione: la notizia dell’attacco viene comunicata solo dieci giorni dopo, e la guerra ufficialmente dichiarata il 1° marzo, quando la situazione è in larga parte già compromessa.
Il 23 marzo, 544 cavalieri cileni, con due cannoni da montagna ed una mitragliatrice, galoppano verso le postazioni boliviane di Calama, sicuri di non trovare alcuna resistenza. Sono letteralmente investiti da scariche di fucileria e costretti – nonostante la superiorità numerica – a una frettolosa ritirata. Poi giungono i rinforzi e tocca ai Boliviani abbandonare il campo.
Ma non tutti: Eduardo Avaroa, in seguito proclamato eroe nazionale, benché solo e circondato dai Cileni, continua a battersi. Ai nemici, che gli offrono di risparmiargli la vita in cambio della resa, risponde fiero: «Arrendermi io, vigliacchi? Che si arrenda vostra nonna, carajo». Frase che è entrata nella leggenda, ricorrendo in televisione, sui manifesti, sui giornali o semplicemente nei discorsi; dopo la frase di Avaroa, la parolaccia «carajo» è ammessa e tollerata ovunque, persino da un popolo educato nel parlare quant’è quello boliviano.
Nei mesi successivi, la superiorità militare dei Cileni si fa più schiacciante. Distrutta completamente la flotta da guerra peruviana – a cui ben poco hanno giovato coraggio, atti di valore e spirito di sacrificio –, il nemico può concentrare tutti i propri sforzi sul fronte terrestre.
Il 19 novembre, 4.000 Boliviani e 5.000 Peruviani si appostano ai piedi del colle San Francisco, da dove possono distinguere le uniformi azzurre e rosse dei nemici che ne occupano la sommità: 4.500 uomini, che stanno però per ricevere l’appoggio di altri 9.000 di rinforzo (grazie anche alla linea ferroviaria, abbandonata dalle truppe peruviano-boliviane senza essere distrutta).
Quello che accade poi ha il sapore di una barzelletta: a qualche nervoso Boliviano, che maneggia il fucile, scappa un colpo; i Cileni pensano ad un attacco e rispondono con una cannonata; Boliviani e Peruviani lo prendono per una sfida e si slanciano verso la cima del colle, senza badare agli ordini di ripiegamento. È un massacro: il fuoco d’artiglieria e la polvere che si solleva dal suolo impedendo di scorgere il nemico – tanto che, ad un certo tratto, gli Alleati si trovano a spararsi tra di loro – hanno la meglio sul valore delle truppe boliviano-peruviane.
I Cileni approfittano della vittoria per spingersi fino a Tarapacà, un paesino di un migliaio di abitanti, con case di fango ma in un fertile terreno circondato torno torno da un fiume. La cavalleria arriva nei pressi del paese il giorno 25, trovandosi di fronte truppe dell’esercito peruviano formate in massima parte da Boliviani del Sud. Due giorni dopo, il colonnello Suàrez guida le sue truppe all’attacco; le baionette boliviane si tingono di sangue e le artiglierie cilene, cadute in mano del nemico, sono dirette contro le truppe in ritirata. Neppure il colonnello cileno Eleuterio Ramìrez, che ha diretto l’occupazione di Calama, riesce a frenare la fuga dei suoi.
È una splendida vittoria degli Alleati, che hanno 236 morti e 261 feriti; i Cileni hanno 500 morti e 300 feriti, perdono le artiglierie, le bestie da soma e diverso materiale bellico.
Ormai, però, è troppo tardi per risollevare le sorti del conflitto: tra marzo e maggio, i Cileni riprendono la loro avanzata in territorio peruviano. All’alba del 26, il generale boliviano Narciso Campero e i suoi 11.663 uomini sfiniti da una lunga marcia notturna e ormai demoralizzati non possono far altro che seguire con gli occhi, dall’alto, la marcia di 19.640 Cileni che, con il supporto di settanta cannoni, marciano con ordine verso Lima; un torrente azzurro e rosso, scintillante di metallo, si muove senza fretta sotto il loro sguardo attonito.
Le conseguenze della sconfitta militare sono pesantissime per la Bolivia, che deve cedere ai Cileni ben 120.000 chilometri quadrati di territorio perdendo il suo unico sbocco al mare. Per una crudele beffa del destino, all’inizio del XX secolo i Cileni scoprono nella zona sottratta alla Bolivia, la pampa di Atacama, il più grande giacimento di rame del mondo, che solo negli anni dal 1999 al 2004 – tanto per fare un esempio – ha fruttato al Cile il doppio del prodotto interno lordo boliviano. Così, mentre gli Inglesi cominciano a sfruttare i giacimenti di salnitro impiegando lavoratori tenuti in condizione di semi-schiavitù, la Bolivia cade in una crisi economica che perdura sino ai nostri giorni. Strano Paese questo, uno dei venti Paesi più poveri del mondo sebbene le sue risorse naturali ne facciano uno dei più ricchi: ma la corruzione politica – a livelli inimmaginabili nella nostra Italia – lo ha prostrato, nel passato come nel presente.
La questione dell’accesso all’oceano, mai definitivamente chiusa, è tornata alla ribalta negli ultimi anni e soprattutto dopo l’elezione di Evo Morales, un Indio, alla presidenza della Bolivia: appuntamenti, parate, canzoni patriottiche, discorsi ufficiali mostrano come i Boliviani non accetteranno mai la perdita della loro costa. Persino sul libretto scolastico dei bambini è stampata la frase: «Il mare è nostro per diritto e recuperarlo è un dovere», e i «niños» imparano la canzoncina che intona: «Recuperemos nuestro mar».
Il 24 settembre 2003 Mesa, allora vice-Presidente, porta la questione marittima boliviana all’attenzione della comunità internazionale davanti all’Assemblea Generale dell’ONU. Eletto Presidente, insiste sulla rivendicazione e il 12 e 13 gennaio dell’anno seguente presenta il problema di fronte alla «Cumbre Extraordinaria de las Américas», svoltasi a Monterrey, in Messico. Vari soggetti politici si pronunciano a favore della richiesta boliviana: Venezuela, Brasile, Cuba, Uruguay, l’ex-Presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter e il Segretario Generale dell’ONU Kofi Annan; anche il Papa Giovanni Paolo II accenna al problema in uno dei suoi discorsi ufficiali. La cosa non è gradita al Cile, che commenta che se c’è un problema, questo deve essere risolto tra i due Paesi e basta.
Un’altra questione riguarda la nazionalizzazione del gas boliviano (che veniva venduto sottocosto al Cile ed esportato attraverso i porti strappati dai Cileni), gas di cui il Cile ha un assoluto bisogno, ma che non potrà più ricevere se non restituisce Antofagasta.
Il Cile continua a dire che non c’è nulla su cui discutere e si appella al trattato del 1904, in cui la Bolivia di allora ha riconosciuto i confini attuali. Ma i Boliviani non hanno nessuna intenzione di arrendersi: è stata anche ipotizzata la creazione di una striscia di terra al confine col Perù che non toccherebbe le città cilene; del resto, è facilmente immaginabile la reazione che avrebbero gli abitanti di Arica o di Iquique, abituati al tenore di vita cileno, alla notizia di passare sotto la Bolivia. Inoltre, anche se il Paese andino ottenesse questo corridoio, l’investimento conseguente sarebbe ingente e comincerebbe a produrre frutti fra molti anni: bisognerebbe costruire strade, ferrovie, servizi e soprattutto il porto per esportare le risorse. Il governo Morales ha già cominciato a recuperare fondi riducendo del 50% lo stipendio dei parlamentari (che comunque continuano a guadagnare oltre trenta volte quello che prende un cittadino boliviano medio) e con l’aumento del gas esportato in Argentina tramite la costruzione di un gasdotto.
Truppe boliviane e cilene si fronteggiano lungo i confini, mentre i giornali di La Paz continuano a titolare: «Mar para Bolivia». Un titolo che è anche un desiderio, e quasi una profezia: che nella rivendicazione marittima boliviana «si fonda la grandezza sudamericana».