Bufere di neve nera
Guasti da urgenza e incompetenza

Il giorno 11 maggio 1934, nelle Grandi Pianure degli Stati Uniti successe qualcosa di veramente eccezionale: una tempesta di polvere sollevò dall’arida regione milioni di tonnellate di polvere per trasportarle in quelle settentrionali e fino alla costa orientale degli Stati Uniti, ricoprendo di polvere tutto quanto incontravano nel loro passaggio, comprese le città di Chicago, Washington, New York, dove la polvere sommerse la Statua della Libertà, Boston, Atlanta; polveri si depositarono pure su navi alla fonda e interessarono anche navi abbastanza lontane dalle coste atlantiche. Se presso il Governo ci fosse stato il dubbio che le notizie provenienti dagli Stati colpiti dal fenomeno fossero ingigantite, il ricoprimento di tutto quanto di sabbia e polvere, durante una riunione in merito all’avvenimento in atto, servì a dissiparlo; i congressisti ebbero modo di toccarlo con mano.

Le Grandi Pianure formano una larga fascia del continente nordamericano che, partendo dalle province di Alberta, Saskatchewan e Manitoba del Canada, si sviluppa lungo il 100° meridiano occidentale terrestre, attraversando gli Stati di Montana, Dakota del Nord e del Sud, Wyoming, Nebraska, Colorado, Kansas, Oklahoma, Nuovo Messico e Texas, per finire nella regione settentrionale dello Stato Messicano di Coahuila.

Quando gli Europei giunsero in quelle zone, trovarono che erano il regno di una moltitudine di bisonti americani (e questo fu un bene per i pionieri, soprattutto perché i bisonti rappresentavano cibo fresco; tuttavia, ne uccisero tanti che i bisonti rischiarono l’estinzione); però quei territori erano pure la patria di diverse tribù di indigeni (erroneamente chiamati «Indiani», per le ragioni note a tutti), quali Piedi Neri, Crow, Sioux, Cheyenne, Arapaho, Comanche e altri, mentre più a Est, era il dominio di Arikaras, Mandan, Pawnee, Wichita (e per gli Indiani l’arrivo dei pionieri fu un male, giacché da padroni in casa loro, poveri derelitti, furono sfrattati dalle loro capanne, cacciati e relegati dove agli Europei non dessero fastidio). Qualsiasi commento a questo proposito sarebbe superfluo.

Da non sottacere il parere dei primi esploratori europei, che definirono l’area delle Grandi Pianure, soprattutto di quelle meridionali, non adatte all’agricoltura, essendo fra l’altro carente la presenza di acqua superficiale. Molti, al contrario, furono del parere opposto, tanto che ritennero che il terreno fosse ricco e fertile, proprio per l’abbondanza di quell’erba della prateria, che con il trascorrere di migliaia di anni aveva contribuito a renderlo tale.

Fino a metà del XIX secolo, quando iniziarono a giungere le prime colonne di pionieri, il suolo era ricoperto da erba bassa di prateria, che manteneva fresco e umido il terreno, assicurandone la fertilità, anche nei periodi di siccità. Un terreno pieno di promesse, «capace – direbbe il latino Giustiniano – di produrre tutto ciò che è necessario alla vita». I primi coloni iniziarono a lavorare il terreno e, agli inizi del XX secolo, i cambiamenti erano già evidenti, essendo stata arata l’erba per rendere i campi coltivabili. Negli anni umidi, il raccolto era accettabile, negli anni secchi erano guai.

Dopo la «guerra civile», combattuta dal 1861 al 1865, nel 1870 molti spazi delle Grandi Pianure erano ancora liberi. Il Governo invogliò e sollecitò i coltivatori, che fossero interessati e intendessero avviare fattorie e aprire allevamenti di bestiame, a spostarsi laggiù. Secondo una legge già promulgata, si concedevano fino a 65 ettari di terreno per famiglia; non vedendo un grande entusiasmo nell’accettare l’offerta, questa quantità qualche anno più tardi fu aumentata. Alla fine, molti fra i coloni indecisi accettarono; però non tutti erano esperti coltivatori ed erano impreparati e inidonei per il lavoro che li attendeva, dato che non erano molto preparati sull’ecologia dei suoli, in modo particolare su quel tipo con il quale avrebbero dovuto confrontarsi. I mandriani invasero i terreni semiaridi con il loro bestiame, destinato al consumo particolarmente al Nord e all’Est degli Stati Uniti. Ma lo sfruttamento dei pascoli fu talmente intenso che, purtroppo, fu messa in seria difficoltà la sopravvivenza di quell’erba che aveva bloccato il terreno, mettendolo in una condizione di buona stabilità e rendendolo capace di trattenere quella pochissima umidità disponibile.

Nel 1886 avvenne una grandissima strage di bestiame a causa della mancanza di nutrimento, perché non si era provveduto a tenerne abbondanti scorte, oltreché per il freddo da attribuire a un inverno eccezionale. Allora gli allevatori cercarono di non far più mancare il necessario alle loro bestie; insomma, come si dice, «si è chiusa la stalla...», con quel che segue.

In ogni caso, per salvare il salvabile, si tentò di applicare una variante al programma di sfruttamento del suolo, lasciando campo libero agli agricoltori, affinché coltivassero grano. Così i proprietari terrieri decisero di accrescere le estensioni coltivabili, servendosi di tutto quello che la tecnologia moderna offriva, sfruttando al massimo la meccanizzazione con trattori a benzina di nuova concezione e mietitrebbiatrici, che sconvolgevano il terreno sempre più a fondo e lo sfruttavano in modo irragionevole: si trattava di un processo che si dimostrava tutto a scapito dell’integrità produttiva della terra. L’impegno fu talmente elevato che, durante la Prima Guerra Mondiale, la produzione di grano, favorita da una buona umidità, era aumentata fino al 300%, in pratica invadendo il mercato.

Le terre, non lasciate a maggese e spremute in modo estremo con l’aggiunta di prodotti chimici, non ce la fecero più a trattenere l’umidità e le sostanze nutrienti, arrendendosi all’erosione. Il guaio maggiore si ebbe in Oklahoma, dove furono letteralmente sradicate quelle sterpaglie che contribuivano a mantenere in sito il terreno. Continuando ad arare sempre più a fondo, tuttavia, in concreto si avviò la quasi totale scomparsa dell’erba della prateria, accompagnata, sfortunatamente, dal cambiamento delle condizioni atmosferiche: infatti, si riscontrò una netta transizione che condusse dalla stagione umida a quella secca, che per otto anni imperversò insieme con temperature insolitamente elevate.

A completare il quadro divenuto abbastanza pietoso, contribuì l’estrazione del petrolio di cui, nel frattempo, si erano individuati i giacimenti, con tutte le contrarietà inquinanti annesse.

È stato dimostrato che solamente i Tedeschi di origine ucraina riuscirono a ottenere soddisfacenti risultati sul tipo di terreno incontrato, favoriti dal fatto di avere coltivato terreni analoghi in patria, per cui l’esperienza non difettava.

Un altro punto a sfavore della situazione era la scarsità di acqua. Si cercò di alleviarla ricorrendo alle fonti sotterranee dell’acquifero Ogalalla, risalente all’era glaciale; ma anche questo fu una specie di palliativo, perché il consumo di acqua superava le scorte. Si stimò che non meno di 140.000 chilometri quadrati di terreno fossero completamente inutilizzabili dal punto di vista agricolo, mentre tre volte tanto erano in fase di degrado: insomma, si era a cospetto di più di mezzo milione di chilometri quadrati di terreno che stavano assumendo tutti gli aspetti peculiari del deserto.

Purtroppo, i nodi sono destinati a giungere, alla fine, al pettine, quando le cose non vanno come si vorrebbe o come dovrebbero andare. Infatti, nel 1932 si diffuse in quelle regioni un’aridità veramente pesante e un dominante vento teso cominciò a sollevare senza difficoltà alcuna e a trasportare in giro la polvere non più ancorata, che non era altro che il risultato dell’esagerato sfruttamento fatto in precedenza: il terreno, non contenendo più niente di coagulante, si era sbriciolato a improduttive sostanze minerali che non possedevano quasi più nulla di organico. La palpabile nuvola di polvere, che riduceva la visibilità a pochi metri, si mosse su un fronte di oltre 250 chilometri, tutto coinvolgendo e ricoprendo.

Sfortunatamente, le tempeste non si ridussero a quella menzionata, giacché se ne dovettero annoverare ben 14 nel 1932 e addirittura 28 nel 1933; le tempeste che si formarono l’anno successivo furono in numero maggiore e ancora più violente delle precedenti. Infine, si giunse a quella del 1934, che si dimostrò essere veramente la più grave. Per due giorni e senza tregua il vento sollevò e trasportò via circa 350 milioni di tonnellate di polvere riarsa e sterile fino alle Grandi Pianure Settentrionali e alle coste atlantiche, naturalmente lasciando segni evidenti del suo passaggio.

La situazione era estremamente grave e amaramente si doveva concludere che a quel punto l’agricoltura era da ritenersi insostenibile. E intanto l’erba mancava e il bestiame non venduto moriva di fame.

Il vento sollevava il terreno secco e in particelle minute, lo mulinava facendone dei vortici, gli faceva aggredire e tormentare la gente, ficcandosi sotto i vestiti e riempiendo occhi, gola, polmoni. A ben poco servivano le maschere di garza antipolvere: la tosse era accompagnata da sputi polverulenti e catarro. Favorita dalle minuscole dimensioni dei granuli, la polvere s’infiltrava dappertutto, rendendo pressoché inutili i tentativi degli agricoltori di tenerlo fuori dalle case con la copertura delle aperture con lenzuola bagnate, e invadeva le case, insediandosi sopra i mobili, attaccandosi alle pareti. Per liberarsene, bisognava spalarla (ma dove?) come la neve. Molti si ammalarono di «polmonite da polvere» o «peste marrone», riscontrarono dolori toracici, ebbero difficoltà respiratorie.

Di conseguenza, le famiglie di agricoltori si trovarono nella necessità di cercare altrove i mezzi per sopravvivere, giacché il suolo da loro super sfruttato aveva perso completamente le caratteristiche umide indispensabili per coltivare e fornire qualsiasi tipo di prodotto agricolo. Si trattava di agricoltori (stimati in 400.000 o 500.000) che, lasciando migliaia di morti fra persone e animali da allevamento nelle regioni meridionali degli USA, emigravano dalle Grandi Pianure per spostarsi in California, sulla costa occidentale degli Stati Uniti, su carri sgangherati, pieni delle loro povere masserizie e di quanto erano riusciti a racimolare, trainati da cavalli e muli macilenti. I poliziotti tentarono invano di farli ritornare sui loro passi, poiché non c’era lavoro. Quei pochi che lo trovavano, mal pagato, erano ricoverati in raffazzonati ambienti alla periferia delle città. Spesso, si spostavano per cercare lavoro, quando quello che stavano eseguendo era esaurito, tanto che erano definiti «hillbillies» (girovaghi della frutta, per non dire di peggio). I Californiani, senza fare distinzione alcuna, li chiamavano «Okies», perché la maggior parte proveniva dall’Oklahoma, ma quel che conta è il fatto che non li volevano proprio; quel termine acquisì ben presto un significato molto più pesante, trasformandosi in uno analogo ai nostri «villano» o «zoticone» o altro ancora: li consideravano inferiori, ignoranti e sporchi, possibili diffusori di malattie, perché vivevano nel degrado, nella miseria e nella sporcizia, ammucchiati in accampamenti con tendopoli obsolete e senza servizi igienici, oltretutto delusi dalle promesse di una vita migliore che provenivano dalla California. In effetti, molti erano partiti volentieri, perché c’era stato qualcuno che aveva ventilato l’idea di attirarli con volantini in cui si pubblicizzavano lavori legati alla raccolta delle varie colture. In tal modo erano diventati concorrenti di chi, locale, da lungo tempo eseguiva quel tipo di lavoro. In poche parole, per i Californiani erano degli intrusi e per alcuni non erano altro che parassiti inviati dal Governo. Per porre l’accento sul clima della situazione, nel 1936 una baraccopoli, che ospitava circa 1.500 migranti, fu rasa al suolo, con l’unica scusante che era potenziale fonte di malattie.

Ciò che veramente meraviglia è il rifiuto degli abitanti della costa del Pacifico nei confronti dei loro connazionali, cioè di Americani come loro, non stranieri, aventi quella stessa origine europea di chi, dalla scoperta di Cristoforo Colombo, si era trasferito nel Nuovo Mondo, in cerca di una vita migliore di quella di cui godeva in quello Vecchio. Che si deve dire: «parenti serpenti», oppure qualcosa di peggiore? I migranti si resero conto, a loro spese, che la vita nell’Occidente Americano non era molto diversa da quella che avevano lasciato, essendo poco il lavoro e, quel poco, era pure mal pagato, ripetendo ciò che si era riscontrato durante la Grande Depressione.

Così, le Grandi Pianure furono in concreto abbandonate, tanto che le persone per miglio quadrato si erano ridotte a mai più di sei e talora addirittura erano solamente due.

Poi, il 15 aprile del 1935, ci fu un’altra tempesta, definita Domenica Nera, che finalmente attirò l’attenzione del Governo sulle condizioni disperate delle Grandi Pianure Centrali attraverso le notizie del «reporter» Robert E. Geiger dell’«Associated Press». Egli era di servizio a Boise City nell’Oklahoma proprio per riferire in merito alla polvere che impregnava l’aria tanto da far definire il fenomeno «black blizzard» («bufera di neve nera»). Edward Stanley, sempre dell’«Associated Press», nel trascrivere la notizia fornita da Geiger, inventò la locuzione «dust bowl» («ciotola per la polvere») per dire in sintesi ciò che si manifestava attorno a lui. Gli anni Trenta furono definiti «sporchi» («the dirty Thirties»).

Le nubi di polvere restavano sospese anche per diversi giorni e raggiungevano posti anche molto lontani, come si è ricordato all’inizio. Il fenomeno della nuvola di polvere non andò ignorato, tanto da attirare l’interessamento e l’immaginazione di scrittori, pittori, musicisti, fotografi. Per citarne uno, noto a tutti, si ricorda lo scrittore John Steinbeck, che nel 1939 descrisse le difficoltà incontrate dagli Okies nel suo romanzo The grapes of wrath (L’uva dell’ira).

Nel 1935, l’amministrazione del Presidente Franklin Delano Roosevelt, si adoperò per aiutare quella povera gente, dando denaro, acquistando bestiame, fornendo cibo. Applicando il suo programma di recupero dalla tragica situazione in cui si trovavano le Grandi Pianure e di conservazione del suolo, avviò la pianificazione federale dei metodi agricoli, fra cui la rotazione delle colture, la seminagione dell’erba e l’applicazione di nuove metodologie di aratura. E si deve riconoscere come la novità abbia funzionato, riducendo il formarsi delle tempeste di polvere in maniera sensibile. Importante fu la scelta di far costruire agli agricoltori dal Canada al Messico delle specie di barriere frangivento con la piantumazione di 200 milioni di alberi, per impedirgli di avere facile presa sul terreno polverulento; inoltre, furono migliorate le tecniche agricole. Lo stesso anche per le singole fattorie, tanto che attorno alle proprietà, lungo le recinzioni, si fecero abbondanti piantumazioni di cedri rossi e frassini. L’aratura del terreno a solchi, la formazione di barriere protettive, la rotazione delle colture nel 1938 diedero come risultato la riduzione dell’asportazione della polvere del 65%. La siccità durò ancora per poco, tanto che l’anno successivo finalmente ritornò la pioggia, consentendo una valida irrigazione delle colture, migliorando le produzioni.

Comunque, ecco la decisione di maggiore spicco: riportare il terreno a distesa erbosa, com’era in precedenza, favorendo il ritorno del bisonte americano. Ripensandoci bene, forse sarebbe stato meglio che si fosse approfondita la conoscenza delle caratteristiche del suolo, prima di metterci le mani sopra: si sarebbe evitato di produrre quel caos, per remissivamente ritornare allo «status quo ante», con le pive nel sacco.

(luglio 2021)

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