Le epidemie del passato e i provvedimenti per contrastarle
Un breve scritto sulla peste di Messina del 1743

Cronaca del contagio che, a partire dalla prima metà del 1743, infestò Messina, Rometta, Monforte e altri centri urbani vicini. Contro la propagazione del terribile male si adottarono l’isolamento delle aree focolaio. Solo nel 1894 si scoprirono le cause della peste dovute a un bacillo polimorfo.

Litografia di Alfred Guesdon

Litografia di Alfred Guesdon, 1849

La Commissione (Deputazione) di sanità pubblica di Palermo, su richiesta degli amministratori (Giurati) di Taormina e Milazzo «affinché il contagio che cominciava ad affliggere Messina» non si espandesse oltre e per tutelare la «salute pubblica» decise che «fusse tagliata a quella città ogni comunicazione col rimanente dell’Isola sì per mare, come per terra». Anzi, poiché Taormina e Milazzo avevano interrotto qualsiasi pratica d’affari con i Messinesi, era necessario che da queste città «si tirasse una linea, ossia cordone, formato da truppe regolate e di milizie paesane, onde restasse chiuso, e separato tutto» il territorio di Messina. Si decise di nominare tre Commissari straordinari con ampi poteri di cui uno con sede a Milazzo, l’altro a Taormina e il terzo in uno dei paesi più vicini alla zona di contenimento (zona rossa) che fu estesa a «più di cento miglia, e contenente oltre Messina, e la piccola città di Rametta, coi loro Borghi, e Casali, presso che trenta tra Terre, e Villaggi, nelle quali Città e luoghi si numeravano sopra novanta mila anime». Inoltre, si dispose di cercare persone che potessero fornire agli abitanti in isolamento «di quanto avessero uopo [necessità] e per provvedere a tutto ciò che vi potesse occorrere». Si stabilì «che si mettessero delle guardie all’entrate di tutte le Città, e Terre del Regno, e, lungo il littorale [costa], e anche nei passi di campagna: che non fusse permesso passare da un paese all’altro né per mare, né per terra, senza le patenti o bullette [documenti] di sanità, per le quali non si doveva esigere il pagamento». «Si impone la pena di morte per qualunque fraude, o falsità, che intorno ad esse commettere si potesse; che in nessun altro luogo, fuorchè nei porti di Palermo, di Siracusa e di Trapani, si desse pratica a navi alcuna, che procedesse da porti stranieri». Alcuni mesi dopo, la peste si propagò a Occidente di Messina «senza sapersi come vi fusse passata, nella campagna di Rametta, Città che confina coi Casali di Messina e che ha sotto la sua giurisdizione alquanti piccoli villaggi [Gimello, Conduri, Santa Domenica, Rapano, e altri]». «Cadde indi nella stessa sciagura Monforte» che dista «quattro miglia più in là verso ponente». Si cercò di capire in che modo fosse avvenuto il contagio: «forse vi sia stato recato da una delle guardie che trattò con persona affetta per l’acquisto a carissimo prezzo del pane; o da quelli che di nascosto andavano a Messina a portarvi della neve». «Nello stesso tempo penetrò il contagio in Venetico, e anche in Spadafora». «[…] essendosi rivolte le varie genti a difendere ogn’una i suoi confini, e a bloccare i paesi nuovamente contagiati, come fecero con Monforte, con Venetico e con Rametta». Anzi «Rocca e Valdina, vicinissime di Monforte e di Venetico chiusero con una ben forte linea tutto all’intorno il lor territorio». E così fece «il Principe di Villafranca colla sua Terra di Saponara» così che i paesi si trovarono al centro di barriere, «di cordoni, di linee» in maniere che si abbandonarono i campi «ed ogn’altro suo interesse, ad altro non badavasi che a guardarsi dal micidiale malore senza che in tanta trepidazione fusse succeduto altro disordine». A Rometta, isolata, fu dato ordine di «somministrare [agli abitanti] le vettovaglie, e il grano di cui bisognassero, senza esigerne il prezzo in contanti». Nel settembre dello stesso anno, considerato il perdurare del contagio, da Palermo si ordinò un inasprimento nelle sorveglianze delle zone isolate di Messina e dei suoi Casali e per tuttI gli altri centri abitati di «Venetico, Bavuso [Villafranca], Monforte e per tutto il territorio di Rametta, alle quali non dovrà mancare la particolare custodia e vigilanza per impedire la uscita dei loro Abitanti». Che si facesse ciò «accoppiando alla diligenza ed attenzione la corrispondente celerità e speditezza e proseguire con tutta sollecitudine la riordinanza del cordone sanitario, che dovrà salvare il Regno [la Sicilia] dal temuto pericolo». Si lodarono i Giurati di Rametta che fino all’ultimo cercarono di impedire il propagarsi della peste dentro le mura cittadine. Costoro «non lasciarono desiderare alcuna delle diligenze che in una sì triste congiuntura debbono mettersi in uso da coloro che son preposti al governo delle Comunità. E le loro cure furono più felici di quelle di altri luoghi in quanto ottennero che la pestilenza non penetrasse in Città ancor prima che avesse posto piede nel contado». Infatti, i Giurati di Rametta «aggiravasi per più tempo negli adiacenti villaggi, e in particolare in quel detto dei Filari, dove dopo qualche intervallo ripullulò attaccando mortalmente cinque persone per essere entrate in una casa, nella quale ventisette giorni prima era morta una donna infetta. Tennero essi la Città sempre circondata di guardie vigilanti, e fedeli che non di meno visitavano di continuo; la fecero purgare delle immondizie. Le case, che si scoprivano infettate o nella campagna o nei Villaggi, erano subito per loro ordine [dei Giurati] o barrate, o incenerite e le persone ristrette in rigoroso isolamento. Né solo ciò, ma come giungeva loro notizia di qualche nuovo contagio, tosto ne rintracciavano l’origine per fermare il male nella sua sorgente, facendo sequestrare le persone sospette [di essere contagiate]. Onde fu, che anche nelle campagne [romettesi] non ne furono colpiti che pochi; e di questi non tutti perirono, essendo stati assistiti dal medico e dal chirurgo».

Durante la pestilenza a Messina si celebrarono alcuni processi a carico di un Senatore Messinese (Giurato) che aveva permesso a tre persone di Rometta di entrare a Messina per lavoro e contro un Giudice che, essendo stato designato alla Salute Pubblica, aveva abbandonato «la Città nel suo maggior bisogno» fuggendo altrove.

Da Relazione istorica della peste, Palermo 1745.

(aprile 2020)

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