Foibe Diaspora Esilio
Una testimonianza diretta della tragedia giuliano-dalmata

La terribile vicenda della mia famiglia si inserisce in quella più grande di un intero popolo, che ci ha colpito negli affetti più cari ed ha lasciato un segno indelebile nella nostra memoria storica. È un buon motivo in più per esprimere il migliore ringraziamento a coloro che, con animo sensibile, partecipano a questo dramma epocale, destinato a permanere quale consapevole monito, e nello stesso tempo quale segno di speranza.

Ho avuto un’infanzia breve, troppo presto travolta da fatti più grandi di noi: la guerra, le persecuzioni, la partenza per un destino ignoto, il dolore, il distacco dalla mia terra. Sono nato a Rovigno nel 1934, e quando avevo appena nove anni la mia famiglia, immune da qualsiasi colpa al pari di tutti gli Esuli e di tutti i Martiri delle Foibe, conobbe il massimo della sventura.

Accadde tutto in quel plumbeo settembre del 1943, subito dopo l’armistizio chiesto ed ottenuto dal Governo Badoglio, quando le nostre città vennero occupate dai partigiani che le avrebbero governate col terrore per circa un mese, prima del momentaneo ritorno italo-tedesco protrattosi sino alla primavera del 1945, che agli inizi di maggio vide la definitiva occupazione jugoslava.

Nella mia Istria, come nella mia città di adozione, la splendida e plurimillenaria Pola, il nuovo padrone ritenne di avere subito la mano libera per gestire il potere all’insegna della violenza e della sopraffazione, con l’ausilio determinante dei comunisti autoctoni, ivi compresi gli Italiani: questo mi duole molto, e costituisce una ferita sempre aperta, ma purtroppo è la pura verità.

Prelievi e sparizioni furono all’ordine del giorno. Il 16 settembre 1943, mentre imperversava la cosiddetta «prima ondata» di infoibamenti e massacri alternativi non meno crudeli (il seguito sarebbe sopraggiunto soprattutto a guerra finita ed in misura ancora più massiccia) fu la volta del mio povero papà, Giuseppe Antonio Tromba, all’epoca quarantaquattrenne: uomo giusto e probo, lavoratore indefesso, legato agli affetti familiari, aveva la sola colpa di essere un patriota italiano e di avere partecipato all’Impresa dannunziana di Fiume (1919-1920) quando era appena ventenne.

Ricordo con tremenda angoscia la scena del sequestro, avvenuto in casa ad opera di una banda partigiana, che avrebbe portato via anche me, se la mamma non si fosse opposta con tutte le forze: dopo tutto, ero un bambino!

Papà Giuseppe aveva avuto la prontezza di nascondersi in un mobile, essendo ben chiaro che i partigiani venivano a cercarlo per portarlo verso un iniquo e tragico destino, ma non ebbe fortuna. Come è facile immaginare, il suo ingenuo nascondiglio venne immediatamente scoperto, provocando il triste sarcasmo di quei banditi.

Rimanemmo soli, con le mie sorelle, ed in preda alla disperazione: si sapeva benissimo che nella stragrande maggioranza dei casi chi veniva catturato non aveva scampo, anche se, come nel caso di papà, era immune da qualsiasi responsabilità ed aveva sempre operato per il bene comune. Non abbiamo mai saputo alcunché di ufficiale, ma è quasi certo che, al pari di altre decine di Rovignesi, anch’egli sia stato infoibato a Vines, presso Albona, dove parecchi decenni più tardi sono riuscito ad erigere una piccola croce sull’orlo della voragine che vide il sacrificio di tanti innocenti inermi, fra cui diversi dirigenti ed operai delle vicine miniere dell’Arsa.

In particolare, desidero ricordare il Direttore tecnico del grande complesso estrattivo, Ingegner Alberto Picchiani, che per sfuggire all’estremo oltraggio dei suoi aguzzini si gettò da solo nella foiba, ed il cui ultimo grido, come da testimonianze probanti, fu il suggello eroico di una vita spesa al servizio della Patria e del prossimo: «Viva l’Italia!».

I miei anni successivi, trascorsi a Pola, furono durissimi: dapprima per le vicende dell’ultimo periodo bellico, poi per i 40 giorni di occupazione titoista protrattasi sino a metà giugno del 1945, ed infine per i due anni sotto il Governo Militare Alleato, prima del trasferimento definitivo della sovranità a favore della Jugoslavia, avvenuto col trattato di pace del 10 febbraio 1947, e la sua effettiva vigenza dal 15 settembre, quando il Colonnello Inglese Bowman consegnò simbolicamente le chiavi della città ad Ivan Motika, che dopo parecchi anni sarebbe sfuggito al celebre «processo degli infoibatori» grazie alla surreale sentenza di non luogo a procedere, emessa paradossalmente da una Corte Italiana.

Fra tanti delitti e gli innumerevoli episodi di violenze, di oltraggi e di incomprensioni, mi limito a ricordare altre due vicende da cui fummo drammaticamente colpiti: la lunga prigionia della mia mamma, deportata dagli Slavi con l’accusa del tutto ingiusta – anzi, inventata di sana pianta – di essere una spia, sostenuta soprattutto dai comunisti rovignesi di etnia italiana, e la strage di Vergarolla del 18 agosto 1946, perpetrata dall’OZNA, la polizia politica del regime, a 16 mesi dalla fine della guerra, con l’intento di esasperare i nostri concittadini e di sospingerli alla scelta dell’Esilio, come avvenne di lì a poco quando oltre 9/10 dei Polesi abbandonarono la propria città con una scelta plebiscitaria, imbarcandosi per una sofferta diaspora.

Partirono tutti, dai possidenti ai pescatori ed ai proletari, e conferirono all’esodo da Pola – come a quelli da Fiume, dalla Dalmazia e dal resto dell’Istria – un carattere decisamente interclassista. Restarono solo i comunisti di provata fede, che costituivano una piccola minoranza, e diversi anziani in precarie condizioni di salute, spesso soli, che non si sentirono di affrontare i disagi della diaspora, poi rivelatisi peggiori del previsto, tanto che un quarto dei profughi optò per l’emigrazione in Paesi lontani, dove onorò la propria dignità nazionale, in taluni casi con significativi successi professionali.

Nel periodo di assenza della mamma, tradotta nelle carceri di Fiume, la mia sorella maggiore si prese cura della famiglia e non lasciò alcunché d’intentato per averne notizie e riportarla a casa, come effettivamente accadde, sia pure dopo parecchio tempo, grazie all’aiuto di Dio ed alla palese gratuità delle accuse che le erano state rivolte; poi, quando esodammo, avemmo il dolore aggiuntivo di una lunga e sofferta separazione, perché io venni ospitato nell’Orfanotrofio francescano del Lido di Venezia, dove sarei rimasto per parecchi anni, acquistando la qualificazione professionale in campo grafico che poi mi avrebbe consentito di lavorare e di avere una famiglia propria; mentre la mamma, per mantenere la sua precedente occupazione in Manifattura tabacchi, fu costretta al trasferimento in Puglia.

Quanto a Vergarolla, la spiaggia di Pola dove in quell’orribile domenica d’estate si disputavano le gare natatorie della Coppa «Scarioni» (una manifestazione sportiva d’interesse nazionale), lo scoppio di 28 mine di profondità contenenti ben 10 tonnellate di tritolo diede luogo ad una vera ecatombe: le vittime furono circa 110, come da verifiche testimoniali raccolte da Padre Flaminio Rocchi, senza contare un numero non meno elevato di feriti. Io mi salvai per miracolo, perché avevamo scelto un’altra destinazione grazie a Padre Albino, il frate francescano che si prendeva cura di noi.

Ricordo perfettamente il trauma di Pola, lo sconforto dovuto alla certezza di poterci salvare solo con la fuga, ed il naturale intuito circa la matrice del delitto. In effetti, parecchi anni più tardi, e più precisamente nel 2008, l’apertura degli Archivi Inglesi di Kew Gardens (Foreign Office) avrebbe confermato le responsabilità dell’OZNA, fino al punto da individuare persino gli autori materiali della strage. È bene aggiungere che quella di Vergarolla, quanto a numero di vittime, che fu possibile identificare solo in parte (la stele «ad memoriam» eretta a Trieste nella Zona Sacra di San Giusto riporta 64 nomi, in maggioranza di donne e bambini) perché molte vennero letteralmente polverizzate, fu la strage più grave avvenuta nel Novecento Italiano per cause non naturali, in tempo di pace: un autentico delitto contro l’umanità.

Oggi, dopo una lunga vita di lavoro, di affetti familiari perenni e di testimonianze a futura memoria, posso dire di aver trovato nella fede la forza morale per confrontarmi positivamente con una storia tanto tragica, anche sul piano individuale. Quella stessa fede che unitamente alla speranza mi conferisce la capacità di ricordare «con animo perturbato e commosso» la nobile figura del mio caro papà e l’esempio di vita della mia indimenticabile mamma; ma nello stesso tempo, di riflettere «con mente pura» sul destino del nostro popolo, immolatosi nel sacrificio dei 20.000 Martiri e dei 350.000 Esuli voluto da menti inique le cui vie infernali, come ebbe a profetizzare l’eroico Vescovo di Trieste e Capodistria, Sue Eminenza Monsignor Antonio Santin, non avrebbero potuto essere eterne. La Storia, giudice inflessibile e supremo, gli ha dato visibilmente ragione.

(febbraio 2018)

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