L’Esercito di Liberazione
La storia «semi-negata» delle forze armate del Regno del Sud, primo nucleo del futuro Esercito Italiano

Scorrendo un qualsiasi testo italiano sulla Seconda Guerra Mondiale, ampio risalto viene dato – per quanto riguarda la Campagna d’Italia del triennio 1943-1945 – alle gesta dei partigiani, alla loro attività sia sul piano bellico che su quello più strettamente politico, mentre all’Esercito di Liberazione (comunemente noto con la denominazione imperfetta di CIL, Corpo Italiano di Liberazione), ovvero la forza militare del cosiddetto Regno del Sud, sono dedicati solo pochi cenni, quando non viene taciuto del tutto. Nelle ricorrenti celebrazioni della lotta resistenziale, elogi e panegirici ai partigiani si sprecano, gli Anglo-Americani – che sono poi i reali fautori della liberazione d’Italia – sono nominati quasi di sfuggita, mentre l’Esercito di Liberazione non viene neppure citato.

Non è qui il caso di indagare in modo approfondito le cause di questo silenzio, che sono perlopiù politiche: le forze di Sinistra che dopo la guerra si arrogarono il diritto di riscrivere la Storia, non potevano ammettere che la lotta di liberazione fosse stata condotta da altre forze oltre alle loro; di qui la marginalizzazione del movimento resistenziale cattolico, che fu invece imponente, e l’esclusione dell’Esercito di Liberazione che era visto come un apparato troppo legato a Badoglio e alla Monarchia, quindi un qualcosa di «scomodo» o «stonato» in uno Stato ormai repubblicano. Quasi che la sua esistenza potesse in qualche modo rivalutare la figura del Re, oppure offuscare, anche di poco, il «fulgore» del movimento resistenziale comunista, che doveva essere considerato l’unico artefice della liberazione (così da dare maggior forza alla sua pretesa di legittimazione politica).

In questo breve saggio mi limiterò a parlare di ciò che l’Esercito di Liberazione ha rappresentato nella storia della Penisola.

Bisogna innanzitutto fare qualche necessario «distinguo» tra l’Esercito di Liberazione e il movimento partigiano:

1) l’Esercito di Liberazione era una struttura militare ufficialmente riconosciuta dagli Alleati e da loro legittimata, che combatteva al loro fianco e concordando con loro le azioni; i gruppi partigiani erano autonomi, molto di rado riconosciuti dagli Alleati e le loro azioni non erano quasi mai concordate con gli Anglo-Americani;

2) i soldati dell’Esercito di Liberazione vestivano una divisa e combattevano a viso scoperto contro il nemico; i gruppi partigiani non avevano divise immediatamente distinguibili (tanto che i Tedeschi li definivano «banditi») e rifuggivano dagli scontri frontali, preferendo le imboscate, gli attentati e le azioni di guerriglia;

3) l’Esercito di Liberazione seguiva il codice di procedura militare (non sempre però: a Codevigo, a guerra finita, uomini del Gruppo di Combattimento Cremona dell’Esercito di Liberazione e partigiani romagnoli guidati da Arrigo Boldrini assassinarono a sangue freddo 136 fascisti, tra cui donne e civili); molti gruppi partigiani di ispirazione comunista violarono tutti i codici di diritto militare, assassinando migliaia di persone – non tutte fasciste o colluse col fascismo – spesso dopo averle convinte a una resa onorevole, e in periodo di pace;

4) le azioni dell’Esercito di Liberazione non ebbero di regola alcuna conseguenza sulla popolazione civile; le azioni di molti gruppi partigiani furono fatte allo scopo principale di far scatenare tremende rappresaglie nazi-fasciste sulle popolazioni civili, per farle «scollare» dal Regime;

5) gli Alleati ebbero a più riprese parole di elogio e ammirazione per l’operato dell’Esercito di Liberazione; viceversa, diffidavano dei gruppi partigiani (non solo di quelli italiani, in verità, ma della compagine partigiana europea nel suo complesso) e della loro reale capacità di danneggiare il nemico nei luoghi e nei momenti opportuni, anche se non mancarono di rifornire le bande che potevano essere più consone ai loro obiettivi.

Veniamo ora alla sua storia. L’Italia annuncia la firma dell’armistizio con gli Alleati, tramite Badoglio, l’8 settembre 1943. I Tedeschi, che ne sono già stati informati, nei giorni successivi disarmano e catturano quanti più reparti dell’Esercito Italiano sia possibile, confidando anche sul fatto che l’armistizio è stato taciuto persino agli Alti Comandi, che si trovano senza indicazioni sulle decisioni da prendere: c’è così chi si arrende, chi si unisce ai Tedeschi, chi resiste, chi si dà alla fuga, chi si aggrega alle bande partigiane all’estero. Badoglio e il Re fuggono dalla Capitale rifugiandosi a Brindisi sotto la protezione degli Alleati e dando vita al cosiddetto Regno del Sud, un Governo del tutto illegittimo perché la sua elezione non è stata ratificata dal Parlamento, ma riconosciuto dagli Anglo-Americani e dai Russi. Il 29 settembre, Badoglio ed Eisenhower si incontrano a Malta dove viene firmato l’«armistizio lungo», un documento dal rigore totale e assoluto: assicura agli Alleati il completo controllo sulle attività amministrative del Governo Italiano, sulle banche, sui cambi, sulle relazioni commerciali; prevede la riconsegna immediata dei prigionieri anglo-americani in mano agli Italiani (senza menzione dello scambio inverso: in disprezzo delle garanzie della Convenzione di Ginevra, i prigionieri italiani vengono impiegati come manodopera sia in appoggio alle truppe combattenti, sia in attività produttive); introduce la censura sulla stampa e sulle rappresentazioni teatrali e cinematografiche, e il visto preventivo per l’espatrio dei cittadini italiani. Si tratta di imposizioni tali che, su richiesta di Badoglio, non vengono rese pubbliche, solo i Governi successivi a quello di Badoglio fino al 1947 ne vengono informati in via riservata.

Un altro problema riguarda l’apporto bellico dell’Italia a fianco degli Alleati: il Regno del Sud deve mostrare con i fatti e non solo a parole che l’Italia ha cambiato politica ed è tornata un Paese «rispettabile»; dal canto suo, Churchill ha detto che «gli Italiani ora devono pagarsi il biglietto di ritorno», ma frappone mille difficoltà (anche per le divergenze tra gli Americani, che puntano a una tutela politico-economica dell’Italia senza una dominazione diretta, e gli Inglesi, che ambiscono la completa egemonia nel Mediterraneo con una struttura nazionale italiana formalmente sovrana ma sotto il loro più completo controllo).

Così, il 13 ottobre, un riluttante Governo senza alcun potere effettivo ma solo formale è costretto a dichiarare, sotto la pressione alleata, la guerra alla Germania, vedendosi riconosciuto il ruolo di cobelligerante: ovvero, l’Italia è meno che alleata (non ha possibilità di decisioni autonome sui fini della guerra o su come essa viene condotta), ma partecipa alle operazioni belliche al fianco degli Alleati. Il Congresso Americano coglie l’occasione per indirizzare un messaggio al popolo italiano salutando il suo «ingresso nel consesso delle Nazioni libere», mentre Eisenhower riconosce come, a questo punto, alcune clausole dell’armistizio siano anacronistiche e non più valide.

Il problema è che per combattere una guerra si deve disporre di un esercito, e quello italiano è ridotto a ben poca cosa; oltretutto, non viene dato il permesso, dagli Alleati, di richiamare le truppe che stanziano in Sardegna, le migliori e le meglio organizzate di quelle disponibili (il Generale Mac Farlane ha parlato di unità «prevalentemente prive di mezzi di trasporto, avevano poco carburante e scarso munizionamento, l’armamento era tipo 1918»). Oltre ai problemi dell’equipaggiamento e del rifornimento, si devono raccogliere gli sbandati da inquadrare in nuove unità, provvedere alla ricostituzione degli organi direttivi (Ministero della Guerra, Comando Supremo, Stato Maggiore) e aspettare che giungano dalla prigionia i nuovi capi quali i Generali Messe, Berardi, Orlando e altri. Già il 27 settembre 1943, a San Pietro Vernotico in provincia di Brindisi, è stato costituito ufficialmente il primo nucleo di ciò che sarà nel dopoguerra il nuovo Esercito Italiano (oggi uno dei migliori al mondo come qualità delle persone e dei mezzi): il nome scelto è 1° Raggruppamento Motorizzato, definizione che sottintende la possibilità di un successivo ampliamento: comprende un reggimento di fanteria, uno di artiglieria, un battaglione anticarro, una compagnia del genio, i servizi; in totale, 5.000 uomini, con lo scudo sabaudo sulla manica e il giuramento di fedeltà al Re. La truppa viene da tutte le regioni d’Italia ed è un po’ raccogliticcia, ma di meglio non si riesce a fare. A comandarlo è il Generale Giacomo Zanussi, sostituito dopo pochi giorni dal Generale Vincenzo Dapino, proveniente dagli Alpini, costretto a una lunga serie di «trasferte» da Brindisi a Napoli per elemosinare dai Comandi Alleati permessi, materiali, armi.

Comunque, il Raggruppamento è sottoposto a un periodo di due mesi di addestramento e alla fine, il 14 novembre, è messo a disposizione del 2° Corpo d’Armata degli Stati Uniti d’America, comandato dal Generale Keyes; il 3 dicembre, entra a far parte dell’organico operativo della 36a Divisione USA. L’8 dicembre viene mandato al fuoco.

L’avanzata alleata nella zona del Garigliano è più difficile di quello che si è previsto, per problemi ambientali e militari. Il Generale Clark, comandante della 5a Armata Americana, parla di «un terreno tra i più difficili tra quelli incontrati poi e il tempo peggiore di tutta la campagna. La pioggia cadeva a torrenti, i veicoli sprofondavano nel fango fin sopra i mozzi delle ruote, le terre basse diventavano mari di melma e le retroguardie tedesche si trinceravano abilmente sulle alture per ritardare la nostra avanzata»; dal Tirreno all’Adriatico, nel punto più stretto della Penisola, i Tedeschi hanno approntato ben tre linee difensive senza punti chiave, sfondati i quali si determinasse il crollo dell’intero sistema, perché ogni montagna deve essere presa separatamente e ogni valle rastrellata con ripetuti attacchi di fanteria. L’obiettivo assegnato agli Italiani è Monte Lungo, una posizione-cardine a Oriente di Cassino, tenuta da reparti «Panzer Granadier»: un’altura brulla, rocciosa, che non offre né riparo né appigli tattici, e che i Tedeschi difendono con tenacia. Il promesso appoggio dell’artiglieria statunitense è del tutto insufficiente. Le unità della 36a Divisione Americana sono le prime a essere respinte, facendo così mancare ai militari del Raggruppamento la necessaria protezione sui fianchi. 1.500 soldati italiani si lanciano all’attacco sotto un fuoco di mortai pesanti, artiglierie e mitragliatrici che li colpiscono frontalmente e d’infilata dal vicino Monte Maggiore; riescono a occupare a colpi di bombe a mano la quota principale di Monte Lungo ma, di fronte al violento contrattacco nemico, sono costretti a ripiegare sulle posizioni di partenza. Sul terreno rimangono decine di morti e oltre 100 feriti; più di 100 uomini gettano le armi e si disperdono. Il 67° Reggimento Fanteria del Colonnello Bonfigli e il 51° Battaglione Bersaglieri escono «moralmente distrutti» per l’esito negativo di questo primo combattimento. Nonostante gli Americani (come anche i Tedeschi) provino in genere per gli Italiani «disprezzo come combattenti e benevolenza verso “brava gente” incapace di grandi cose», il «Times» ha ammesso, il 15 dicembre, che «gli Italiani hanno sofferto perdite pesanti […]. Essi avanzavano per la salita, alpini e bersaglieri, marciando dritti e cantando»; il giornale non ne mette in discussione il coraggio né il valore. Lo stesso Generale Walker, comandante della 36a Divisione, scrive due giorni dopo al comandante del Raggruppamento: «Ho appreso da parecchie fonti del magnifico comportamento delle vostre truppe, quando si lanciarono all’attacco di Monte Lungo. Vi prego di estendere ai vostri ufficiali e soldati le mie congratulazioni per l’entusiasmo, lo spirito e il magnifico coraggio dimostrati».

Il 16 dicembre viene sferrato un secondo attacco, questa volta ben coordinato, e i Tedeschi, battuti da un intenso fuoco di artiglieria e minacciati di aggiramento, dopo quattro ore di lotta feroce cedono all’assalto dei reparti italiani: Monte Lungo è conquistato e i dispersi sono solo 8. La bandiera italiana e quella americana sventolano, per la prima volta unite, sulla cima del monte conquistato, a conclusione di combattimenti che sono costati 79 morti e 89 feriti. Il Generale Americano Clark telegrafa a Badoglio che «la ferrea volontà dei soldati italiani […] può ben essere presa ad esempio da tutti i popoli europei che combattono l’oppressione tedesca».

Il 26 marzo 1944 il Raggruppamento, che ora conta dai 9.000 ai 10.000 uomini, passa alle dipendenze della 5a Divisione Polacca inquadrata nell’8a Armata Britannica; viene schierato fra Monte Marrone e Monte La Rocca (colli del Volturno). Il 31 marzo gli viene ordinato di espugnare Monte Marrone: approfittando di un fittissimo velo di nebbia, gli alpini del Battaglione Piemonte attaccano di sorpresa e frontalmente il massiccio, mentre pattuglie del 45° Battaglione Paracadutisti operano sul fianco dello schieramento nemico. I Tedeschi abbandonano rapidamente le posizioni, ma all’alba del 10 aprile tentano una controffensiva; gli uomini della Wehrmacht sono prima bloccati dagli alpini, poi costretti alla fuga abbandonando sul terreno morti e molto materiale bellico. Radio Londra, in tre trasmissioni successive, parla delle «virtù militari del soldato italiano quando sappia di combattere per una causa giusta», mentre il «Corriere Alleato» parla di «esempio di come uomini adatti, adoperati in uno speciale lavoro e al tempo giusto, possono portare ad una brillante riuscita»; il Comando Militare Polacco e quello dell’8a Armata hanno parole di ammirazione per i soldati del Raggruppamento. Le riserve degli Alleati sul ruolo militare italiano si attenuano, mentre già da febbraio sono stati trasferiti all’amministrazione italiana i territori liberati, escluse le zone poste nelle immediate vicinanze del fronte. Il comando dell’unità passa dal Generale Dapino al Generale Umberto Utili: un uomo piccolo, rubicondo, energico e ostinato, che ha capacità, grinta e personalità.

Il 18 aprile nasce il Corpo Italiano di Liberazione, un vero corpo d’armata, forte di 25.000 uomini di tutte le armi e specialità, compresi i marinai del Reggimento San Marco; dalla Sardegna si aggiunge il grosso della Divisione Paracadutisti Nembo, sulla cui efficienza bellica non ci sono dubbi. Gli è assegnato un settore di fronte tra la 2a Divisione Neozelandese e la 24a Brigata Inglese delle Guardie. Sono ancora gli alpini e sferrare con successo un nuovo attacco e a penetrare in profondità nel dispositivo di difesa tedesco.

Poi il Corpo Italiano di Liberazione viene spostato sulla destra del fronte e per tutto il mese di giugno continua a combattere e avanzare, dalla Majella a Macerata; gli uomini si battono bene, il che dimostra che nelle truppe lo spirito di corpo e il sentimento dell’onore non sono solo parole vuote. I Comandi Alleati hanno ormai modificato il loro giudizio sugli Italiani e, oltre agli elogi, diventano più generosi nelle assegnazioni di materiale anche grazie all’amicizia personale che si è stabilita tra Utili e Clark, comandante della 5a Armata degli Stati Uniti.

Nella prima decade di luglio i paracadutisti della divisione Nembo, affiancati da alcune unità polacche del Generale Anders, sconfiggono a Filottrano due battaglioni del 994° Reggimento di fanteria tedesco, perfettamente armati e rinforzati da carri armati, autoblinde e pezzi controcarro. La strada per Ancona è aperta. Ha ricordato il Colonnello Leandro Giaccone, che vi combatté, che «la battaglia era stata durissima. La metà dei difensori erano morti, o feriti, o prigionieri: anche le perdite della Nembo erano state pesanti, più di 300 tra morti e feriti». Il 30 agosto, i ragazzi del Corpo Italiano di Liberazione sono mandati nelle retrovie per riposare. Qui hanno una gradita sorpresa: cambiare le loro divise grigioverdi, ormai sdrucite, per indossare quelle inglesi, più pratiche, con un piccolo tricolore sulle maniche dei giubbotti; qualche perplessità suscita solo l’elmetto a catinella, superata con quattro risate.

Questo non deve indurre a credere che gli Americani abbiano mutato del tutto il loro atteggiamento di cautela rispetto al problema della ricostituzione delle forze armate italiane: subordinano le proprie scelte alle esigenze operative del momento e impiegano quasi metà degli uomini disponibili in compiti di manovalanza, carico e scarico di materiali, lavori del genio e altri servizi. Ma dopo lo sbarco in Provenza e l’invio su quel fronte di divisioni americane e francesi tolte dalla Penisola, nell’autunno gli Alleati si trovano impegnati contro la Linea Gotica con un ridotto numero di forze: da costa a costa, i Tedeschi hanno rinforzato le posizioni naturali favorevoli con ridotte fortificate, fosse anticarro, estesi campi minati, bunker, torrette di carri interrate (un rapporto relativo alle opere di difesa, steso all’inizio del settembre 1944, elenca 2.376 appostamenti di mitragliatrici, 479 posizioni per cannoni anticarro, per mortai e per cannoni d’assalto, 120.000 metri di filo spinato e molti chilometri di fosse anticarro); a questo si aggiungono le difficoltà di trasporto in un terreno che le abbondanti piogge autunnali hanno reso fangoso, bloccando quasi completamente il movimento dei veicoli, sia a cingoli che a ruote, fuori dalle strade disponibili. A questo punto gli Anglo-Americani varano un nuovo programma per l’Esercito Italiano, sancendo la nascita dei Gruppi di Combattimento, vere e proprie divisioni, aggregati parte alla 5a Armata Americana, parte all’8a Armata Britannica: Legnano, Folgore, Friuli, Cremona, Piceno e Mantova, 60.000 uomini in tutto. Dopo due mesi di addestramento vengono mandati al fronte e, per primo, il Cremona entra in combattimento il 18 gennaio 1945; dal 2 al 3 marzo conduce un’azione offensiva nella zona a Sud del Po di Primaro che elimina un pericoloso saliente tedesco, e che contribuisce a sfatare la leggenda della superiorità assoluta del soldato germanico.

Una questione di difficile soluzione riguarda quei partigiani che, costretti dai Comandi Alleati a consegnare le armi man mano che i territori dove operano vengono sgombrati dai Tedeschi, chiedono di arruolarsi nell’esercito regolare per continuare la guerra di liberazione: gli Americani paventano l’inserimento di gruppi organizzati e politicamente orientati, poco controllabili, e stabiliscono che nell’esercito debba essere immesso un numero di partigiani limitato, che l’arruolamento debba essere rigorosamente individuale, che nessuna formazione possa conservare la propria struttura ed essere incorporata come tale. Scoraggiano l’arruolamento, i tempi di attesa troppo lunghi dopo la presentazione, la scarsezza delle razioni di viveri e del vestiario, il trattamento di sospetto (interrogatori come se si fosse prigionieri di guerra), immediato scioglimento delle bande partigiane. Solo nel gennaio 1945 gli Alleati cominciano a essere meno riluttanti, dato che l’inserimento sembra il mezzo migliore per riuscire a controllare la massa dei partigiani e impedire che trattengano le armi.

Alle ore 8 del mattino del 21 aprile, il primo plotone motorizzato del Gruppo Legnano ed elementi del Friuli entrano a Bologna. I Tedeschi se ne sono andati da poche ore, i partigiani non arriveranno che nel pomeriggio, e la gente è in strada per vedere quegli «Inglesi» con la divisa cachi e la catinella in testa; poi si accorge del piccolo tricolore sulla manica, capisce di chi si tratta e impazzisce di gioia.

Reparti del Gruppo Folgore e dello squadrone F si sono lanciati fin dal giorno precedente, col paracadute, tra Mirandola e Ferrara. Le forze nemiche, prese alle spalle, scompaginate e sorprese nei loro movimenti, lasciano in mani italiane oltre 2.000 prigionieri e una gran quantità di materiale. Il Comando dell’8a Armata invia un elogio dicendosi «pieno di ammirazione per la superba maniera con la quale era stato portato a termine l’ardito compito» e «orgoglioso di avere il valoroso reparto tra i combattenti dell’armata».

Il 29 aprile reparti del Gruppo Cremona, dopo aver compiuto in soli sette giorni un’avanzata di oltre 100 chilometri, superando fiumi e canali con scarsi mezzi di circostanza e scontrandosi con l’ostinata resistenza delle retroguardie nemiche, entrano prima in Mestre e poi in Venezia, acclamati freneticamente dalla popolazione. Nello stesso giorno il Generale Von Senger e il Colonnello Dollmann firmano dinanzi agli Alleati l’atto di resa di tutte le truppe tedesche ancora in Italia, circa un milione di uomini.

Va fatto un cenno anche al contributo della marina e dell’aeronautica. La prima, che mette a disposizione degli Alleati circa il 65% delle proprie unità da guerra, portate nei porti indicati dagli Anglo-Americani sotto le bombe degli aeroplani tedeschi, viene impiegata per trasportare uomini e materiali attraverso il Mediterraneo, scortare i convogli sulle rotte che dall’Africa Settentrionale e da Malta si dirigono verso i porti continentali, dragare le zone minabili, dare la caccia ai sommergibili nemici, soccorrere i naufraghi, fare ricognizioni; sul piano più strettamente militare, si va dalle occupazioni di isole egee e ioniche all’effettuazione di bombardamenti costieri nel Mediterraneo, fino alla caccia di navi corsare tedesche nell’Atlantico. Tra le missioni speciali, vanno annoverati lo sbarco e il recupero di informatori e sabotatori sulle coste controllate dal nemico, lo sbarco di materiali destinati ai patrioti, l’appoggio a operazioni dei mezzi d’assalto, i rilievi idrografici di tratti costieri controllati dal nemico in preparazione di sbarchi alleati e le missioni di collegamento e appoggio di pattuglie durante le operazioni appena menzionate. In un discorso del 5 giugno 1945 alla Camera dei Comuni, Churchill riconosce che «la resa della flotta italiana fu accettata dall’Ammiraglio Sir Andrew Cunningham a Malta e deve essere considerata un onorevole avvenimento marittimo. La sua immissione nel complesso delle forze navali alleate fu allora senz’altro di aiuto». Diversa è la situazione delle forze aeree, ridotte al momento dell’armistizio a non più di un centinaio di apparecchi efficienti, anche se in seguito aumentati sia per il recupero di materiale in Africa Settentrionale e in Italia Meridionale, sia per la cessione da parte di Inglesi e Americani di alcuni velivoli modello Aircobra, Spitfire e Baltimore: le missioni vanno dal sostegno ai reparti italiani e ai gruppi partigiani nell’area balcanica con il bombardamento degli obiettivi tedeschi e ai lanci di materiali ai resistenti, al lancio di paracadutisti sabotatori e di manifesti di propaganda nei territori della Penisola occupati dai Tedeschi.

L’Esercito di Liberazione ha pagato un altissimo tributo di sangue, soprattutto in rapporto ai suoi effettivi: 10.000 morti e 60.000 feriti. Cifre che, pur nella loro aridità, ci danno testimonianza di storie di coraggio, ardimento e spirito di sacrificio.

La liberazione del territorio italiano, alla quale hanno dato un contributo efficacie le forze militari regolari più che i partigiani, pone numerosi e importanti problemi: quello delle future sorti della Venezia Giulia, dove avanza le sue pretese Tito e dove il territorio è stato occupato in parte da truppe italiane, in parte da forze jugoslave, e la revisione delle condizioni dure dell’armistizio del 1943.

Al Governo Italiano viene conferita una maggiore autonomia nella politica estera, commerciale e finanziaria, restituendo il territorio della Penisola all’amministrazione italiana. È fin dai giorni successivi al termine delle ostilità in territorio italiano che autorevoli personalità alleate ammettono, più o meno esplicitamente, che la situazione del Paese nel consesso internazionale deve essere sottoposta a una revisione sollecita e progressiva: il 4 maggio l’Ambasciatore Britannico a Roma, Sir Noel Charles, dopo essersi congratulato «per la liberazione del territorio italiano dal comune nemico, e particolarmente per la parte svolta dalle forze regolari italiane e dai patrioti», soggiunge di «guardare con fiducia al momento, che non potrà essere a lungo ritardato, nel quale l’Italia, le cui forze hanno cooperato in guerra con quelle delle Nazioni Unite, sarà chiamata a collaborare con le Nazioni Unite stesse nelle più feconde opere della pace». Il Maresciallo Alexander dichiara che «l’Italia si è pienamente riabilitata dal giorno in cui si schierò al fianco delle Nazioni Unite, in qualità di cobelligerante. Dal punto di vista militare, le clausole segrete dell’armistizio hanno perduto ogni valore». Lo stesso Presidente Americano Roosevelt aveva affermato: «Nel difficile processo della sua ricostruzione, l’Italia può contare su di una risorsa indistruttibile: le grandi qualità del suo popolo […]. Noi abbiamo fiducia che l’Italia saprà costruire per sé e aiuterà l’Europa a costruire un’organizzazione politica e sociale degna del cuore e della mente del suo popolo». Sono stati fatti alcuni passi in questo senso, ma molti altri ne restano da fare; sta a noi fare in modo che queste parole non rimangano solo scritte sulla carta, ma si trasformino in realtà tangibili.


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(novembre 2022)

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