Un esempio del martirologio femminile nella Repubblica Sociale Italiana
La tragica odissea di Maria Meneghini Locarno

Al pari di tante altre, la storia della Repubblica Sociale Italiana è anche quella di tante vicissitudini personali che finirono in tragedia, a danno di persone che spesso non avevano colpe, se non quella di essersi trovate dalla cosiddetta parte sbagliata nel momento sbagliato. Un caso esemplificativo che vale la pena di portare alla luce a circa un ottantennio dai fatti, anche perché dimenticato, non soltanto dalla grande storiografia, è quello di Maria Meneghini Locarno, uccisa dai partigiani di Arsiero (Vicenza) nella plumbea primavera del 1945, dopo vessazioni inenarrabili.

Nel caso di specie, al silenzio delle fonti di maggiore diffusione[1] ha sopperito la dettagliata testimonianza di Lino Cecchin, Ispettore della FNCR preposto al recupero delle spoglie mortali di caduti spesso senza tomba, che nel decennale dei fatti, vale a dire nell’aprile del 1955, volle testimoniare a futura memoria le efferatezze di cui la signora Meneghini in Locarno, madre di due figli in giovane età, fu vittima sacrificale prima di incontrare una morte che, nella fattispecie, non è azzardato definire liberatrice.

Il 29 aprile 1945 la guerra era appena terminata in Italia, anche se gli ultimi colpi continuavano a essere sparati dalle retroguardie tedesche in ritirata, e soprattutto dalle formazioni partigiane, ebbre di vittoria, che in diversi casi non avrebbero esitato a macchiarsi di quelli che oggi possono essere definiti crimini contro l’umanità, con una qualifica tanto più attendibile proprio per l’avvenuta dichiarazione di chiusura delle ostilità, espressa da entrambe le parti in causa. Al contrario, proprio quel giorno Maria fu oggetto di cattura da parte dei «combattenti per la libertà» che, come emerge dal rapporto Cecchin, erano diventati padroni del Paese «ergendosi a giustizieri, abrogando la legge e reggendosi sul pavido appoggio degli uomini che reggevano le sorti del Paese».

Come spesso accadeva in quei momenti oltremodo drammatici, Maria fu arrestata assieme alla figlia maggiore Lucia, con l’accusa – all’epoca imperdonabile – di essere stata la Segretaria locale del Partito Nazionale Fascista, sebbene varie testimonianze potessero attestare che il suo compito era stato svolto a fin di bene, e nell’interesse generale, con particolare riguardo alla tutela dei più bisognosi. Certamente «non era venuta meno alla sua dignità d’Italiana» ma non era una delatrice, e nemmeno una persona che si fosse battuta contro coloro che ormai da qualche tempo erano impegnati sull’altro fronte, galvanizzati dal supporto militare degli Alleati, e dalla loro pur lenta avanzata che li aveva portati sulla Linea Gotica sin dall’autunno dell’anno precedente.

Subito dopo l’arresto, pur essendo di età relativamente matura, essendo nata nel 1886 (e coniugata nel 1912), fu bastonata a sangue, oggetto di ogni sorta di dileggi, e imprigionata negli scantinati del Municipio di Arsiero. Poi fu trasportata in una vecchia struttura ospedaliera resa inservibile dalle forze tedesche in ritirata: aveva già subito il taglio integrale dei capelli secondo una prassi ormai diffusa, e camminava faticosamente a causa delle angherie che aveva già dovuto sopportare, quando fu sottoposta al «giudizio» di un improvvisato tribunale popolare composto dal medico condotto, dal farmacista e da diversi partigiani, ivi compreso un ex Commissario Prefettizio della Repubblica Sociale Italiana che era stato particolarmente abile nell’arte del riciclaggio.

Nella predisposizione della sentenza stava prevalendo il buon senso, ma gli elementi oltranzisti riuscirono ugualmente a imporsi con probabile ricorso alla minaccia. Un elementare senso di carità e riservatezza esime dal riferire circa i nuovi oltraggi: tra l’altro fu fatta procedere a piedi nudi e semivestita, fino al valico sovrastante Arsiero, e costretta a raggiungere la frazione di Strenta, non senza subire nuove oscenità, mentre il partigiano Lino Fontana (nome di battaglia Spada), incaricato di comandare il plotone d’esecuzione, non disdegnava di continuare a tormentarla con lo scudiscio. Come se tutto ciò fosse ancora poco, un partigiano si fece premura di piantarle un coltello nella schiena.

Ormai impossibilitata a procedere, fu trascinata fino al luogo prescelto per l’estremo sacrificio, ma il plotone, colpito da un pur tardivo senso di «pietas», non volle sparare, costringendo il comandante a disporre perché l’opera fosse compiuta da un giovane partigiano quattordicenne presente alla scena, che avrebbe eseguito l’ordine scaricando a più riprese il mitra sul corpo esanime della sventurata.

Era il 6 maggio, a pochi giorni dalla tanto vagheggiata «liberazione», come emerge dall’atto di morte presente negli archivi del Comune: ciò significa che la sua «via crucis» si era protratta per un’intera settimana, senza che nessuna autorità, o presunta tale, potesse o volesse intervenire a fronte di quello scempio...

La testimonianza di Lino Cecchin prosegue con vari dettagli allucinanti, tra cui la sottrazione della fede nuziale all’infelice defunta, ma qui basta rammentare che le spoglie di Maria furono lasciate per tre giorni alle intemperie, riducendole in condizioni a più forte ragione pietose, donde l’invito di procedere alla sepoltura, rivolto a una signora del luogo. Contemporaneamente, la figlia Luciana fu rilasciata dalla prigione di Velo d’Astico, dove nel frattempo era stata rinchiusa senza alcuna motivazione personale, ma non senza percosse, una conseguente contusione al polmone, febbre e malessere generale.

Il calvario di Maria, paradossalmente, sarebbe proseguito anche al cimitero, dove la sua tomba fu ripetutamente sfregiata da una donna locale, Maria Fabrello. Dal canto suo, nel citato memoriale del 1955, Lino Cecchin ha continuato ad auspicare che dopo tanti anni sia resa giustizia, se non altro a conforto dei figli orfani. Purtroppo, non è stato così, se non in una memorialistica largamente e tristemente tardiva, e nella presunzione, formulata dallo stesso Ispettore Cecchin[2], che la compianta Maria abbia perdonato i suoi assassini «dal cielo degli Eroi». Non altrettanto, a suo giudizio, avrebbero potuto fare i superstiti, cui compete di onorare la fede con cui Maria si era distinta nell’allucinante sopportazione del martirio, guadagnando «le vie della Gloria».

La testimonianza dell’olocausto di Maria, emersa dalle brume del tempo con tutto il peso del suo dramma indescrivibile nei tanti dettagli, è destinata a diventare un paradigma di riferimento anche per i casi analoghi, a prescindere dai particolari circa il suo tragico destino, per cui si fa rinvio alla testimonianza in parola. Basta ricordare, invece, che quella pagina di storia grida tuttora vendetta, non già nei confronti di singoli protagonisti ormai «andati avanti» quanto nel senso di un giudizio etico che trascende il tempo e lo spazio, e che riguarda il comportamento collettivo di un tranquillo abitato delle Prealpi Venete. Qui, lo sconvolgimento abissale indotto dalle circostanze belliche avrebbe comportato il ripudio, in qualche misura incredibile, di antiche consuetudini moderate, facendo retrocedere una quota non certo marginale di uomini e donne al rango dei «bestioni di tutta ferocia» di cui all’immaginifica definizione di Giambattista Vico.

Purtroppo, come si diceva in premessa, il caso di Maria Meneghini Locarno non è isolato; al contrario, è una goccia nel mare delle troppe violenze che caratterizzarono l’Italia dell’epoca non meno che il resto dell’Europa e del mondo, e che offrono uno spaccato di vita quotidiana destinato alla riflessione più matura sulla «crudele guerra» di petrarchesca memoria, caratterizzata da delitti di gran lunga superiori alla materia del contendere, o meglio, senz’altro incomparabili.

Nel celebre saggio del 1991 sulla «moralità della Resistenza» in cui Claudio Pavone[3] aveva fatto il punto sulla sua triplice natura etica e politica (lotta di liberazione dal giogo tedesco, guerra civile tra Italiani, e antitesi di classe tra proletariato e borghesia) si erano ammesse, per la prima volta, oltre alle colpe della «parte sbagliata», anche talune responsabilità di quella «giusta», pur nella distinzione fondamentale tra le forze in campo. In realtà, nello stesso caso personale di Maria Meneghini Locarno, anche il comportamento del plotone d’esecuzione che si rifiutava di sparare (come in quello assai più noto dell’Ausiliaria e Medaglia d’Oro al Valore Franca Barbier, per cui il comandante partigiano fu costretto a sopperire con un colpo di rivoltella alla nuca della condannata) può attestare che la questione della moralità non era un semplice «noumeno» ma poteva trovare effettive manifestazioni sul campo, sebbene naturalmente velleitarie, come nelle fattispecie in esame.

A distanza di quattro quinti di secolo, esistono ancora problemi piuttosto ragguardevoli nella logica di una conciliazione nazionale che muova da valutazioni storiche veramente oggettive. Nondimeno, è sempre auspicabile che i giudizi siano improntati all’imperativo di Tacito secondo cui «chi professa incorrotta fedeltà al vero, di ciascuno deve parlare senza amore e senza odio»: cosa non facile ma pur sempre fattibile, almeno nell’intento di prevenire una «damnatio memoriae» di natura pregiudiziale, e proprio per questo, antistorica.

Ammesso e non concesso che la storia possa essere «maestra di vita» secondo il convincimento di Tucidide, tanto più velleitario tenuto conto che da millenni si continuano a ripetere gli stessi errori del passato, l’assunto dell’antico storico ellenico può essere accettato, sia pure alla luce dell’idea contemporanea secondo cui la politica della pace dovrebbe essere il momento essenziale nel comportamento degli Stati, e per essi, delle rispettive classi politiche. Padre Ernesto Balducci[4], il celebre profeta fiorentino del «secolo breve», dopo le tragedie delle due guerre mondiali aveva vagheggiato il sogno utopistico di una «Repubblica universale» che allo stato attuale delle cose si colloca in tempi millenari, ma che può diventare un tantino più praticabile nel perseguimento di un mondo collaborativo, capace di darsi un minimo comune denominatore in quel ripudio della guerra che – almeno a parole – trova spazio nelle Costituzioni moderne, a cominciare da quella italiana.

Con tutte le sue aberrazioni, proprio il «secolo breve» sembra aver dato ragione a quel grande conoscitore dell’animo umano, e soprattutto della sua parte inconscia, che fu Sigmund Freud, quando affermava che la vita umana è cosa «grottesca, inutile e senza senso», con un’aggettivazione talvolta comprensibile ma certamente inaccettabile in un’ottica più generale. In effetti, una concezione materialistica come quella formulata dal «padre» della psicanalisi non sembra avere diritto di cittadinanza, sia nelle rinnovate attese spirituali del mondo, sia nell’ambito della cooperazione internazionale. Da questo punto di vista, la memoria di tragedie ancora recenti come quelle individuali e collettive che hanno accompagnato il Secondo Conflitto Mondiale, induce spunti di riflessione non effimera e invita, per citare ancora Vico, a ragionare «con mente pura».


Note

1 La storia di Maria Meneghini Locarno, come quelle relative a tanti caduti del Secondo Conflitto Mondiale, è praticamente ignorata dalla storiografia di riferimento e dalle stesse informazioni «online». A più forte ragione, si è ritenuto congruo e funzionale mutuare dai ricordi di Cecchin una sintesi, per quanto possibile esauriente, del dramma umano e civile vissuto da questa donna che aveva avuto la «colpa» di prestare la propria opera nell’ambito di una piccola Segreteria politica locale come quella di Arsiero, dedicandosi, come da predetta testimonianza, soprattutto a compiti di beneficenza. Secondo un’altra fonte più recente, nel breve periodo intercorso fra la primavera del 1944 e quella del 1945, Maria fu anche Ausiliaria, verosimilmente con analoghe mansioni e visioni (confronta Marco Pirina, Donne nella guerra civile italiana tra Gladio e Stella Rossa (1943-1945), Edizioni del Centro Studi e Ricerche «Silentes Loquimur», Pordenone 2008, 336 pagine, parte prima).

2 La testimonianza di Cecchin, predisposta a dieci anni dei fatti, contiene talune imprecisioni, tra cui quella relativa ai cognomi di Maria da nubile e coniugata, il cui ordine vi è stato invertito. Inoltre, si sofferma su particolari che, alla luce di dettagli sin troppo «coloriti» ma ininfluenti ai fini dell’interpretazione storica, non hanno trovato spazio nella presente sintesi, pur costituendo la prova di indicibili efferatezze.

3 Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Collana Nuova Cultura, Edizione Bollati Boringhieri, Torino 1991, XIV-826 pagine.

4 Padre Ernesto Balducci (Santa Fiora 1922-Cesena 1992) è stato un sacerdote appartenente all’Ordine degli Scolopi, dedito all’insegnamento e alla riflessione, assai vicino al mondo dei cattolici «democratici» fiorentini e in modo particolare a Giorgio La Pira, avendo espresso sin dalla giovinezza forti attenzioni per la povertà, in particolare nel «suo» comprensorio nativo, quello dell’Amiata. Per le posizioni assunte sull’obiezione di coscienza a proposito del servizio di leva fu allontanato per diversi anni da Firenze, sede del proprio insegnamento, e destinato prima a Frascati e poi a Roma, sviluppando un forte apporto al dialogo per la pace. Negli ultimi anni fu particolarmente impegnato nel pensiero universalistico.

(giugno 2023)

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