Le cifre della Resistenza
Consistenza, tattiche e risultati della guerra partigiana sul fronte italiano

Ci sono tematiche che da decenni occupano una parte non indifferente del dibattito storiografico, soprattutto in prossimità di alcune date commemorative: così, in concomitanza o vicinanza del 25 aprile, si odono più che in ogni altro momento dell’anno termini altamente «suggestivi», quali «Resistenza» o «liberazione», magari persino «riconciliazione». Purtroppo, spesso questi termini e la lettura che viene fatta degli eventi collegati, ormai sedimentata nelle coscienze popolari fino a diventare «patrimonio collettivo», corrisponde assai poco alla realtà storica. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.

Iniziamo con il delineare il periodo preso in esame. Quel lungo lasso di tempo che va dall’annuncio dell’armistizio di Cassibile tra Italia e Alleati (8 settembre 1943) alla resa di Caserta (2 maggio 1945) viene comunemente definito (e a ragione) non tanto «guerra resistenziale» ma «guerra civile», ed è uno degli aspetti (il più brutale) della Campagna d’Italia. La guerra civile vide schierati da una parte la Repubblica Sociale Italiana con capitale Salò (supportata dalla Germania) e dall’altra la Resistenza partigiana e il Regno del Sud (supportati dagli Alleati). Si concretizzò in scontri armati nell’Italia Centrale e Settentrionale, e in occasionali azioni fasciste di propaganda, spionaggio e sabotaggio nel restante territorio della Penisola.

Nei giorni immediatamente successivi all’armistizio, con l’eclissi del potere dello Stato, iniziarono a delinearsi due schieramenti, i partigiani e i fascisti, entrambi convinti di rappresentare legittimamente l’Italia: la decisione della scelta di campo fu resa maggiormente drammatica per la solitudine in cui avvenne, in quanto di fronte al crollo dello Stato non esisteva più la possibilità di rifarsi a un’autorità, ma solo ai propri valori. Particolarmente drammatica fu la sorte dei militari italiani, sorpresi da un armistizio di cui nessuno aveva avuto sentore, neppure i Generali: più di 700.000 furono catturati dalle forze armate germaniche; di essi circa 186.000 scelsero di collaborare a vario titolo con i Tedeschi, mentre per i rimanenti si spalancano le porte dei Lager: di questi ultimi, 33.000 non fecero più ritorno in patria.

Il conflitto civile fu combattuto principalmente tra fascisti e partigiani, e raramente coinvolse in scontri diretti le forze armate della Repubblica Sociale Italiana e del Regno del Sud: entrambi i contendenti in linea di massima evitarono perfino di schierare i propri reparti al fronte davanti a reparti dell’altro. In alcuni casi tuttavia soldati italiani si trovarono dinnanzi altri soldati italiani: per esempio, il Gruppo Battaglioni «Forlì» della Repubblica Sociale Italiana ebbe di fronte i marò del Gruppo di Combattimento «Folgore» del Regio Esercito, coi quali vi furono scontri con morti e feriti. Più articolata e problematica è la questione dei rapporti segreti fra Salò e Brindisi per pianificare – verso la fine del conflitto – un’azione comune di sbarco in Istria, onde scongiurare il pericolo dell’invasione iugoslava. Contatti diretti fra emissari di Borghese e il capitano di vascello Agostino Calosi, nonché con Ivanoe Bonomi e l’Ammiraglio De Courten non condussero tuttavia ad alcun risultato, per l’opposizione della Germania e della Gran Bretagna, che per motivi diversi non gradivano la presenza italiana in Venezia Giulia. Così quella regione fu abbandonata alla ferocia jugoslava e migliaia di civili innocenti persero la vita.

Parliamo dei partigiani. I primi nuclei del movimento partigiano si costituirono attorno a Boves (Piemonte) e a Bosco Martese (Abruzzo); altri gruppi, prevalentemente comunisti e collegati con i partigiani jugoslavi, nacquero o si rafforzarono in Venezia Giulia; altri ancora si formarono attorno ai soldati alleati, iugoslavi e sovietici prigionieri di guerra, rilasciati o sfuggiti alla prigionia. Questi primi nuclei subirono la dura e immediata repressione tedesca e molti si disgregarono in breve tempo. In particolare, a Boves – durante un’operazione di contro-guerriglia – soldati tedeschi commisero la loro prima strage sul territorio italiano. Il movimento partigiano «organizzato», che si rifaceva al Comitato di Liberazione Nazionale con la Presidenza di Ivanoe Bonomi (PDL), fu segnato da contrasti interni e con gli Alleati. Il Partito Comunista Italiano premeva perché si prendessero iniziative autonome («È necessario agire subito e il più ampiamente e decisamente possibile perché solo nella misura in cui il popolo italiano concorrerà attivamente alla cacciata dei Tedeschi dall’Italia, alla sconfitta del nazismo e del fascismo, potrà veramente conquistarsi l’indipendenza e la libertà. Noi non possiamo e non dobbiamo attenderci passivamente la libertà dagli Angloamericani». Pietro Secchia, Agire subito da «La nostra lotta», numeri 3-4, novembre 1943); al contrario, gli Alleati non credevano nelle possibilità di successo di una guerriglia locale, tanto che inizialmente il Generale Harold Alexander invitò i partigiani a posticipare gli attacchi contro i nazisti. Questa diffidenza degli Alleati nei confronti del movimento partigiano non era una «peculiarità» italiana, ma investiva tutto il fronte europeo: soprattutto, si diffidava dell’utilità dei partigiani francesi.

La guerra partigiana si concretizzò subito come una guerra fondata sul terrore, almeno da parte dei gruppi comunisti: «Alla prepotenza del nazismo che pretende di ridurre in servitù con la violenza e il terrore, dobbiamo rispondere con la violenza e il terrore» era l’appello del Partito Comunista Italiano al popolo, nel settembre 1943. Mentre il 16 ottobre il Comitato di Liberazione Nazionale diramava un comunicato, il primo di rilevanza politico-operativa, in cui si respingevano gli appelli alla riconciliazione lanciati dagli esponenti della Repubblica Sociale Italiana, per evitare il baratro della guerra civile.

Una parte della storiografia, soprattutto di stampo marxista, ha giustificato l’azione gappista che pianificava attentati e agguati nelle città come una missione di «giustizia» contro la prepotenza e il terrore nazifascista, ponendo l’accento su come gli obiettivi da colpire privilegiassero ufficiali, gerarchi, collaborazionisti, agenti prezzolati per denunciare uomini della Resistenza ed Ebrei, informatori della polizia nazista e delle organizzazioni repressive della Repubblica Sociale Italiana, rivendicando pertanto una sostanziale differenza con il terrore nazifascista, che invece sarebbe risultato indiscriminato agli occhi della popolazione; la memorialistica partigiana insiste sull’«eliminazione di nemici particolarmente odiosi», quali torturatori, spie, provocatori: alcuni ordini diramati dai comandi partigiani insistono sulla necessità di evitare di colpire gli innocenti, fornendo invece elenchi delle persone da colpire in quanto «individui meritevoli di punizione». Ma già in tempo di guerra vi fu chi notò che accanto a queste azioni venivano pianificate ed effettuate eliminazioni di quegli elementi del fascismo repubblicano più disposti al compromesso e alla trattativa, tra i quali il filosofo Giovanni Gentile, assassinato a tradimento sotto gli occhi del figlio; l’uccisione di quest’ultimo, particolarmente brutale, spaccò il fronte antifascista ed è tuttora al centro di polemiche.

Il più scottante dei problemi legati alla guerra civile in Italia è quello delle rappresaglie, delle loro cause e delle loro conseguenze. Per la storiografia di Sinistra, le rappresaglie erano stragi che testimoniavano la rabbiosa impotenza di nazisti e fascisti e la loro bestialità nei confronti di una popolazione che li odiava. In realtà, oggi si sa che le rappresaglie erano scientificamente cercate dai partigiani del Partito Comunista Italiano, attraverso azioni e attentati volti a colpire gli elementi più moderati del fascismo repubblicano e a scatenare quelli più intransigenti e i Tedeschi. Se è vero che le azioni di rappresaglia erano dovute in parte al nichilismo del fascismo repubblicano, al «bisogno di vendetta» generalizzato, alla scarsa considerazione che godevano gli Italiani di fronte ai Tedeschi dopo l’8 settembre, bisogna però riconoscere la strategia perseguita dalle forze della Resistenza – soprattutto dai comunisti – volta all’innalzamento del livello di scontro, all’aperto coinvolgimento delle masse popolari, a ottenere lo scollamento fra popolazione, fascisti e Tedeschi; quest’ultima tesi è sostenuta a spada tratta anche nella letteratura resistenziale più moderata e libera da costringimenti ideologici. La posizione, circa il problema delle rappresaglie, del Comando Militare per l’Alta Italia del Comitato di Liberazione Nazionale si trova esposta in un documento del febbraio 1944, dove era prescritto che «evitare o limitare i motivi di rappresaglia» andasse fatto «tutte le volte che fosse possibile», aggiungendo tuttavia che «la preoccupazione della rappresaglia non deve costituire un impedimento insuperabile all’azione e tanto meno rappresentare una mascheratura della non capacità e volontà di agire»: per aumentare il clima di tensione e lo scollamento fra popolazione e fascismo repubblicano, i comandi partigiani cercarono coscientemente di scatenare le rappresaglie nazifasciste; in questo quadro vanno inquadrati gli attentati di Via Rasella a Roma e di Piazzale Loreto a Milano, ma anche i «giri di vite» nei confronti di quei comandanti partigiani troppo rispettosi delle convenzioni di guerra. La popolazione civile lo sapeva, e non poteva non deprecare le azioni dei partigiani che, dopo aver ucciso uno o due nemici, fuggivano in montagna lasciando che la furia nemica si scatenasse contro chi non poteva abbandonare famiglia, campo o bottega; spesso i partigiani erano detestati e odiati almeno quanto il nemico. Gli stessi partigiani, d’altronde, fecero uso della rappresaglia e della contro-rappresaglia, minacciando fucilazioni in varie proporzioni di prigionieri tedeschi o fascisti per ogni partigiano o patriota ucciso dalle forze dell’Asse (comportandosi così allo stesso modo, o peggio, di coloro che combattevano e di cui pretendevano di aborrire i metodi di lotta).

Si potrebbe qui aprire un capitolo sulla recrudescenza dei fenomeni criminali in tutta Italia, spesso favoriti dal torbido clima politico, dal crollo dell’autorità centrale, dal vuoto di potere del quale approfittarono individui e bande dediti al brigantaggio e alla delinquenza, con aderenze di volta in volta a questa o a quella fazione politica o potenza belligerante. In alcune zone la latitanza di ogni potere statale spinse le popolazioni locali a organizzare proprie ronde armate a difesa delle proprietà. In alcuni casi a commettere gesti di brigantaggio erano gli stessi elementi partigiani (anche a viso aperto): vi furono episodi in cui uomini travestiti con uniformi finte compivano ruberie, sia per avvalersi della soggezione che la vista di una divisa provocava nel popolo, sia per creare un vero e proprio «danno d’immagine» al nemico, facendo cadere su di esso la colpa di furti, delinquenze e rapine; inoltre, per sua stessa natura la guerriglia partigiana aveva necessità di «autofinanziamento» e di conseguenza le rapine alle banche, alle casse delle aziende e ai ricchi proprietari e imprenditori divennero pressoché una esigenza alla quale tutte o quasi le formazioni finirono per far ricorso abbandonandosi (soprattutto quelle garibaldine) assai spesso a soprusi, imposizioni, grassazioni (estorsioni) e violenze indiscriminate. C’era poi chi si riforniva di viveri e oggetti lasciando dei «pagherò», foglietti di carta (a volte con timbri delle varie formazioni partigiane) che a guerra terminata, al momento della riscossione, si rivelarono niente più che carta straccia. Risulta comunque difficile studiare il problema della criminalità comune nell’ambito della guerra civile, poiché le fonti primarie di parte fascista o tedesca (notiziari e relazioni delle questure, dei comandi e del Ministero degli Interni) e i resoconti (diari di guerra, memoriali) sono viziati da un punto di vista politico, che tende a confondere indiscriminatamente partigiani, briganti, militi fascisti e grassatori. Ne è esempio il caso del cosiddetto «Battaglione Davide», una formazione partigiana dedita al banditismo comune nella zona di Canelli, duramente contrastata dai rastrellamenti fascisti, che improvvisamente si mise a disposizione delle autorità, addirittura proponendosi come «battaglione bersaglieri». Nel territorio del Regno del Sud, la drammatica situazione sociale ed economica favoriva la rinascita o la recrudescenza del fenomeno camorristico e del banditismo (spinto quest’ultimo dai motivi tradizionali della fame, della disperazione e del crollo di ogni riferimento statale).

Il movimento partigiano viene letto in sede storiografica come un vero e proprio esercito clandestino alle spalle delle linee tedesche. Persino uno storico di fama come il marxista Eric J. Hobsbawm, certo non sospetto di simpatie filo italiane, scrive che «la mobilitazione della resistenza nel 1943-1945 fu imponente e diffusa e portò alla costituzione di un movimento partigiano armato nell’Italia Centrale e Settentrionale forte di 100.000 combattenti e che ebbe 45.000 morti», grazie al quale «gli Italiani potevano [...] lasciare alle proprie spalle il ricordo dell’era mussoliniana con la coscienza a posto» (Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 2018, pagine 198-199). Fino al febbraio 1944, secondo Ferruccio Parri, le forze armate partigiane assommavano a un totale di 9.000 effettivi. Con la proclamazione della leva di massa, forse 70.000 giovani si unirono ai partigiani per non dover sottostare all’arruolamento. A questi occorreva aggiungere i reparti della pianura e delle città, i «patrioti» e i fiancheggiatori. Nella primavera-estate del 1944 la forza del movimento partigiano fu tale da consentire la creazione di effimere Repubbliche Partigiane, che riuscirono a sopravvivere fino all’autunno-inverno dello stesso anno, quando vennero distrutte dalle controffensive italo-tedesche. Dopo lo sfondamento della Linea Gotica, si contavano forse 200.000 elementi fra uomini e donne, ma è arduo sapere quanti di questi avessero davvero combattuto e quanti si fossero procurati un «patentino» resistenziale a guerra conclusa, da esibire nel momento in cui avrebbero cercato un posto di lavoro, per far bella figura e accreditarsi come persona «a posto» e meritevole di «gratitudine» per l’opera svolta. In realtà, persino la cifra «ufficiale» di 336.516 partigiani è considerata «inflazionata» persino dalle stesse fonti di Sinistra, e comunque riguarderebbe una parte infinitesimale della popolazione italiana (meno dell’1%); basti pensare che coloro che militavano volontariamente nell’Esercito di Salò o nelle altre sue formazioni erano oltre il doppio e godevano di un consistente appoggio popolare, e questo anche nelle zone già «liberate» dagli Alleati. A sentire gli anziani che erano stati giovani in quegli anni, invece, sembra che tutti siano stati, almeno, staffette partigiane: è incredibile il numero di messaggi che si sarebbero scambiati quei pochi che – effettivamente – combatterono in montagna. Così, i partigiani finti hanno portato nel discredito anche i partigiani veri e, con loro, tutta la ricostruzione (spesso «agiografica», quando non addirittura «ideologica») che per decenni è stata data della Resistenza.

Anche al Sud si sviluppò un movimento resistenziale, ma di segno diverso rispetto al Nord: era un movimento di resistenza fascista agli Anglo-Americani, che tuttavia non ebbe l’estensione di quello antifascista del Settentrione. La stampa della Repubblica Sociale Italiana ne ingigantiva l’entità attraverso la figura di O’ Scugnizzo, un sottotenente che operava dietro le linee nemiche. Nonostante i tentativi da parte di Alessandro Pavolini di creare unità militari che operassero con tattiche partigiane alle spalle delle linee alleate, per espressa volontà di Mussolini l’attività del movimento di resistenza fascista al Sud si limitò per lo più allo spionaggio, alla propaganda e al sabotaggio contro le truppe d’occupazione.

La definizione di «guerra civile» appare pertinente se si pensa che i partigiani si accanirono maggiormente, e con maggiore ferocia, contro i reparti della Repubblica Sociale Italiana piuttosto che contro i Tedeschi. Da un lato, per odii e vendette personali, perché i fascisti erano ritenuti vittime più «facili» da uccidere dei Tedeschi (specie se giravano isolati), per aver meno oppositori politici a guerra finita. Dall’altro lato, perché i Tedeschi decisero di impiegare nella «repressione del ribellismo» le forze fasciste, facendo anche leva sulle personalità più intransigenti. Episodi come i franchi tiratori di Firenze, che dopo lo sfondamento della Linea Gustav tennero in scacco numerosi reparti alleati e partigiani per diversi giorni, diedero la possibilità ad Alessandro Pavolini di ottenere da Mussolini la costituzione delle Brigate Nere, con la dichiarata intenzione di combattere innanzitutto contro i partigiani: la loro creazione rappresentò il punto di non ritorno della guerra civile, definita da Pavolini una «guerra di religione», tanto che nella loro creazione viene individuato «il punto culminante dell’impegno fascista nella guerra civile». Le Brigate Nere furono utilizzate in operazioni antipartigiane, oltre che in compiti di polizia, quali arresti, requisizioni, cattura di Ebrei, e solo sporadicamente parteciparono a scontri bellici contro gli Alleati; spesso si distinsero per l’estrema durezza impiegata nella repressione, al punto che in più occasioni gli stessi comandi tedeschi e i questori italiani protestarono per le violenze gratuite, le esecuzioni sommarie e la loro spettacolarizzazione attraverso l’esposizione di cadaveri nelle strade.

In questa guerra «a tre» (i nazisti diffidavano dei fascisti e in più occasioni ne scavalcarono l’autorità, come quando inglobarono nel Reich la regione del «litorale adriatico» che apparteneva all’Italia), i Tedeschi mantennero un atteggiamento ambiguo, non esitando a sacrificare i fascisti nel nome del quieto vivere coi partigiani: in diversi casi i Tedeschi offrirono ai comandi partigiani coi quali vennero in contatto «carta bianca» nelle azioni contro i fascisti, purché fossero risparmiati i reparti germanici. (Non sempre quest’intesa fu rispettata: per esempio a Pedescala, frazione di Valdastico in provincia di Vicenza, il 30 aprile 1945 i Tedeschi risposero a un attacco partigiano a una loro colonna in ritirata sterminando 63 poveri innocenti del paese; le medaglia d’oro al valor militare, conferita a Pedescala per quell’episodio, fu rifiutata da molti dei suoi abitanti, che giudicarono l’azione dei partigiani insensata e provocatoria. «Spararono e poi sparirono», dissero). Il clima di odio contro i fascisti rispetto a quello contro i Tedeschi sembra fosse prevalente nell’ambito delle motivazioni che spingevano i partigiani alla lotta, tanto che talvolta si giunse ad accordi locali, addirittura con temporanee alleanze «per la lotta alle bande estremiste e ai delinquenti comuni» presenti in ampie zone del Paese (contatti che ottenevano il risultato di provocare aspri contrasti dentro l’uno e l’altro schieramento, tanto che in non pochi casi fra reparti partigiani si consumarono scontri e vendette, uno dei più eclatanti dei quali fu quello della Malga di Porzûs).

Secondo i calcoli dell’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia), i caduti nella Resistenza italiana – sia in combattimento che eliminati dopo essere finiti nelle mani dei nazifascisti – sono stati complessivamente circa 44.700 (altre fonti di Sinistra, più accurate, parlano di 30.000 partigiani caduti o giustiziati, e a una cifra più o meno pari si fanno ascendere i caduti, giustiziati, dispersi italiani che combatterono nella Resistenza di altri Paesi); altri 21.200 rimasero mutilati o invalidi. I caduti nell’Esercito Italiano di Liberazione (le truppe del Regno del Sud) furono 10.000. A questi vanno aggiunti i militari regolari uccisi dopo l’armistizio (10.260 furono i militari della sola Divisione «Acqui», caduti a Cefalonia e Corfù). Sommando tutte queste cifre, gli Italiani caduti in combattimento (soldati e partigiani) sarebbero 40.000, fascisti esclusi. Altri 30-40.000 IMI (Internati Militari Italiani), morirono nei Lager nazisti.

Alla Resistenza parteciparono anche, principalmente per attività di approvvigionamento di viveri, indumenti e medicinali, di propaganda antifascista, di raccolta fondi, di mantenimento delle comunicazioni nel ruolo di staffette partigiane, di soccorso e d’assistenza, diverse donne. 35.000 di loro intervennero nel conflitto come combattenti. Altre presero parte a scioperi e manifestazioni contro il fascismo. Le donne arrestate e torturate furono 4.653, oltre 2.750 vennero deportate in Germania, 2.812 fucilate o impiccate, 1.070 caddero in combattimento; 19 vennero, nel dopoguerra, decorate di Medaglia d’Oro al valor militare.

Durante la «guerra civile» le vittime civili tra scontri, bombardamenti e rappresaglie furono 9.100. Circa 10.000 gli Ebrei Italiani deportati (40.000, in totale, i deportati italiani per ragioni politiche o razziali); dei 2.000 Ebrei rastrellati nel ghetto di Roma e deportati in Germania, se ne salvarono soltanto 11.

Più difficile il computo dei morti tedeschi e fascisti, che nel periodo preso in esame oscillano tra i 29.000 e i 50.000 uomini (e donne).

I più attenti storici che si sono occupati del fenomeno della guerra civile in Italia hanno preso in considerazione anche i fenomeni di violenze postbelliche, collocando il termine della guerra civile oltre la fine ufficiale della Seconda Guerra Mondiale in Europa: per costoro non è facile identificare una vera e propria data finale del fenomeno, che tende a sfumare con il diradarsi delle violenze. Alcuni hanno proposto come data terminale della guerra civile l’amnistia Togliatti del 22 giugno 1946.

Immediatamente dopo che le forze della Resistenza riuscirono ad assumere il potere nelle città del Nord, vennero istituiti tribunali improvvisati che, sulla base di giudizi sommari e a volte anche senza processo, comminarono condanne capitali ai fascisti catturati, a chi aveva militato nella Repubblica Sociale Italiana, a chi aveva manifestato simpatie fasciste o aveva collaborato con le autorità tedesche. Questi atti, compiuti nei giorni immediatamente successivi al termine della guerra, furono localmente tollerati dai comandi alleati: «Fate pulizia per due, tre giorni, ma al terzo giorno non voglio più vedere morti per le strade» sono le parole del Colonnello Inglese John Melior Stevens al Comitato di Liberazione Nazionale del Piemonte. La rapidità delle esecuzioni degli esponenti della Repubblica di Salò è dovuta al fatto che i capi partigiani temevano che il passaggio dei poteri agli Anglo-Americani e il ritorno alla «legalità borghese» avrebbero impedito un’epurazione radicale. Le condanne a morte per collaborazionismo in molti casi colpirono anche persone innocenti accusate senza prove, come nel caso dell’attore Elio Marcuzzo (di fede antifascista), o diversamente abili, come Carlo Borsani, ch’era cieco di guerra; nel clima di violenza si verificarono anche omicidi legati a fatti privati, vendette personali cui fu sovrapposta una motivazione politica, assassini di innocenti indicati da delazioni ignobili o scambiati per altre persone, e tra le vittime figurano molti funzionari e dipendenti pubblici, sacerdoti, borghesi contrari al comunismo, semplici cittadini e addirittura aderenti alle organizzazioni partigiane. Scrive Indro Montanelli che «questo periodo [del post-Liberazione] ebbe l’ambizione d’essere rivoluzionario; ma della rivoluzione spartì solo in piccola parte i connotati nobili ed epici, l’ardore del nuovo, la genuinità delle convinzioni e delle passioni, la speranza del futuro, e in larga parte i connotati deteriori: la ferocia e la vendetta. L’una e l’altra rispondevano ad altre ferocie e ad altre vendette. Ma chi se ne fece interprete, in entrambi i casi, era intercambiabile, salvo poche onorevoli eccezioni: v’è una professionalità dell’estremismo, e del sangue, che ha per costante l’ansia di uccidere, e per accessorio casuale l’ideologia cui applicarla» (Indro Montanelli-Guido Cervi, Storia d’Italia, volume 47: L’Italia della Liberazione, Fabbri Editori, Milano 1994, pagina 169).

Sulle dimensioni effettive delle violenze postbelliche si è sollevata un’aspra polemica in Italia fin dal dopoguerra. Il computo delle vittime è difficile per il prolungarsi nel tempo dei «regolamenti di conti»: basti pensare al cosiddetto «triangolo della morte» in Emilia e alle «Volanti rosse» che vi imperversavano, o all’irruzione nelle carceri di Schio con lo sterminio dei detenuti politici che vi erano rinchiusi. I due estremi parlano di 1.732 morti o scomparsi, secondo l’allora Ministro dell’Interno Mario Scelba (calcolati dal 25 aprile al 5 maggio 1945), e di 300.000 morti, secondo alcuni nostalgici (altre inchieste, dovute sempre a nostalgici, hanno fatto scendere il numero a 50.000-70.000 uccisi). Studi scientifici più accurati e testimonianze hanno evidenziato cifre intermedie:

1) Guido Crainz, in base a un’analisi delle varie fonti, tra cui i rapporti della polizia del 1946, indica la cifra di 9.364 uccisi o scomparsi per cause politiche, aggiungendo poi – tuttavia – un lungo elenco di violenze e uccisioni a carattere di vera e propria «macelleria messicana», legate a una lunga tradizione di scontri sociali e di durezza estrema, settaria, risalenti addirittura al secolo precedente;

2) secondo lo studioso tedesco Hans Woller dell’Università di Monaco, le vittime furono 12.060 nel 1945 e 6.027 nel 1946;

3) in un articolo pubblicato nel 1997, il giornalista Silvio Bertoldi asserì di aver saputo da Ferruccio Parri che le vittime furono circa 30.000;

4) il reduce della Repubblica Sociale Italiana Giorgio Pisanò giunse a stimare il numero dei morti fascisti, o presunti tali, in 48.000, comprendendo nel computo anche le vittime dei massacri delle foibe in Istria e Dalmazia (16.500). Questa è ritenuta oggi la cifra più probabile.

Nonostante anche altri Paesi Europei come la Norvegia, i Paesi Bassi e la Francia abbiano avuto Governi collaborazionisti, in nessuno di essi l’estensione del confronto armato tra compatrioti ha raggiunto l’intensità toccata in Italia. Lo studioso di relazioni internazionali Luigi Bonanate spiega: «Perché il caso italiano sfugge a ogni regola? Si considerino i casi di tre diversi Paesi, Francia, Germania e Italia, e li si confrontino con le tre possibili forme di guerra che uno Stato può conoscere: guerra internazionale, guerra partigiana (o di liberazione), guerra civile (che potremo considerare come tre cerchi concentrici). Ebbene, la Germania ha sperimentato esclusivamente la prima; la Francia ha conosciuto le prime due e non la terza; l’Italia tutte e tre. L’intensità della violenza nei tre casi è crescente e progressiva, fino a toccare il massimo nell’ultimo: la Germania è stata schiacciata e disgregata, ma la sua guerra è stata una sola; in Francia si è svolta, come in Italia, una fase di resistenza e poi di guerra di liberazione contro l’occupante, ma come è noto le dimensioni del movimento partigiano vi furono ben più limitate che non in Italia, la quale oltre ad avere partecipato – per così dire – a una doppia guerra internazionale (quella nazifascista a cui poi seguì quella con gli Alleati Occidentali), ne ha combattuta un’altra, condotta dal Comitato di Liberazione Nazionale e mirante a ricacciare i Tedeschi fuori dal Paese (come la Francia), e poi ancora una terza, la più tragica e lacerante – la guerra civile – tra fascisti e antifascisti» (Luigi Bonanate, La violenza nelle guerre del Novecento, «L’impegno», anno XIV, numero 2, agosto 1994, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli).

(aprile 2020)

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