Caduti italiani nella Seconda Guerra Mondiale
Grandi numeri e divergenze permanenti

Trascorso quasi un ottantennio dalla fine del Secondo Conflitto Mondiale, il numero dei caduti italiani continua a essere oggetto di valutazioni discordi, su cui è opportuno riflettere, se non altro per quanto concerne le grandi cifre, in modo da portare un chiarimento importante sulle dimensioni effettive di una grande tragedia storica.

In mancanza di risultati definitivi e davvero inoppugnabili, conviene premettere che, secondo le ultime conclusioni del 2010, contenute nell’Albo d’Oro del Ministero della Difesa, consultabili anche in Internet, le vittime militari, appartenenti all’Esercito, alla Marina, all’Aeronautica, ai Partigiani e alle Forze Armate della Repubblica Sociale, ammonterebbero a poco meno di 320.000, costituite per tre quarti del totale dal primo gruppo, e per la quota a saldo, dagli altri quattro. Una rilevazione precedente, sempre di fonte ufficiale e comprensiva di almeno 70.000 caduti civili, era pervenuta, invece, alla stima di quasi 420.000 vittime[1], con quote rispettive di 225.000 per il periodo compreso fra il 10 giugno 1940 (dichiarazione di guerra) e l’8 settembre 1943 (armistizio) e di 195.000 per il periodo successivo, concluso il 25 aprile 1945 (fine delle operazioni militari): a conti fatti, in base a questa stima le rispettive incidenze percentuali sarebbero state del 54% nel primo triennio, e del 46% nel biennio successivo.

Si tratta di numeri che fanno pensare, sebbene costituiscano «solo» una quota pari allo 0,6% dei caduti a livello mondiale, come da indicazione dei 68 milioni rivenienti da fonti ufficiali statunitensi, peraltro notevolmente superiori ad altre, e comunque non inferiori ai 50. In ogni caso, per quanto concerne l’Italia, era stata notevolmente maggiore la cifra dei caduti nel Primo Conflitto del 1915-1918, quando (secondo valutazioni ancora più approssimative) si sarebbe giunti a circa 700.000 vittime, considerando anche 120.000 scomparsi per postumi di ferite o di malattie contratte in guerra, dolorosamente continuati negli anni successivi alla Vittoria.

Non c’è dubbio: i numeri dei «caduti per la Patria» suscitano sempre una grande amarezza, perché costituiscono una deroga alla sacralità della vita, che vale per tutti e per ciascuno, e nello stesso tempo, una perdita assolutamente irreparabile, in primo luogo per le famiglie, ma contestualmente proprio per la Patria, intesa come «Madre benigna e pia» di petrarchesca memoria (All’Italia).

Le incidenze percentuali dei caduti italiani nella Seconda Guerra Mondiale differiscono sensibilmente secondo i tempi e le fonti. All’inizio del conflitto, o meglio all’atto della «discesa in campo» con la citata dichiarazione del 10 giugno, l’Italia poteva contare su uno schieramento complessivo pari a circa tre milioni e mezzo di uomini, e quindi è facile dedurne che le perdite avutesi fino al giorno dell’armistizio si ragguagliarono a sei punti e mezzo dell’organico.

Assai diverso appare il medesimo conteggio riguardante il periodo successivo, quando l’Italia della Repubblica Sociale mise in campo circa 560.000 combattenti, comprensivi delle forze di supporto, mentre il Regno del Sud schierato con gli Alleati poteva contare su 380.000 unità, che peraltro furono utilizzate in larga misura nei servizi, con poche eccezioni per l’impiego al fronte. Dal canto loro i partigiani erano poche migliaia all’indomani dell’8 settembre e raggiunsero la quota di 340.000 soltanto nell’ultimo mese di guerra. Ciò posto, una somma complessiva teorica, riferita a cifre ben diverse secondo i tempi, permette di indicare in non oltre 1,3 milioni gli uomini e donne che ebbero impegni nelle operazioni belliche a vario titolo e per tempi non omogenei, con un’incidenza della mortalità nell’ordine del 15%, quasi tripla rispetto a quella del primo periodo.

Ciò, senza dire che quest’ultima cifra è approssimata per difetto, proprio perché, soprattutto nell’ambito partigiano, i nuovi arruolamenti ebbero grande lentezza per tutto il 1944, anche alla luce degli inviti al rinvio proposti da vari Comandi Alleati nel convincimento che una soluzione più rapida delle operazioni militari sarebbe stata certamente più facile con l’arrivo della primavera.

Le differenze sono importanti anche sul piano puramente statistico, e costituiscono una drammatica fotografia del rapido avvitamento del conflitto in una guerra civile senza esclusione di colpi, non avulsa da crudeltà che avrebbero potuto fare invidia a quelle dei secoli bui o della stessa stagione rinascimentale, nella triste stagione delle Signorie, armate l’una contro l’altra.

Non mancarono atti di valore, ma la prassi della violenza intesa come arma aggiuntiva, cui le donne furono sottoposte in misura accentuata, con particolare riguardo alle Ausiliarie della Repubblica Sociale Italiana, non concesse sconti, lasciando una traccia di dolore e di odio, destinata a protrarsi nel tempo, con effetti di rilievo nella stessa dialettica politica della nuova Italia uscita dalla Resistenza.

Ancora una volta, sulla falsariga di quanto era già accaduto nel Risorgimento, le minoranze furono protagoniste, mentre una larga maggioranza «grigia» rimase a guardare nella fiducia di una fine per quanto possibile rapida, anche se in molti casi il suo attendismo non valse a salvarla dalle rappresaglie, dalle accuse incrociate di tradimento, e naturalmente, dalle bombe, dalle malattie e dalla fame, i cui effetti, secondo logica, si avvertirono in misura notevolmente più accentuata nelle zone controllate dalla Repubblica Sociale Italiana, mentre in quelle «liberate» tali problemi di «salute pubblica» furono progressivamente elisi dall’avanzata degli Alleati e dalle loro disponibilità di farmaci e di generi alimentari, sia pure nella crescente diffusione della cosiddetta «borsa nera».

L’Italia, come avrebbe detto Machiavelli in una sua pertinente definizione, divenne ancora una volta «oggetto di storia». Il Governo Monarchico non diede un buon esempio neppure con le prime decisioni strategiche assunte dopo l’armistizio, come la fuga di Vittorio Emanuele III, pronto ad abbandonare Roma, dapprima per Pescara e poi per Brindisi, o come la firma dell’armistizio medesimo, avvenuta a Cassibile (Siracusa) il 3 settembre ma annunciata solo cinque giorni dopo per iniziativa del Generale Eisenhower, Comandante Supremo degli Alleati, ovviamente irritato per il pervicace silenzio di Roma. Ciò, mentre Badoglio aveva comunicato all’Ambasciatore Tedesco Rahn che la guerra continuava a fianco del Reich mentre la resa era stata già chiesta e accettata.

Il Santo Padre Benedetto XV, presente sul Soglio di Pietro durante il Primo Conflitto Mondiale, aveva parlato in termini espliciti della Grande Guerra con la definizione di «inutile strage» ignorata dalle forze belligeranti, ma accolta dai popoli oppressi nel suo pertinente significato di opposizione salvifica. Analogamente, un trentennio più tardi, Papa Pio XII si compiacque di abbracciare le vittime della nuova strage, rinnovando la preghiera per «una nuova era di pace, di prosperità e di progresso», ripresa anche nella proclamazione dell’Anno Santo (1950). Va da sé che nel pensiero di questi grandi Pontefici di Santa Romana Chiesa il dolore per i tanti caduti senza colpa fu una vera e propria costante universale tradotta nella sola preghiera, posto che le divisioni corazzate, come Giuseppe Stalin avrebbe detto ironicamente, non sono presenti nell’esercito papalino.

Si ha l’impressione, purtroppo non infondata, che le vittime italiane delle grandi Guerre Mondiali, senza dimenticare tutte le altre, siano state travolte da una fine prematura, e spesso inconsapevoli delle motivazioni per cui non ebbero scampo. Certo, da una parte e dall’altra ci furono eccezioni di valore straordinario e di forte maturazione delle coscienze, anche nelle ultime fasi della guerra, ma la storiografia è quasi unanime nel convenire che quei grandi sacrifici individuali e collettivi fecero germogliare un senso più avanzato di appartenenza civile e nazionale, che peraltro si sarebbe potuto acquisire senza bisogno di tanti danni, tante distruzioni, e soprattutto, di tante vite spezzate.

Oggi, di tanta tragedia restano le cifre, nel linguaggio arido ma probante che è tipico dei numeri. A prescindere dagli inevitabili errori e da alcune forzature già documentate in sede storica[2], anche quelli disaggregati hanno un significato che non può essere disatteso, come si può ben dire, limitatamente agli ultimi 20 mesi di guerra, per circa 60.000 partigiani, 40.000 internati in Germania, 40.000 vittime dei bombardamenti alleati, 30.000 militari caduti sui vari fronti italiani ed esteri, e via dicendo. Poi, rimangono la «pietas» e le ricorrenti cerimonie, sia pure generalmente ripetitive, in memoria di quella tragedia, ma nel sottofondo rimane anche un senso di triste impotenza a livello di prevenzione, non disgiunta dall’auspicio che il nuovo dettato costituzionale di ripudio della violenza bellica (1948) non si limiti a semplice dichiarazione di principio.

Due secoli prima di Cristo, il grande poeta latino Albio Tibullo si era domandato nel suo celebre carme chi fosse mai quel triste personaggio che aveva fatto la peggiore invenzione della storia: quella delle armi. Non aveva letto le Scritture, e non poteva sapere che la guerra era stata una costante universale sin dai primordi dell’umanità, tanto che Caino aveva ucciso Abele, anche se oggi un celebre aforisma insiste nel dire che nessuno lo deve toccare. Dal canto suo, nel secolo breve il Padre Ernesto Balducci, per esorcizzare la guerra, ha formulato l’auspicio di una Repubblica universale che allo stato delle cose si pone nella visuale sognatrice di un lontanissimo futuribile. Forse avevano ragione coloro che, durante l’ultima straordinaria tragedia dei 68 milioni di morti, invitavano a pregare.


Note

1 Alla luce delle cifre esposte, si deve chiarire che l’ultima valutazione di fonte ufficiale, riguardante le sole vittime militari, differisce dall’ultima precedente e omogenea, per un decremento nell’ordine delle 30.000 unità, pari a pochi punti percentuali nel ragguaglio complessivo, che può considerarsi fisiologico laddove si tenga conto delle grandi difficoltà di reperire dati oggettivamente probanti, parzialmente elise soltanto a lungo termine.

2 Soprattutto per il periodo della guerra civile, le valutazioni concernenti il numero dei caduti differiscono in misura ragguardevole secondo le fonti di provenienza. In particolare, quelle della Repubblica Sociale Italiana propendono per cifre sovrastimate, a cominciare dall’opera primaria di Giorgio Pisanò, mentre il fenomeno opposto, con relative sottostime, si registra per quelle della Resistenza.

(novembre 2023)

Tag: Carlo Cesare Montani, caduti italiani nella Seconda Guerra Mondiale, Francesco Petrarca, Niccolò Machiavelli, Vittorio Emanuele III, Generale Dwight Eisenhower, Pietro Badoglio, Ambasciatore Rudolf Rahn, Papa Benedetto XV, Papa Pio XII, Giuseppe Stalin, Albio Tibullo, Caino e Abele, Padre Ernesto Balducci, Giorgio Pisanò, Roma, Pescara, Brindisi, Cassibile, Siracusa, Terzo Reich, Germania, numeri dei caduti, Albo d’Oro della Difesa, 10 Giugno 1940, 25 Aprile 1945, Repubblica Sociale Italiana, eserciti alleati, Regno del Sud, Signorie del Rinascimento, Ausiliarie della Repubblica Sociale Italiana, Risorgimento, Resistenza, Grande Guerra, Anno Santo del 1950.