Le Brigate Garibaldi
La 36° Brigata Garibaldi «Bianconcini»

Negli anni 1943 e 1944 al confine fra la Toscana e il territorio imolese, sulle colline faentine, operava un nucleo di sei partigiani denominato 8a Brigata Garibaldi a cui in seguito se ne aggiunsero un’altra ventina circa. A questo gruppo si aggregò un’ulteriore formazione di circa 50 partigiani comunisti che era composta da elementi ravennati, imolesi, faentini e bolognesi che prese il nome di 4a Brigata Garibaldi di Romagna.

Nella formazione partigiana comunista confluirono poi altri gruppi armati come quelli guidati da Libero Lossanti alias «Capitano Lorenzini», e da Ernesto Venzi detto «Nino». Questi due esponenti comunisti, coadiuvati da Andrea Gualandi detto «Bruno» e da Roberto Gerardi avevano istituito una sorta di troika allargata, un tribunale popolare in perfetto stile staliniano, che emetteva sentenze di condanne verso i prigionieri che avevano la malasorte di capitare sotto le loro unghie di carnefici. Il gruppo arrivò a contare circa 1.200 unità e diventò il primo centro operativo della Brigata, ribattezzata con il nome di 36a Brigata Garibaldi Bianconcini. Lo «stato maggiore» della Brigata, comandata da Luigi Tinti detto «Bob» (1920-1954), da Giovanni Nardi detto «Caio», e dall’immancabile commissario politico del Partito Comunista Italiano Guido Gualandi, detto «Moro», si era acquartierato a Molino Boldrino in un casolare sperduto nella Valle del Sintria.

La Brigata fu organizzata in quattro Battaglioni:

1° Battaglione, Libero, comandato da Edmondo Golinelli;

2° Battaglione, Ravenna, comandato da Ivo Mazzanti;

3° Battaglione, comandato da Carlo Nicoli;

4° Battaglione, comandato da Guerrino De Giovanni

Questa Brigata si contraddistinse per la ferocia e l’efferatezza delle azioni criminali compiute in totale disprezzo dei diritti umani. Anche i criminali comunisti appartenenti a questa Brigata beneficiarono dei provvedimenti di amnistia emanati da Palmiro Togliatti e dai Governi del dopoguerra, che come si sa, tutelarono questi delinquenti in ogni modo.

Le condanne capitali costituivano la norma, precedute sempre da sevizie e torture di ogni genere, così com’era consuetudine fra i combattenti comunisti, stupratori di vittime innocenti, e sadici. A riprova di queste affermazioni ci sono le salme riesumate a guerra finita, che erano state nascoste e seppellite nell’aia del casolare di Molino e che furono sottoposte ad autopsia per ordine dell’autorità giudiziaria. La prima salma apparteneva a Michele Biagi che presentava chiari segni di tortura, avendo i denti spezzati e segni di trascinamento. Le indagini, con l’ausilio anche di testimonianze giudiziarie, provarono che la vittima era stata legata alla coda di un cavallo e trascinata fino a ridursi a un ammasso sanguinolento e informe, poi fu finita con un colpo di fucile alla testa. Cirillo Bernardi, la seconda vittima, era invece stato bastonato prima di essere ucciso a colpi di pistola, mentre la terza vittima, che aveva il cranio fratturato, non venne mai identificata. La quarta salma presentava anch’essa diverse fratture nel cranio ed era priva di denti. La quinta salma ci dà l’esatta dimensione della ferocia e del sadismo di questi assassini comunisti, che furono comunque sempre protetti dal Partito Comunista Italiano: era una donna, identificata come Maria Paoletti ed era gravida al quinto mese di gestazione, ma ciò non bastò a impedire che fosse seviziata, violentata, e infine impiccata con una corda che le fu trovata ancora attorcigliata al collo al momento della riesumazione. Il sadismo dei comunisti partigiani, si manifestò ancora più apertamente contro due vittime innocenti, Olga Benericetti di 19 anni e la sorella Pasqualina di 15. Le sorelle si erano recate fino al casolare Molino alla ricerca del padre che dopo essere stato prelevato alcuni giorni prima, non aveva più fatto ritorno a casa. Le sorelle, a cui i partigiani diedero scarso ascolto e considerazione, insistettero nella loro richiesta di sapere dove fosse il loro padre e minacciarono di rivolgersi al comando tedesco, ma il loro atteggiamento irritò gli «eroici» combattenti comunisti che scatenarono la loro libidine e la loro perversione contro le inermi fanciulle. L’autopsia rivelò infatti evidenti prove di sevizie e di violenza sessuale in entrambe le salme, ma la sorella minore presentava chiari segni di abuso anche nella regione rettale. I partigiani, non ancora soddisfatti, appagarono il loro sadismo tentando di enucleare gli occhi dalle orbite conficcandole un chiodo nel cranio. In seguito la mamma delle due bambine rimasta sola con un’altra figlia di otto anni non resse al dolore e impazzì, e per questo fu ricoverata nel manicomio di Imola, dove morì pochi mesi dopo. I responsabili di queste atrocità, oltre al comandante Bob e al commissario politico Moro, furono i seguenti: Pietro Ferrucci, l’esecutore materiale del duplice omicidio delle sorelle Benericetti che poi fu messo dal Comitato di Liberazione Nazionale a dirigere il Comune di Faenza, come Sindaco. Ragazzini Giuseppe, evidentemente non pago del sangue innocente versato, commise anche gli omicidi Sarti del 13 maggio ’45, Ronchi del 24 maggio ’45, e Rondinini del 5 gennaio 1946; morì all’età di 63 anni a Ravenna, dove si era trasferito. Il comandante Luigi Tinti alias «Bob», una volta sciolta la Brigata Bianconcini, si arruolò nella Brigata Cremona dove però gli fu dato il grado di soldato semplice; per i crimini commessi, dopo la cosiddetta «liberazione» fu sottoposto a processo, ma poi stralciato dal procedimento essendo venuto a mancare per tisi nel 1954.

Nella 36a Brigata Bianconcini si distinse per i crimini commessi anche il sopracitato Guido Gualandi (Dozza Imolese 1908-1964) che fu autore di diversi delitti, tra cui l’uccisione di Bandini a San Cassiano nel luglio 1944, l’omicidio Guerra a Casola Valsenio nell’agosto 1944, e l’eliminazione di Quadralti a Brisighella nel settembre dello stesso anno. Questo «curriculum» gli valse la protezione a vita da parte del Partito Comunista Italiano, che poi si trasmise al di lui figlio che fu infatti nominato Segretario del Partito Comunista Italiano di Imola, poi Sindaco, e infine Deputato per diverse legislature. Zauli Medardo alias «Pedro» (1922), che troviamo nella lista di assassini del Molino, divenne vigile urbano nel Comune di Riolo Bagni dopo la «liberazione». Fu processato per tre gravi fatti di sangue: l’omicidio di due fratelli, Eugenio e Giuseppe Sartori, commesso il 17 maggio 1945, l’omicidio di Battista Braghini il 21 maggio, e quello di Bruno Berti, il giorno 28 dello stesso mese. Si diede alla latitanza e fu aiutato dal Partito Comunista Italiano a riparare in Cecoslovacchia, dove trovavano rifugio tutti coloro che il Partito Comunista Italiano poneva sotto la sua protezione. Il mandante di questi omicidi fu un capo partigiano riolese, il comunista Angelo Morini. Marabini Filippo, alias «Cucaracia», nativo di Castel San Pietro (1923-1986) aveva scelto come suo rifugio la canonica diroccata di Croara, una borgata delle colline imolesi, e da qui partiva per compiere i suoi delitti. Fu accusato di un numero enorme di omicidi tra cui quello dei tre fratelli Neri, Francesco, Luigi e Zenobio, prelevati la notte dell’11 settembre 1944 e condotti nei pressi del cimitero, dove furono falciati a raffiche di mitra. Questo assassino uccise anche il Maresciallo dei Carabinieri di Fontanelice, Salvatore Pantaleo, tagliandogli la gola per vendicarsi del fatto che poco tempo prima questi lo aveva arrestato per furto. Forte dell’appoggio di altri assassini partigiani comunisti, gli inflisse una ventina di coltellate alla gola, compiacendosi poi di raccontare gli ultimi istanti di vita della sua vittima, affogata nel suo stesso sangue. Il partigiano comunista Sergio Battilani detto «Roco» (Imola 1924), dopo la cosiddetta «liberazione» divenne Sindaco di Casalfiumanese dal 1948 al 1951. A lui vengono attribuiti gli omicidi del calzolaio Sanzio Biondi e della sua famiglia nella frazione imolese di Fabbrica. Nell’eccidio non vennero risparmiati nemmeno la moglie Lea Morsiani e i due figli, Anita di 25 anni, e Giuseppe di 17. La sua responsabilità fu accertata e comprovata da una testimonianza ma venne inspiegabilmente assolto per insufficienza di prove.

Uno fra i più spietati killer comunisti fu Augusto Monti, arrestato nel 1951 e condannato poi nel 1954 all’ergastolo dalla Corte di Assise di Bologna per numerosi omicidi di cui uno in particolare, commesso il 29 settembre 1945, gli precluse la fruizione delle cinque amnistie emanate e gli costò la carcerazione all’Asinara per diversi anni.

Lo storico Roberto Beretta ci segnala nel suo studio del 2005, Storia dei preti uccisi dai partigiani, che il numero dei sacerdoti uccisi dall’odio comunista è stato in totale di 130 vittime.

(gennaio 2024)

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