La strage del 1864 a Torino e la protesta per il trasferimento della sede del Governo a Firenze
Un evento taciuto

A tre anni dalla proclamazione del Regno d’Italia (17 marzo 1861) l’Italia era ben lungi dall’essere stata realmente unificata: anche a voler prescindere dalle forti differenze economiche e sociali presenti nel nuovo Stato, al disegno risorgimentale mancavano ancora Roma e Venezia, con le loro appendici territoriali, subordinate rispettivamente alla sovranità pontificia e asburgica. Nel frattempo, il percorso verso la conquista dell’indipendenza doveva confrontarsi, come spesso accade, con ingiustizie e prevaricazioni, non senza spargimenti di sangue inutilmente dolorosi.

Nel 1864 il giovane Regno aveva deciso di trasferire la sede del Governo d’Italia da Torino a Firenze come momento intermedio volto a rammentare che il completamento della strategia unitaria non avrebbe potuto prescindere dalla questione romana, sia pure in tempi indefiniti; ma nello stesso tempo a tranquillizzare anche formalmente la Francia, protettrice del Papato, circa le buone intenzioni di accantonare «sine die» la questione romana[1].

In ogni caso, il provvedimento parve significare alla pubblica opinione che la vecchia sede del Governo e lo stesso Piemonte, in assenza di adeguate e proporzionali compensazioni, fossero ingiustamente e gravemente penalizzati, anche circa le prospettive di sviluppo economico, nonostante i sacrifici compiuti e il tanto sangue versato nelle vicissitudini e nelle guerre del Risorgimento. In pratica, si attuava la cesura fra una Monarchia che ormai, nonostante la normale prudenza diplomatica, guardava dichiaratamente a Roma, e la cittadinanza subalpina, nel cui ambito vennero a celere maturazione, assieme a comprensibili opposizioni, taluni conati di pacifica protesta.

Eppure, sarebbe stato logico prevedere che lo sgradito declassamento avrebbe costituito la premessa di una decadenza con cui il Piemonte, disgregato dai vincoli tradizionali col resto dell’Europa, sia pure allo scopo di «fare» l’Italia, si deve ancor oggi confrontare. Non a caso, talune tendenze centrifughe degli ultimi tempi, come quelle che hanno supportato la nota vertenza sull’Alta Velocità, traggono origine, sia pure indiretta e lontana, da antiche delusioni nei confronti di un potere centrale anonimo e sostanzialmente miope, ben diverso da quello della non dimenticata oligarchia subalpina che aveva contribuito a «fare l’Italia».

Nel triste autunno del 1864 la protesta fu soffocata nel sangue: i cittadini torinesi, nelle cui file si trovarono accomunati uomini e donne d’ogni età e condizione, furono massacrati alla stregua di banditi o di rivoltosi, anche se inermi. In particolare, nei moti del 21 e 22 settembre si contarono oltre 50 caduti e circa 200 feriti[2] nel corso di un’assurda repressione indiscriminata con scariche di fucileria e assalti alla baionetta: e peggio, almeno sul piano formale, senza alcuna preventiva intimazione.

Ad aggravare il trauma si aggiunse un fatto oggettivamente impolitico: a intervenire furono, in buona parte, militari affluiti dai nuovi territori aggregati al vecchio Regno di Sardegna con i plebisciti del Centro e del Mezzogiorno, cosa che contribuì ad accrescere la frattura fra il Piemonte e il resto d’Italia, ponendo le basi di nuove incomprensioni e di campanilismi non certo utili a promuovere il senso dell’unità nazionale e di comuni interessi nettamente superiori a quelli del campanile. In ultima analisi, era la realtà endemica dello Strapaese che continuava a dettar legge.

Oggi, è giusto ammettere che l’oblio dei fatti di Torino del 1864, cui non osta la semplice targa commemorativa installata in Piazza San Carlo, e di cui non esiste traccia critica in gran parte della storiografia, assume una valenza che la dice lunga sulla scarsa oggettività di parecchie storie risorgimentali, e non solo: l’oleografia di quel periodo per molti aspetti glorioso, che non giova agli stessi valori essenziali di uguaglianza, oltre che di indipendenza e di libertà, su cui si era dichiarato di voler costruire la nuova Italia, ha «censurato» questo massacro, che – se non altro per le dimensioni – sarebbe congruo definire «strage di Stato».

Intendiamoci: non si tratta di un caso isolato. Basti pensare alle migliaia di contadini meridionali e soprattutto di ex legittimisti borbonici che furono assimilati ai cosiddetti briganti (molti dei quali non lo erano) e divennero vittime incolpevoli di analoghi, e a più forte ragione, tragici errori, come nella deportazione di molti ex militari «napoletani» nella truce fortezza di Fenestrelle (Aosta) dove parecchi di loro scomparvero senza alcuna memoria del tragico destino che avrebbe dato luogo all’incolpevole fine.

Ciò non significa che uno Stato moderno, e sicuro dei propri valori, non possa e non debba fare massima luce sulle pagine più scure e meno commendevoli della sua storia, alla luce di un corretto e necessario revisionismo che, come emerge dal pensiero sempre attuale di Benedetto Croce, è fondamento essenziale di una storiografia onesta e costruttiva.

I moti di Torino, come spesso accade in occasione di proteste popolari sostanzialmente effimere, non ebbero alcun seguito sul piano delle decisioni politiche, ormai assunte in sede legislativa ed esecutiva. Infatti, nell’anno successivo ebbe luogo il trasferimento effettivo della sede del Governo non senza nuove ma ininfluenti proteste del cosiddetto «partito piemontese»[3].

Qui giova ricordare che i vantaggi per la stessa Firenze furono davvero effimeri, a causa di un’espansione urbanistica da cui derivarono danni permanenti di natura architettonica, senza dire del forte indebitamento reso necessario per finanziare taluni grandi lavori imposti dal nuovo ruolo della città del Giglio quale sede governativa e parlamentare, che peraltro ebbe la possibilità di conservare soltanto per un quinquennio, fino alla «conquista» di Roma nel 1870.

Tutto ciò, mentre il colera imperversava in diverse regioni del giovane Regno, dalle Marche alla Campania, ma non impediva che alla Camera dei Deputati si discutesse lungamente sull’abolizione della pena di morte, peraltro non approvata, pur con la deroga speciale per la Toscana, a tutela della sua decisione di segno contrario (prima nel mondo) che risaliva addirittura allo scorcio conclusivo del secolo precedente e che rimase in vigore per oltre un ventennio.

Quanto a Torino, il capoluogo piemontese non ebbe alcun apprezzabile intervento compensativo a fronte della perdita dell’antico ruolo di sede del Governo. Infatti, dopo i moti di settembre la legge per il trasferimento a Firenze fu rapidamente approvata nel giro di due mesi, con la sola opposizione dei deputati piemontesi: del resto, quei moti, repressione a parte, erano stati caratterizzati anche da violenze tanto forti quanto imprevedibili, culminate nel saccheggio di alcuni empori destinati alla vendita di armi, e negli assalti ad alcuni Ministeri, oltre che alle sedi di alcuni organi d’informazione. Per il «perbenismo» piemontese che in seguito avrebbe trovato descrizioni coinvolgenti nelle popolari pagine di Edmondo De Amicis, era stato un trauma che alla resa dei conti non avrebbe giovato alla causa di Torino, peraltro oggettivamente difficile.

Ciò non giustifica il silenzio che, salvo rare eccezioni, è sceso sui fatti di Torino del 1864 e che d’altra parte è comune a tante altre pagine della storia nazionale volutamente accantonate se non anche dimenticate, in ossequio a transeunti pregiudiziali politiche.

In realtà, quelle vicende in larga misura silenziate sono la testimonianza, comunque ampiamente comprensibile alla luce di elementari considerazioni storiche e geografiche circa l’Italia pre-unitaria e le sue differenze spesso abissali, di una condizione arretrata, sia sul piano economico, sia su quello psicologico, il cui superamento, peraltro difficile a tuttora incompleto, richiese molto tempo: per lo meno, il mezzo secolo intercorso dall’epoca in questione a quella della Grande Guerra, quando l’unità parve realizzarsi davvero nel tragico ma solidale spirito della trincea.

D’altra parte, la pervicacia con cui Torino aveva cercato di difendere le sue prerogative di sede del Governo ancor prima che il disegno di trasferimento diventasse di pubblico dominio dimostra come negli ambienti subalpini, compresi quelli più qualificati, il patriottismo localistico fosse ancora prevalente, quale retaggio di una tradizione «complementare» al ruolo dei grandi Stati Europei, da cui il Piemonte aveva cominciato a prendere le distanze soltanto negli anni Cinquanta dell’Ottocento con la partecipazione alla Guerra di Crimea e, poi, con la Seconda Guerra d’Indipendenza.

Non a caso, alcuni parlamentari piemontesi avevano fondato la cosiddetta «Permanente» presieduta da Gustavo Ponza di San Martino, volta a contrastare ogni programma che non fosse quello per «Roma capitale» pur nelle difficoltà, sia di politica internazionale sia di rapporti interni, implicite nel progetto che divenne improvvisamente attuale nel 1870 dopo la disfatta di Napoleone III nella Guerra Franco-Prussiana e la perdita del suo massimo protettore da parte dello Stato Pontificio[4].

Era la conferma di una frequente casualità della storia, e nello stesso tempo, della ricorrente subordinazione italiana alle vicende altrui.


Note

1 La questione romana era stata appena affrontata e regolamentata tramite la cosiddetta Convenzione di settembre dopo accordi preliminari intercorsi sin da giugno fra Napoleone III e il plenipotenziario sabaudo Gioacchino Pepoli, con cui si adombrava l’ipotesi di trasferire la sede del Governo ad altra città non meglio specificata, rinunciando a Roma in cambio dell’impegno francese a ritirare le truppe di stanza nello Stato Pontificio. Nella Convenzione l’Italia accettava di rispettare l’integrità di quest’ultimo e si accollava, in aggiunta, l’obbligo di farsi carico del suo debito pubblico, sia pure parzialmente, suscitando perplessità e dissensi destinati a rapida maturazione con la protesta di Torino. Giova aggiungere che il 1864 fu l’anno di proclamazione del Sillabo degli errori del nostro tempo, documento con cui la Chiesa, e per essa Pio IX, si fecero premura di denunciare in 80 punti altrettante violazioni «funestissime» dell’ordine etico e giuridico costituito da tempo, ivi compresi, assieme al cosiddetto modernismo, il diritto di natura opposto a quello divino, il cattolicesimo liberale, il carattere laico della scuola, la tolleranza in materia di fede, e così via, senza dire dell’obbligo di garantire l’osservanza dei diritti ecclesiastici acquisiti, da conferire allo Stato. La condanna da parte del Sillabo divenne formale nel dicembre dello stesso anno: quindi, è ragionevole presumere che l’eco dei fatti piemontesi di settembre avesse avuto un ruolo importante, quantunque non prioritario, di causa ed effetto.

2 Il numero dei caduti e dei feriti è rimasto indefinito, anche se nella lapide commemorativa si è ritenuto di propendere, rispettivamente, per 52 e per 187. In realtà non mancano stime sia riduttive sia superiori, senza dire di un elenco dettagliato di 62 vittime con tanto di nomi e cognomi. In realtà, il clima di forte reazione dopo i tumulti, e le rilevazioni approssimative che ne seguirono, furono causa di notevoli imprecisioni mai corrette, ferma restando la viva sensazione popolare di una gravissima ingiustizia a danno precipuo delle classi subalterne. Bisogna aggiungere che tra i morti si annoverarono anche tre militi appartenenti alla forza pubblica, probabilmente per il fuoco incrociato fra i diversi reparti intervenuti: le testimonianze sono state concordi nel riferire che i dimostranti erano disarmati, a conferma che la strage aveva tratto origine principale dall’inesperienza, e dalla palese incapacità di chi si sarebbe dovuto limitare a garantire l’ordine. Non a caso, il Re Vittorio Emanuele II, che le cronache definiscono in preda all’ira, impose «senza voto parlamentare» le dimissioni al Governo di Marco Minghetti, a fronte di un’accusa senza appello: quella di avere ordinato la repressione «con ferocia e incompetenza». Tra i Ministri dimissionari, il titolare degli Interni, Ubaldino Peruzzi, fu preso particolarmente di mira (se non altro perché Toscano: nacque nel 1822 proprio a Firenze di cui era stato Gonfaloniere fra il 1848 e il 1850) anche dalla folla ostile che andò a dimostrare sotto la sua abitazione. In meno di una settimana sarebbe entrato in carica il primo Governo di Alfonso Ferrero La Marmora (28 settembre 1864).

3 Contestualmente, le interrogazioni parlamentari che erano state presentate per fare luce maggiore sui fatti di Torino e sulle loro matrici non ebbero fortuna. Infatti, le forze di maggioranza, guidate da un altro Toscano, il barone Bettino Ricasoli (primo Presidente del Consiglio nella nuova Italia unita), ebbero buon gioco nel promuoverne l’archiviazione, alla luce di superiori interessi nazionali. Come sarebbe accaduto in tanti altri episodi storici della lunga stagione liberale protrattasi fino alla Grande Guerra, il velo dell’oblio – garantito dalla ragione di Stato – avrebbe fatto il resto, e le vittime rimasero senza giustizia.

4 La clamorosa sconfitta di Sédan subita dalle armate francesi quale sostanziale iterazione di Waterloo, a poco più di mezzo secolo dalla fine del primo Napoleone, fu l’occasione offerta al Regno d’Italia per «andare a Roma» nel giro di due settimane: ancora una volta, l’imprevisto costituiva un «quid novi» idoneo a consentire la realizzazione di un programma «massimo» atteso dai democratici per un intero decennio, ma come Nicolò Machiavelli avrebbe realisticamente suggerito, era necessario affrettarsi a «cogliere la fortuna», e così fu fatto con Porta Pia, superando la dicotomia che aveva caratterizzato tutto il periodo successivo all’affermazione dell’Unità. Con la Convenzione di settembre la rinunzia a Roma era stata implicitamente sottoscritta, mentre il partito d’azione ispirato da Mazzini sembrava incapace di superare i limiti della mera deontologia trastullandosi col grido velleitario di «Roma o morte». In realtà, come da corrette rilevazioni della storiografia più recente, anche «i moderati erano stati conquistati» dalla causa di Roma, pur senza parlarne «apertis verbis» (confronta Ernesto Ragionieri, Dall’Unità a oggi: lo Stato liberale, in Storia d’Italia, Edizioni Einaudi – Il Sole 24 Ore, volume XI, Milano 2005, pagina 1.706).

(ottobre 2018; ripubblicato: maggio 2022)

Tag: Carlo Cesare Montani, Regno d’Italia, Roma, Venezia, Torino, Firenze, Piemonte, Europa, Regno di Sardegna, Fenestrelle, Aosta, Marche, Campania, Toscana, Stato Pontificio, Crimea, Sédan, Waterloo, Porta Pia, Benedetto Croce, Edmondo De Amicis, Gustavo Ponza di San Martino, Napoleone III, Gioacchino Pepoli, Papa Pio IX Mastai Ferretti, Vittorio Emanuele II di Savoia, Marco Minghetti, Ubaldino Peruzzi, Alfonso Ferrero La Marmora, Bettino Ricasoli, Napoleone Bonaparte, Nicolò Machiavelli, Giuseppe Mazzini, Ernesto Ragionieri, Camera dei deputati, Grande Guerra, Convenzione di settembre, Sillabo degli errori del nostro tempo, Guerra franco-prussiana del 1870, strage del 1864 a Torino, trasferimento della sede del Governo a Firenze.