La presa di Roma
Storia di una battaglia mai avvenuta

Nell’anno 1866, dopo la Terza Guerra d’Indipendenza, l’unificazione dell’Italia non era ancora terminata: all’appello mancavano Trento, Trieste, l’Istria e la Dalmazia, occupati dall’Austria, e Roma e il Lazio, che costituivano lo Stato della Chiesa, governato dal Pontefice. Era però sentimento comune che, per rendere unita la Penisola, fosse necessario che anche Roma e il Lazio facessero parte dello Stato Italiano. Dopo la proclamazione del Regno d’Italia, Camillo Benso conte di Cavour, nelle memorabili sedute al Parlamento del 25 e 27 marzo 1861, aveva espresso molto chiaramente il suo pensiero sulla questione romana, dichiarando che «Roma deve essere capitale d’Italia, perché essa è l’unica città italiana che non abbia una storia semplicemente municipale; senza Roma capitale d’Italia, l’Italia non si può costituire», precisando però che l’unificazione sarebbe dovuta avvenire nel pieno rispetto dei diritti di libertà e di indipendenza della Chiesa. E la Camera aveva acclamato Roma capitale d’Italia.

C’era però più d’un ostacolo alla realizzazione di questo progetto.

Innanzitutto bisognava fare i conti con l’opposizione del Pontefice, Pio IX, preoccupato del rischio da parte dello Stato Italiano di ingerirsi di prepotenza negli affari della Chiesa; era inoltre suo convincimento che solo possedendo un dominio terreno, al Papa fosse possibile svolgere il suo ministero divino.

Il secondo ostacolo era costituito da Napoleone III: l’Imperatore dei Francesi, spinto anche da una parte dell’opinione pubblica del suo Paese, era sempre stato un deciso sostenitore del Papa, e si era detto disponibile a ritirare da Roma il presidio militare francese che vi stazionava dal 1848, solo qualora l’Italia si fosse impegnata a rispettare l’integrità dello Stato Pontificio.

Il terzo ostacolo era costituito dal grande rispetto che gli Italiani nutrivano per il Pontefice. Lo stesso Vittorio Emanuele II, quando fu costretto all’opzione militare, commentò: «Anca custa balussada am fan fa» («Anche questa sciocchezza mi fan fare»).

Così, la questione romana si era trascinata per anni. A nulla erano approdati i negoziati di Carlo Passaglia e Antonio Rosmini, o il tentativo militare di Garibaldi del 1862. Nel 1867 Garibaldi fece un altro tentativo di prendere la città, confidando in un’insurrezione interna organizzata dai fratelli Enrico e Giovanni Cairoli; ma i fratelli Cairoli furono sorpresi ed uccisi dalle milizie pontificie, l’insurrezione non si verificò e Garibaldi il 3 novembre 1867 fu sconfitto a Mentana dalle truppe papaline e francesi armate coi nuovi fucili a tiro rapido Chassepot (in seguito il vincitore di Mentana, il De Failly, telegrafò a Parigi che «gli Chassepot hanno fatto meraviglie», per rialzare il prestigio dell’industria bellica francese, mentre invece erano armi pessime e dovettero essere subito sostituite).

Tre anni dopo capitò un’altra occasione: nel 1870 scoppiò la guerra tra Prussia a Francia e quest’ultima, che non era preparata al conflitto, chiese aiuto all’Italia; ma quando il Governo Italiano chiese la cessione di Roma come prezzo dell’intervento, Napoleone III interruppe le trattative. Fu però costretto a ritirare dalla Città Eterna i 23.000 uomini che vi aveva lasciato di presidio, affidando alla lealtà dell’Italia le sorti dello Stato Pontificio.

Naturalmente, nella Penisola esplosero agitazioni per una pronta offensiva contro Roma, ma il Governo resistette ad ogni pressione attendendo lo svolgersi delle vicende belliche. Quando però giunse la notizia che Napoleone III era stato sconfitto a Sedán e che in Francia era stata proclamata la Repubblica (4 settembre 1870), il Governo Italiano fu sciolto dagli impegni contratti con un Sovrano decaduto e sconfessato dalla sua stessa Nazione, e giudicò finalmente giunto il momento di agire. Ma prima volle tentare un ultimo accomodamento, e l’8 settembre inviò a Roma il conte Ponza di San Martino con una lettera del Re per il Papa, al quale supplicava «con affetto di figlio e fede di Cattolico» di consentire l’occupazione pacifica della città, assicurandogli piena libertà nell’esercizio del ministero religioso. Ma il Pontefice fu costretto a rispondere «non possumus» («non possiamo»).

Al Generale Raffaele Cadorna fu ordinato di passare il confine con le truppe e procedere alla presa di Roma: 50.000 uomini tra fanti, bersaglieri e artiglierie penetrarono nello Stato Pontificio l’11 settembre, accolti dalla popolazione con lanci di mazzi di fiori e cesti di frutta e scoppi di mortaretti, e il 17 posero l’assedio all’Urbe.

Roma era allora una città sporca e ciabattona che contava 230.000 abitanti, di cui 50.000 erano disoccupati e 30.000 accattoni, con una Curia e un’aristocrazia sceiccali, e una borghesia di avvocati, notai e appaltatori che formavano il sottogoverno laico della Curia. Splendidi palazzi barocchi erano incastrati in ragnatele di tuguri. Il quadro di Rudolf Wiegmann, che mostra una veduta del fiume Tevere, con Castel Sant’Angelo e la Basilica di San Pietro, dipinto nel 1834, dà l’idea di una città povera, solo memore delle antiche glorie, avvolta in un silenzio quasi irreale e come sospesa fuori dallo scorrere del tempo, in un attimo immutabile. Si era appena concluso il Concilio Vaticano I, che aveva sancito il dogma dell’infallibilità del Papa (il Papa è infallibile quando parla «ex cathedra»), ma non quello del potere temporale.

Roma, veduta verso il fiume Tevere, Castel Sant'Angelo e Basilica di San Pietro

Rudolf Wiegmann, Roma, veduta verso il fiume Tevere, Castel Sant'Angelo e Basilica di San Pietro, 1834

La mattina del 20 settembre 1870, mentre le campane suonavano le 5 e mezza, la 5a batteria del 9° reggimento della 6a divisione aprì un fuoco tambureggiante contro le mura fra Porta Pia e Porta Salaria, che si frantumavano e crollavano in una nube di polvere; alle 6 e 40 cedette un tratto del muraglione, ma il capitano Giacomo Segre, comandante la batteria, ordinò di continuare il fuoco per abbassare il livello della breccia. Vennero sparati circa 880 colpi di cannone, finché, alle ore 10, il varco – largo ormai una trentina di metri – fu giudicato sufficiente e le trombe suonarono l’assalto. Due colonne di fanteria, al grido di «Savoia!», irruppero nella breccia; il settimo bersagliere ad entrare nella città fu il garibaldino Carlo Gandolfi, già decorato con due Medaglie d’Oro al Valor Militare (una per l’impresa dei Mille e l’altra per la Terza Guerra d’Indipendenza), trisnonno di chi scrive. Il Papa aveva ordinato al Generale Kanzler di non opporre resistenza se questo avesse dovuto provocare spargimento di sangue, e fu ubbidito. I reggimenti di fanteria e i battaglioni di bersaglieri occuparono la città regolarmente, senza disordini e senza violenze; non vi fu battaglia e l’unico morto fu un comandante di battaglione dei bersaglieri che si sparò da solo, accidentalmente. I soldati stranieri furono disarmati e rimpatriati, mentre il Papa si rinchiuse in Vaticano, dichiarandosi prigioniero dell’Italia.

Breccia di Porta Pia

La breccia, qualche decina di metri sulla destra di Porta Pia, in una foto d'epoca

Il 2 ottobre 1870, con un grande plebiscito (40.785 voti favorevoli e 46 contrari), Roma dichiarava la sua annessione all’Italia. Il 2 luglio 1871 il Governo si trasferiva nella Città Eterna, che iniziava la sua nuova vita come Capitale dell’Italia!

(gennaio 2018)

Tag: Simone Valtorta, Risorgimento Italiano, presa di Roma, Stato della Chiesa, Regno d’Italia, Cavour, Pio IX, Napoleone III, Vittorio Emanuele II, Carlo Passaglia, Antonio Rosmini, Giuseppe Garibaldi, fratelli Cairoli, battaglia di Mentana, 1870, conflitto franco-prussiano, Ponza di San Martino, Raffaele Cadorna, Rudolf Wiegmann, Concilio Vaticano I, dogma dell’infallibilità del Papa, potere temporale della Chiesa, 20 settembre 1870, Giacomo Segre, Carlo Gandolfi, Generale Kanzler, breccia di Porta Pia.