Giuseppe Mazzini, un idealista impopolare
Lo hanno definito un «eterno perdente»: ma è stato anche un uomo dotato di grande coraggio e tenacia, che ha lottato per tutta la vita per far trionfare le proprie idee

Giuseppe Mazzini

Giuseppe Mazzini, 1° Gennaio 1860

I moti rivoluzionari che la Carboneria aveva suscitato in Italia dal 1820 al 1831 erano tutti falliti: la massa del popolo non aveva mai preso parte alle insurrezioni e l’Austria aveva avuto gioco facile contro i pochi patrioti che si erano ribellati al suo governo dispotico. Per il timore che i loro piani venissero scoperti dalla polizia austriaca, infatti, i Carbonari avevano comunicato soltanto tra loro, illudendosi che il popolo li avrebbe spontaneamente seguiti al momento del confronto armato: insomma, non avevano saputo svolgere un’adeguata propaganda. Chi pensò di porre rimedio a questi errori, organizzando altri programmi ed altri metodi d’azione, fu un grande patriota, egli stesso carbonaro: Giuseppe Mazzini!

Nato a Genova il 22 giugno 1805, Giuseppe Mazzini riceve un’educazione nobile e forte da sua madre Maria Drago, che lo guida ad interessarsi, fin da ragazzo, agli esuli piemontesi; si iscrive alla Carboneria che è ancora uno studente di neppure 23 anni, e presto diventa uno dei membri più attivi, tanto che gli vengono affidate mansioni molto rischiose. Ha un sogno: l’Italia unita, e per questo sogno si batterà per tutta la vita; è infatti un idealista, un uomo ardente ma anche staccato dalla realtà, e per questo destinato ad una lunga serie di fallimenti. Cosa che gli varrà il poco gratificante epiteto di «eterno perdente». Nel novembre del 1830 una spia lo tradisce: viene arrestato e rinchiuso nella fortezza di Savona, dove inizia a stilare il programma d’azione di una nuova società segreta che, nei suoi pensieri, dovrebbe prendere il posto della Carboneria. Dopo due mesi gli è concessa la libertà, ma ad una ben precisa condizione: scegliere di andare al confino in una piccola città del Piemonte o abbandonare la patria. Mazzini sceglie l’esilio: all’estero, riflette, sarà più libero di mettere in atto il grande programma che ha ormai in mente. Lo troviamo a Marsiglia quando, insieme a pochi patrioti fidati, getta le basi della sua nuova società segreta: la «Giovine Italia», così chiamata perché vuole rivolgersi soprattutto ai giovani, che sono pieni d’entusiasmo e di forza. È il 1831.

La nuova società agirà molto diversamente dalla Carboneria: essa farà conoscere a tutti gli Italiani il suo programma, tenendo coperti dal segreto soltanto i nomi degli iscritti, per sottrarli alle persecuzioni della polizia austriaca. E il programma si riassume in poche e precise parole: costituire un’Italia unita, indipendente, libera e repubblicana.

Mazzini si pone subito all’opera: propaganda tra il popolo italiano le nuove idee pubblicando un breve trattato, I doveri dell’uomo, articoli su giornali (particolarmente su «L’Italia del popolo») e manifesti, scrivendo lettere (ha un Epistolario ricchissimo) e tenendo discorsi. Indirizza persino una «lettera aperta» al Re Carlo Alberto, salito al trono proprio nel 1831, invitandolo a liberare l’Italia: ma egli rimane convinto che tocca al popolo, e non ai Sovrani, insorgere contro gli oppressori stranieri per creare l’unità del Paese. «Dio e il popolo» è il suo motto, in cui meglio si rivela la sua formazione illuministica. Migliaia di patrioti vogliono entrare a far parte della «Giovine Italia», tanto che in meno di due anni gli iscritti sono più di 50.000... forse è proprio per merito di Giuseppe Mazzini che inizia il «vero» Risorgimento Italiano!

Nel 1832 alcuni suoi scritti cadono nelle mani della polizia austriaca. Accordatosi con l’Austria, il Governo Francese ordina a Mazzini di abbandonare la Francia. Egli finge di ubbidire: si reca a Lione, ma di nascosto torna a Marsiglia; per non farsi riconoscere, esce solo di notte, travestito da donna o da guardia nazionale. Quando le forze di polizia francesi vengono a sapere che Mazzini è ancora nella città provenzale, tentano di costringerlo ad andarsene: ma lui mette in atto un semplice e nello stesso tempo geniale stratagemma, facendo partire dalla Francia un amico che gli somiglia e beffando le autorità. Non può lasciare Marsiglia, perché è lì che ha formato il centro direttivo della «Giovine Italia».

L’iscrizione alla nuova società segreta non richiede le strane e complicate cerimonie a cui costringe la Carboneria: chi vuole entrare a farne parte deve giurare di non rivelare i segreti della società anche a prezzo della vita, si sceglie un nome convenzionale per porsi al riparo il più possibile dalle persecuzioni della polizia e si procura un pugnale, un fucile e 50 cartucce. Giuseppe Mazzini sceglie per sé il nome di Filippo Strozzi; quando Giuseppe Garibaldi si iscrive anch’egli alla «Giovine Italia», assume il nome di Giovanni Borel.

L'incontro di Mazzini con Garibaldi

Anonimo, L'incontro di Mazzini con Garibaldi nella sede della Giovine Italia, XIX secolo, Museo Nazionale del Risorgimento, Torino (Italia)

Compito principale degli appartenenti alla «Giovine Italia» è quello di far conoscere il più possibile al popolo gli scopi che la società si è prefissa di raggiungere: essi si incaricano di ricevere e di distribuire segretamente i giornali, le riviste e gli opuscoli che Mazzini va scrivendo e inviando da Marsiglia. Per far giungerre in Italia quegli scritti, vengono escogitati i più ingegnosi stratagemmi: o li si affida ai marinai di navi francesi che toccano i porti della Penisola, o a contrabbandieri che dalla Svizzera si recano in Italia attraverso i passi alpini. Gli scritti sono nascosti di solito nel centro di botti contenenti catrame oppure nel doppiofondo di casse o bauli.

Le idee della «Giovine Italia» si diffondono così rapidamente tra il popolo, che due anni dopo la fondazione della società Giuseppe Mazzini crede sia giunto il momento di passare all’azione. Purtroppo commette un errore: il popolo, sebbene spronato da un’attivissima propaganda, è fatalmente rassegnato a piegarsi all’ubbidienza anche di un Governo tirannico, e rimane in disparte, inerte, spettatore. Questo spiega perché i moti rivoluzionari organizzati da Mazzini si risolvano quasi tutti in insuccessi, a cominciare da Genova nel 1832, dalla fallita invasione della Savoia due anni dopo, da Imola nel 1843; un altro gruppo di patrioti è costretto a prendere la via dell’esilio. Ma, anche dopo la sconfitta, egli non cambia idea: è fermamente convinto che le insurrezioni dei patrioti servano da esempio per suscitare nel popolo il sentimento nazionale. Anche gli stranieri hanno compreso con quanta tenacia Mazzini si dedichi alla sua missione: il principe di Metternich dichiarerà che «chiunque studia il carattere di Mazzini può dire che egli non abbandonerà mai la partita».

Molti che da principio hanno creduto in Mazzini, ora si staccano da lui: gli riconoscono il merito di aver reso chiaro il concetto dell’unità d’Italia, ma gli rimproverano di essere astratto, di non capire la vera situazione italiana, di mandare a morte sicura molti giovani, e di aver avuto troppa fiducia nel popolo – quel popolo che non ha seguito i rivoltosi ma è rimasto apatico, indifferente, lontano.

Se Mazzini rappresenta il partito estremista, quello che per cambiare le cose crede sia necessaria la rivoluzione, c’è un altro partito che va sorgendo, e che si rafforza e guadagna credito proprio grazie agli insuccessi dei moti mazziniani: è quello dei moderati, di coloro cioè che sono convinti che l’unità d’Italia si possa ottenere senza rivoluzione, o per vie politiche e diplomatiche, o affidandosi al Piemonte. Il maggior rappresentante dei moderati è Vincenzo Gioberti, un sacerdote torinese mandato in esilio perché simpatizzante per la «Giovine Italia». Gioberti pubblica in Belgio, nel 1843, un libro che ottiene un grande successo: Il primato morale e civile degli Italiani. Se Mazzini ha fallito – scrive – è perché ha dimenticato che il popolo italiano è in maggioranza cattolico; lancia così la sua proposta: quella di formare una federazione di stati italiani, sotto la presidenza del Papa. Una tale dottrina politica prende il nome di «neoguelfismo» perché riprende l’idea medievale della funzione unificatrice del Cristianesimo con a capo il Papa. L’idea di una confederazione italiana a guida papale incontra il favore di molti patrioti: Alessandro Manzoni, Silvio Pellico, Rosmini, il Tommaseo, Cantù, Gino Capponi, credono così di poter conciliare il Cattolicesimo col liberalismo; l’idea viene ripresa da Cesare Balbo nel libro, anch’esso fortunatissimo, Le speranze d’Italia (1844). Molti moderati si raggruppano attorno alla rivista milanese «Il Conciliatore», e più tardi attorno alla rivista fiorentina «L’Antologia». Certo, il Risorgimento conta anche altre correnti, ma non sono che rivoli, vene solitarie che confluiranno assieme solo nella grande personalità di Camillo Cavour e nella sua politica.

È in questi anni che nasce la bandiera italiana, il tricolore: sembra certa la sua derivazione dalla bandiera francese nata durante la Rivoluzione. Adottato per la prima volta dalle milizie lombarde al seguito di Napoleone nell’ottobre 1796, il 7 gennaio dell’anno successivo a Reggio Emilia diventa lo stendardo della Repubblica Cispadana; viene usato nei moti del 1821 e del 1831; nel 1848 Carlo Alberto ne fa la bandiera dello stato sabaudo. I colori sono il rosso (simbolo del sangue versato per la patria), il bianco (che richiama le distese innevate delle Alpi) e il verde (la natura: l’Italia era chiamata «il giardino d’Europa»), che indicano i diritti naturali dell’uomo: uguaglianza e libertà.

La sconfitta dell’esercito piemontese nella Prima Guerra d’Indipendenza contro l’Austria convince sempre più i seguaci di Mazzini che l’insurrezione del popolo sia l’unico mezzo per raggiungere l’indipendenza della patria. E decidono di agire a Roma! Vi è sul soglio Pio IX (al secolo Giovanni Mastai-Ferretti, nato a Senigallia nel 1792), eletto il 1° giugno 1846 alla morte di Gregorio XVI: è un uomo mite, pio, pieno di bontà e di carità, che viene senza sua intenzione identificato con il Papa liberale vaticinato da Gioberti. L’insurrezione scoppia il 15 novembre del 1848: il Ministro Pellegrino Rossi, propenso ad un accordo con l’Austria, viene ucciso, e il Papa è costretto alla fuga. I rivoluzionari istituiscono una nuova forma di governo: la Repubblica. A reggere questa Repubblica è chiamato proprio Giuseppe Mazzini: dopo tanti anni di esilio, ha finalmente l’occasione di stabilirsi in Italia. Ma è un ritorno di breve durata: il 4 luglio del 1849 Francesi ed Austriaci riescono ad abbattere la Repubblica Romana, e Mazzini è costretto a riprendere la via dell’esilio. Ingiustamente si è parlato di un «tradimento» del Papa, che avrebbe prima sostenuto e poi sconfessato le aspirazioni dei patrioti; in realtà, Pio IX è soprattutto preoccupato degli aspetti religiosi: nel 1854 proclama il dogma dell’Immacolata Concezione e nel 1868 convoca il Concilio Vaticano I, che si apre l’8 dicembre 1869 e definisce il dogma dell’infallibilità del Papa in materia di fede e di costumi.

Pur lontano dalla patria, Mazzini continua a lottare per la sua idea: un’Italia repubblicana; tuttavia, al di sopra dell’idea repubblicana, sta la sua grande passione per l’indipendenza e l’unità della Penisola. Così, quando vede che Vittorio Emanuele di Savoia si fa promotore dell’unità e dell’indipendenza italiana, e che senza di lui ogni opzione di vittoria sarebbe vana, si dichiara pronto ad accettare un’Italia monarchica.

Nel 1870, con la presa di Roma, l’Italia è quasi tutta libera e indipendente (mancano ancora all’appello Trento, Trieste, l’Istria, Fiume e la Dalmazia): a ciò Mazzini sente di aver dato un notevole contributo, mantenendo vivo negli Italiani l’amore verso la patria. Il grande intellettuale si spegnerà a Pisa, il 10 marzo 1872.

(agosto 2017)

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