Giuseppe Binda
Un ex agente murattiano al servizio della causa nazionale

Non intendo con queste parole sminuire il valore incommensurabile del patriota Giuseppe Mazzini che ha saputo, con la sua insostituibile fede nel progresso e nel repubblicanesimo, dare linfa vitale all’intero assetto politico italiano ed europeo. Sarebbe necessario tuttavia, ritengo, fare maggiore chiarezza sulle dinamiche complesse che portarono alcuni individui non altrettanto lineari nel loro percorso politico, ma pur tuttavia in contatto ed inseriti nel panorama mazziniano, a rappresentare quegli anelli di congiunzione che permisero al grande agitatore ed uomo politico genovese di non arrendersi mai nei suoi tentativi insurrezionali, anche quando questi parevano del tutto possibilità insperate.

Quelle che sto per scrivere sono le «gesta» patriottiche di un uomo considerato, non a torto, quasi un transfuga delle nostre questioni risorgimentali. Eppure sono proprio i suoi paradossi, i buchi neri che caratterizzano le sue vicende, a permettere una rilettura più dettagliata di situazioni che a tutt’oggi sono spinose e bollenti. Ho voluto riunire la frammentarietà dei documenti con la rivisitazione dei contesti e dei personaggi, che ruotarono intorno al protagonista, Giuseppe Binda, per tratteggiare un quadro di riferimento che superi la barriera delle fonti, divenuta tale nel corso del tempo da non permettere neppure una sistematica visione dei soli contesti di riferimento.

Giuseppe Binda nacque nella mia città, Lucca, a fine Settecento e cavalcò il XIX secolo, sempre in bilico tra i suoi personali interessi e gli interessi più generali della Penisola. Divenne avvocato ma con ogni evidenza, considerata la sua «carriera diplomatica», non esercitò a lungo la professione. Possedeva una villa a Segromigno di Lucca, ed ho conosciuto il personaggio grazie al dottor Roberto Pizzi, che di lui ha parlato in una sua pubblicazione sul Risorgimento Lucchese. Ciò perché nel 1831 nella villa lucchese appartenuta a Giuseppe Binda vennero intercettati il padre di Giosuè Carducci, Michele, il conte Bichi e Ghilardi Angiolini, genero del diplomatico Luigi Angiolini, tutti patrioti e uomini vicini alle sette segrete del tempo. Luigi Angiolini, suocero di Ghilardi Angiolini, era stato amico personale di Giuseppe Bonaparte, fratello maggiore di Napoleone I; il cavaliere di Pietrasanta tanta parte ebbe nelle trame politiche della Penisola a partire dal Settecento. Luigi Angiolini infatti era un diplomatico e fu al servizio degli Asburgo Lorena, poi dei Borboni di Napoli. Si trasferì successivamente in Inghilterra, da qui in Francia, dove ebbe la figlia Enrichetta, che legittimò e portò con sé in Italia. Il loro salotto a Seravezza fu, nel corso di tutto il XIX secolo, un punto di raccordo ed incontro di letterati e politici di spessore. L’Angiolini padre morì nel 1821. I patrioti individuati a Segromigno nel 1831 ed arrestati poi a Pietrasanta vennero sospettati di appartenere alla setta segreta degli Apofasimeni, fondata in Piemonte dal conte di Saint Jorioz, con tendenze mazziniane. A Segromigno in quel periodo l’avvocato Binda non c’era, aveva solo concesso la sua casa ai tre amici congiurati. Lui, che diverrà console statunitense a Livorno, si trovava ancora a New York. Incuriosita sul personaggio e cercando di far mente locale tra i miei ricordi di bambina su accenni percepiti in famiglia ad un Binda, mi sono incuriosita ancor di più e mi sono messa a cercare.

Giuseppe Binda in Rassegna storica del Risorgimento, anno 1916, lo troviamo come un agente di Gioacchino Murat. In particolare fu lui che doveva tenere i contatti con Lord Bentick, quando questi si trovava a Genova, ed ancora «Re Gioacchino» sperava di ricucire i rapporti con Londra, per poter unire la Penisola in via definitiva sotto la sua personale sovranità. Giuseppe Binda fu scoperto nel suo passaggio tra Firenze e Lucca dal Generale Austriaco Werklein e dovette riparare a Londra. Riprese in quel frangente i contatti con Lord Bentick l’agente di Murat Macirone, che raggiunse Genova, sostituendo Binda, ma con scarsi risultati: Lord Bentick aveva fatto la sua scelta, le mire di Murat furono ritenute dagli Inglesi impraticabili in quel preciso momento, e tutti sappiamo come andò a finire.

Il ruolo politico dell’agente Giuseppe Binda è ben descritto in Rassegna storica del Risorgimento, anno 1916. È certamente interessante comprendere i vari passaggi qui definiti della vicenda murattiana. Vi scopriamo infatti che «Re Gioacchino, si prefiggeva nel 1815, col concorso dei giovani patrioti desiderosi in tutta Italia di cacciare l’Austria dalla Penisola, col sostegno inglese, di presentarsi come un innovatore anche se, di fatto, gli Inglesi non avevano alcuna fiducia nelle sue potenzialità di catalizzatore. D’altra parte il Murat stesso, forte di rapporti solidi proprio con Lord Holland, che però era whig ed aveva contro il parlamento conservatore, si sforzava in quel periodo di riannodare le relazioni con l’Inghilterra da un grosso partito, ufficialmente rotte, e di staccarla dalla solidarietà con l’Austria nel suo riguardo. Faceva perciò incaricare di una missione segreta presso Lord Bentick il capo sezione del Ministero degli Affari Esteri Giuseppe Binda, persona di sua fiducia e che conosceva il diplomatico Lord Bentick. Il Binda però, mentre da Firenze ove aveva sostato, si dirigeva per Lucca verso Genova, fu arrestato d’ordine del luogotenente austriaco Werklein e fu trovato latore di carte importanti, fra cui una lettera del Gallo[1] al Binda in data di Bologna 11 aprile, con cui gli era inviato un duplicato della risposta alla nota del 5 aprile, nel timore che l’originale inviato per parlamentare agli avamposti austriaci non giungesse al Bentick troppo tardi; istruzioni ed ordini destinati ad agire sul Bentick, a cui il Murat si impegnava a dare tutte le possibili garanzie; lettere di Lord Holland al Binda e al Bentick; un progetto di costituzione per il Regno di Napoli scritto da Lord Holland; e infine due lettere sigillate del Gallo al Bentick, che furono rimesse senz’essere aperte al Lord Inglese che le reclamò».

Di Giuseppe Binda troviamo alcune notizie nei carteggi inglesi di vari personaggi, tra i quali Ugo Foscolo, ai tempi del suo soggiorno londinese. Era infatti stato lo stesso Binda a presentare il Foscolo a Lord Holland, portavoce principale della corrente whig a Londra, e che aveva fondato uno dei salotti letterari più esclusivi della capitale inglese. Giuseppe Binda e Lord Holland si erano conosciuti nel periodo fiorentino del Binda, quando lo stesso Holland viveva a Firenze. Ufficialmente Giuseppe Binda a Holland House era il bibliotecario di fiducia di Lord Bentick. Per comprendere il clima in quella casa e soprattutto il quadro di riferimento londinese del nostro possiamo leggere tranquillamente in una pubblicazione[2] del 1906 di Lady Saymour le vicende di John Whishaw. Si tratta di selezioni dalla corrispondenza di John Whishaw e dei suoi amici dal 1813 al 1840.

John Whishaw, conosciuto come «il Papa di Holland House», nato nel 1764 e deceduto nel 1840, fu un celebre avvocato inglese, che divenne un leader della società whig. Fu molto amico dell’altrettanto celebre uomo politico inglese whig Francis Horner, che dopo aver combattuto il riarmo inglese contro Napoleone I dopo la sua fuga dall’Isola d’Elba, aver caldeggiato la formazione di Stati di diritto in Europa ed essersi opposto ai dettami del Congresso di Vienna, da lui definiti «il Saccheggio d’Europa», si recò in Italia nel 1816 per gravi problemi di salute ed ivi morì a Pisa. Fu sepolto nel cimitero inglese di Livorno.

L’8 novembre 1815 Whishow ricorda che a Holland House ci fu una cena commovente, dove era curioso sentir parlare persone appartenenti a tutte le Nazioni ed in lingue diverse. Tra questi ospiti, i più interessanti del gruppo, viene sottolineato, erano il grande scultore italiano Antonio Canova e il di lui fratello, l’Abate Giambattista. Ad una fisionomia suggestiva lo scultore Canova aggiungeva grande semplicità di modi, un fluido parlare con tutti, grazie al suo umorismo gentile e discreto, grande entusiasmo per le arti, e una disposizione apparentemente più amabile di altri ospiti. Risulta che Canova amasse conversare sui Papi, sia del passato che della sua epoca; nonché dei suoi dialoghi con Napoleone Bonaparte, che gli aveva concesso di parlare nel suo dialetto veneto. Con Bonaparte Canova, stando ai suoi racconti, aveva supplicato per la causa papale, anche quando il Pontefice era in cattività. L’Abate Canova viene descritto invece come più silenzioso del fratello, privo del genio dello scultore. Il religioso si dedicava anima e corpo al fratello, con cui viveva costantemente. Leggeva anche la corrispondenza dell’artista quando questi era impegnato col suo lavoro.

Tra i personaggi presenti ad Holland House Whishaw cita Giuseppe Binda, come «un Italiano intimo di Lord Holland e ivi presente per diverso tempo, con una storia alle spalle in qualche modo interessante». Era stato legato ai Governi Tardo-Romano e Napoletano, buttato fuori da una brillante carriera per i destini della Rivoluzione in Italia. Durante gli anni di prosperità nel suo Paese era riuscito a raccogliere una buona biblioteca e alcuni manoscritti curiosi e autografi. Questi ultimi era riuscito a portarli con sé in Inghilterra per destinarli al Museo Inglese, che pareva volesse acquistarli. Whishaw fece da tramite nella negoziazione col Museo con scarso risultato. Pur tuttavia Giuseppe Binda gliene fu molto riconoscente. Il nostro si era legato particolarmente in Italia sia con Lord Holland che con Bedfords, alias Lord Francis Russell. Giuseppe Binda era molto amabile e gentile con chi lo aveva invitato in Inghilterra; aveva all’attivo una grande quantità di informazioni. Lo stesso autore delle lettere dichiarava che voleva conoscerlo meglio, anche perché il Binda pareva destinato a restare a lungo in Inghilterra.

L’accenno di Whishaw ai fratelli Canova non è certamente casuale. In Italia erano proprio stati gli ambienti canoviani, anche in epoca murattiana, ad aver tentato un avvicinamento tra le posizioni più retrive della Chiesa Cattolica e le frange più democratiche, spinte dal rinnovamento.[3] E lo stesso Binda aveva con tali ambienti avuto serrati legami. Cessato il breve momento rivoluzionario del 1815, tutto era tornato come prima, grazie al Congresso di Vienna. O, forse, si cercò di far tornare tutto come in precedenza.

Whishaw ricorda che Giuseppe Binda doveva un giorno recarsi a Bath, celebre cittadina termale, ma lo stesso Whishaw voleva indirizzarlo a Easton Gray House, nello Wiltshire, luogo che divenne celebre qualche tempo dopo come residenza di Lord Asquith.

La familiarità di John Whishaw con Giuseppe Binda è evidente nella descrizione che di lui ci rilascia in data 6 marzo 1817: «Lord Warburton mi informa che è certo di andare con Binda domani a Easton Grey. Ho fatto un pacco per lui e per Binda».

Come ricorda Lady Saba Holland nel suo libro di memorie dedicato al padre, il Reverendo Sidney Smith, a Calais, sulla Manica, lo stesso Reverendo fece una cena stupenda grazie alla scelta oculata dei cibi che Giuseppe Binda, ivi presente, gli consentì. Un personaggio, John Smith, si pronunciava a favore dell’istruzione delle donne, dell’abolizione della schiavitù e dell’insegnamento delle materie pratiche piuttosto che dei classici. Insomma, l’intero ambiente whig che Giuseppe Binda frequentava era indubbiamente fucina non solo politica, ma soprattutto di idee progressiste.

John Whishaw colloca poi Giuseppe Binda, nella sua descrizione, come trasferitosi a New York, nella buona società cittadina. Non saprei dire se il nostro ivi si trasferì perché in contrasto con l’ambiente politico di Holland House, questo non è riportato. Nel Dizionario Biografico Rosi troviamo un Giuseppe Binda, gentiluomo lucchese che, stabilitosi all’estero anche per ragioni di commercio, si trovò, in Inghilterra, poco fortunato negli affari. Per tale motivo si recò negli Stati Uniti e vi fu largo di festose accoglienze ai deportati politici del 1830. Certamente Giuseppe Binda era anche un importante collezionista, e non possiamo escludere che il suo trasferimento negli Stati Uniti fosse dovuto essenzialmente a questo. Se poi consideriamo i rapporti strettissimi tra la migliore società whig londinese e i liberali newyorkesi, ritengo che il cambiamento avrebbe potuto esser dettato anche da strategie politiche.

A questo proposito riporto un brano tratto da una recente pubblicazione,[4] visto anche il proseguo delle vicende del nostro, che divenne successivamente console americano a Livorno: «Gli studi presentati riguardano in prevalenza l’attività dei consoli americani e ovviamente le relazioni commerciali tra la Toscana, il suo principale porto e gli Stati Uniti dall’indipendenza americana al secolo XIX. Si trattò di un momento cruciale per il mutamento della figura del console, non più intermediario eletto dai commercianti di una Nazione ma personalità la cui opera doveva contribuire allo sviluppo dei commerci e dell’influenza economica dello Stato che lo nominava».[5] Mi soffermerei su questa intelligente osservazione. Giuseppe Binda e i consoli che citerò, riportati nella descrizione in oggetto, erano essenzialmente uomini d’affari che muovevano da una generale concezione politica liberista «tout court». E con questa frase intendo dire che non c’erano scappatoie, mezze misure, convincimenti legati al passato d’antico regime europeo. Erano uomini nuovi, questa la condizione essenziale perché il Governo degli Stati Uniti li potesse nominare in quella veste, soprattutto in una terra come la Toscana, ed in Livorno, dove il progressismo degli stessi Asburgo Lorena, per quanto modesto, era del tutto evidente. Questo quanto appare dalla descrizione del testo menzionato: «Tuttavia il commercio con gli Stati Uniti era già stato avviato indipendentemente dalla presenza di una rete consolare per effetto di un interesse tanto vivo nelle gazzette labroniche che non aveva trovato però una risposta governativa allorché Filippo Mazzei aveva suggerito allo stesso Pietro Leopoldo l’organizzazione di un traffico con le Americhe. Quanto non era stato possibile, per non turbare gli equilibri internazionali e forse l’ostilità delle case commerciali, lo fu per Anton Francesco Salucci, capace di organizzare un traffico sulle rotte oceaniche, concorrente a quello proveniente dagli Stati Uniti e Canada, mentre attraverso un’abile politica matrimoniale, Anton Francesco riusciva ad entrare nel mondo armatoriale. La ditta Salucci sarebbe stata sostituita da Filippo Filicchi, suo delegato alle corrispondenze ed incaricato a New York, dove potette intrecciare rapporti con i commercianti cattolici». Come possiamo comprendere da queste poche righe sin dalla fine del Settecento Livorno, ma direi la Toscana intera ed il suo porto di riferimento divennero un luogo strategico nei traffici commerciali con la potenza emergente americana.

Giuseppe Binda è un uomo nuovo e vive accanto a uomini nuovi che come lui, seppur legati ad una tradizione, anche familiare, che affondava le radici nell’antico regime europeo, non solo aspiravano ad altro, ma in ogni modo, nel solco della tradizione, volevano, soprattutto grazie alle novità introdotte dalle gesta napoleoniche, contribuire a rinnovare la parte migliore, più progressista, della loro stessa tradizione. E qui avrò modo più avanti di chiarire, riferendomi soprattutto all’ambiente lucchese di provenienza di Giuseppe Binda.

Continuo a questo punto con la descrizione tratta dal libro menzionato: «I Governanti degli Stati Uniti, che erano stati i primi a decidere la nomina dei propri rappresentanti consolari, nel 1798 nominarono a Livorno Thomas Appleton, Bostoniano affascinato dalla cultura francese e dall’opera riformatrice napoleonica durante il cui consolato furono molte le navi transitate dal porto toscano e la bilancia commerciale si mantenne costantemente favorevole agli Stati Uniti».

La recensione di una recentissima pubblicazione[6] mette in luce come punto fermo nella ricostruzione dei rapporti tra Italia e Stati Uniti nei momenti rilevanti della loro storia che la potenza americana pose il suo primo consolato in Italia proprio a Livorno nel 1894. Il console Appleton, figura essenziale che per ben quarantadue anni rimase in carica, ossia dal 1798 al 1840, ricoprì l’incarico nel momento decisivo di passaggio dall’epoca napoleonica al periodo della Restaurazione. Attraverso il porto di Livorno si scambiavano non solo merci, ma soprattutto idee e cultura tra Granducato e Stati Uniti. La stessa città di Livorno divenne un punto privilegiato di osservazione, una finestra sul Mediterraneo e luogo d’attrazione che calamitava i viaggiatori in giro per il mondo.

I riferimenti a questo punto divengono politici. Nel 1840, siamo nel bel mezzo della lotta politica risorgimentale, l’ex agente ed avvocato Giuseppe Binda va a ricoprire il ruolo che fu di Lord Appleton. Quando ancora il Binda si trovava a New York, ossia nel 1831, la sua villa di Segromigno veniva da lui offerta come punto di riferimento a patrioti toscani che militavano, pare, nelle fila degli Apofasimeni di Saint Jorioz. Tra questi il padre di Giosuè Carducci, Michele, che come sappiamo fu legato al movimento mazziniano. Che cosa rappresentava la dottrina politica di Giuseppe Mazzini in America? Certamente un modello, il modello per antonomasia più vicino alla rappresentatività statunitense, dove la Repubblica era la forma politica esaltata e che qui aveva trovato completa attuazione, mentre nella vecchia Europa ancora le varie dinastie la facevano da padrone. Un sistema politico, quello mazziniano, che prese corpo proprio negli anni Trenta del XIX secolo, e che vide nella giovine Europa delle Nazioni un modello che in qualche modo precorreva i tempi, avvicinandosi indubitabilmente al modello americano.

Proprio nel 1840 Giuseppe Mazzini vive quella che gli storici chiamano «la tempesta del dubbio», ossia da Londra, osservatorio in questo senso privilegiato, si rende conto che i suoi propositi avranno difficilmente una concreta attuazione immediata. Pur tuttavia Mazzini è uomo d’idee oltre che d’azione, e quindi non demorde certo di fronte alle difficoltà. Che cosa si scrive in proposito di Giuseppe Binda? Riporto a tal riguardo alcune affermazioni tratte dal testo sulla presenza degli Stati Uniti a Livorno che ho precedentemente citato: «Questa fioritura [di commerci tra gli Stati Uniti e Livorno] si attenuò nel periodo della Restaurazione anche a causa del nuovo console, Giuseppe Binda, il quale, per quanto non avesse l’apertura culturale dell’Appleton, si comportò egregiamente durante la repressione austriaca del 1849, aiutando l’emigrazione di diversi patrioti».[7] Perché un uomo come Giuseppe Binda fu posto in quell’incarico, a sostituire per giunta un Appleton, un uomo per cultura e tradizione autenticamente americano?

Una spiegazione la possiamo trovare nelle restanti parole del testo menzionato: «Le difficoltà degli scambi commerciali incontrate dai due consoli [Appleton e Binda] erano dovute alle chiusure protezionistiche americane. Negli anni Venti peraltro sarebbe stato nominato un console toscano a Boston, mentre i cittadini statunitensi scoprivano il gran tour. Fortunato sarebbe stato anche il mercato di opere d’arte acquistato da Appleton e Binda; tale commercio sarebbe continuato nel secolo XIX facendo la fortuna di studiosi e mercanti che sono riusciti a riempire case di ricchi borghesi e musei americani di una quantità di opere capace di rivaleggiare con le vituperare depredazioni napoleoniche».

Appleton è un liberal convinto, un autentico nuovo gentleman americano. Giuseppe Binda non ha nulla del gentleman, se non il suo progressivo inserimento nella società e nei gusti inglesi prima, americani poi. Che cosa avvicina i due uomini? È del tutto evidente che la presenza dei due consoli ha un valore politico che travalica i loro traffici commerciali e la loro formazione.

Lo storico Sergio Di Giacomo, con le sue pubblicazioni, ha ben trattato l’intero quadro di riferimento del console Giuseppe Binda negli anni cruciali che vanno dal 1848 al 1859: «Il 14 luglio 1840, successivamente alla morte del console Appleton avvenuta il 27 aprile, dopo un breve periodo di vacatio, il Governo Americano nominava come console nella città labronica un cittadino italo-americano, Joseph A. Binda. Originario di Lucca, sposato con una cittadina americana della famiglia Sumter, questi aveva ottenuto la cittadinanza americana due mesi prima della nomina, il 10 giugno 1841, come testimonia il certificato redatto presso la Corte dello Stato del South Carolina. La nomina di Binda, così celere e decisa, si deve alle pressioni politiche dell’influente famiglia della moglie, i Sumter, originari del South Carolina, legati all’ambiente miliare (il suocero era Generale dell’esercito) e politico del Congresso, col fratello della moglie Senatore. Lo stesso Binda, nella lettera del 27 aprile 1857, indirizzata al Segretario di Stato Lewis Cass, ricorda senza remore come il Presidente Von Buren lo avesse nominato come Console a Livorno in considerazione “dei servizi forniti al Paese dal suocero generale Sumter del South Carolina e da suo figlio”, ricordando anche “alcune note” in suo favore che erano state inviate a C. Calhoun quando questi era Segretario di Stato».[8] Problemi di natura familiare, ben documentati, gli impedirono di prendere servizio immediatamente, non appena ricevuto l’incarico. Ancora nel 1842 il cognato di Binda, Senatore Sumter, scriveva al Segretario di Stato Statunitense per chiedere una proroga nella presa d’ufficio del cognato, in difficoltà per i suoi problemi familiari.

Scrive ancora lo storico Di Giacomo: «Egli comunque, con orgoglio professionale, metterà in evidenza il suo impegno profuso nella riorganizzazione dell’Ufficio Consolare che per un certo tempo era stato abbandonato a causa delle sue antiche origini e delle infamità del predecessore [queste almeno le convinzioni del Binda]».[9]

Prosegue nella sua trattazione lo storico Di Giacomo, riferendosi al console Binda e ai suoi rapporti con l’entroterra risorgimentale livornese: «Una volta insediatosi e preso possesso delle sue funzioni, il console Binda si inserirà pienamente nel tessuto economico e sociale di Livorno e della Toscana, facendosi osservatore e testimone importante per il Dipartimento di Stato della realtà che stava vivendo la Toscana Risorgimentale tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, allorché più volte denunciava lo stato d’assedio imposto dalle forze militari austriache alleate del Granduca Toscano», «cui soggiacque Livorno».[10] Una realtà dura, che colpiva l’intero Impero Austriaco: il console americano mostrava alle autorità del Departement le sue critiche e la sua indignazione per la politica asburgica; un vero e proprio “cahiers de dolèance” e un severo atto di accusa di notevole valore e significato che ci offre uno sguardo acuto e sprezzante della politica austriaca praticata in quel periodo in Toscana. Uno strumento in più per le autorità americane per conoscere meglio i travagli politici europei e italiani. Durante le rivolte del 1848 e 1849 livornesi, insieme alle fregate da guerra inglesi e francesi, erano presenti lo sloop americano a propulsione mista a vela e a vapore Princeton e la fregata Constitution. Il console Binda si adoperava, insieme ai marinai statunitensi, per porre in salvo cittadini americani e livornesi in un ruolo di assistenza prezioso, anche se gli ordini militari parlavano di intervento navale «solo per sostenere i cittadini americani in difficoltà a causa di gravi disordini o di guerre locali». Non a caso la sede consolare americana di Via Goldoni sarebbe divenuta in questo periodo luogo simbolo dove la folla poteva manifestare la propria tensione verso gli ideali liberali. Subito dopo la presa di potere da parte dei democratici Guerrazzi e Montanelli e la fuga del Granduca avvenuta a gennaio, per celebrare il momento di gloria i patrioti sceglievano anche il consolato americano. Nel febbraio del 1849 il corrispondente americano del «Daily Tribune» di New York descriveva con partecipazione la manifestazione festosa che vedeva protagonista proprio il console Binda il quale, seguendo le direttive governative, cercava di non farsi coinvolgere: «La grande piazza era piena di gente, tutta riunita intorno all’Albero della Libertà, che portava una bandiera ancora nuova tra le Nazioni, intesa a rappresentare la Repubblica Unita della Toscana e di Roma. La folla si recò poi alla casa del console degli Stati Uniti e lo chiamò alla finestra». Egli disse loro che non era costume del Governo Americano intromettersi negli affari interni di una Nazione, «e che gli Stati Uniti avevano sempre mantenuto questo principio», riconoscendo il Governo «de facto» quale Governo «de jure», aggiungendo «che per quanto i desideri degli Americani potessero essere favorevoli al nuovo ordine di cose, pure il Governo lasciava che le altre Nazioni determinassero da sé la propria forma di Governo».[11] Lo storico Di Giacomo, opportunamente ricorda dunque come il Governo Statunitense, «qui come negli altri Stati Italiani, cercasse di evitare ogni coinvolgimento nelle turbolente questioni locali, limitando la partecipazione diretta dei consoli coinvolti trascinati talvolta loro malgrado dal desiderio di dare e ottenere attestati di solidarietà da parte dei patrioti locali. Il tutto con l’obiettivo di non compromettere rapporti diplomatici e commerciali nell’ambito delle delicate relazioni che in quegli anni si cercavano di rafforzare e di intensificare con gli Stati Italiani». Prosegue lo storico Di Giacomo nella sua descrizione: «Sempre nel 1849, nei giorni che precedevano la restaurazione del Granduca, Livorno era sede di scontri che vedevano protagoniste le truppe austriache e americane», di cui abbiamo testimonianza grazie alle corrispondenze del giornalista dell’«Herald» di New York. Il primo scontro si aveva quando le navi americane davanti al porto «vollero salvare molti dei capi della rivoluzione di quella città». Il 12 maggio «un marinaio del brigantino statunitense Lamartine, rimasto a terra, interveniva in soccorso di patrioti che stavano per essere arrestati dalle truppe austriache, accoltellando due soldati e rimanendo colpito a morte».

Se esaminiamo dunque le carte del periodo, alcune domande sorgono spontanee: perché il console Binda, col suo passato murattiano, con i trascorsi whig in Inghilterra, un Toscano legato al mondo dei patrioti toscani del periodo, come appare visibilmente nel 1831, venne inviato dal Governo degli Stati Uniti proprio nel porto strategico di Livorno? Non possiamo pensare che le autorità americane non fossero a conoscenza dei trascorsi di Giuseppe Binda, che fra l’altro, e ciò è provato dai documenti, fu festeggiato a New York dai fuoriusciti italiani, quando ivi si recò, una volta negli Stati Uniti. Insomma, perché permettere a Giuseppe Binda di occupare una poltrona così delicata proprio a Livorno, luogo davvero strategico sul piano politico in quel preciso momento storico? Consideriamo, ribadiamolo, la provenienza di Giuseppe Binda, i suoi legami con l’entroterra livornese, il suo essere vicino ai patrioti italiani che si erano rifugiati a New York e a chi, in Patria, si prodigava per modificare le sorti della Penisola. Nel 1831 Giuseppe Binda non si era mostrato reticente verso questi patrioti, anche dagli Stati Uniti. L’entroterra livornese fu rifugio proprio del padre di Giosuè Carducci, Michele; ma anche luogo dove studiò e si formò il futuro Papa Pio IX, in quel di Volterra. A Livorno sbarcavano continuamente merci sospette e soprattutto uomini che facevano la spola con la Corsica, luogo d’elezione dei patrioti di ogni colore politico. Insomma, definiamolo tranquillamente luogo caldo, che, conoscendo i trascorsi di Giuseppe Binda, avrebbe potuto essergli particolarmente congeniale. All’epoca gli stessi Bonaparte, che lui conosceva bene, erano ardenti mazziniani.

E le ricerche che ho condotto sul Padre Gesuita Gioacchino Prosperi riconducono proprio al mondo bonapartista rivoluzionario del periodo in Corsica.[12] Padre Prosperi era Lucchese e proveniva dagli stessi ambienti di Giuseppe Binda. Inserirei a questo punto le «vicende familiari nostrane» di Giuseppe Binda. In Lucca giacobina del dottor Tori troviamo riferimenti ad un Pietro Binda in Lucca ed ai suoi legami con le vicende rivoluzionarie del periodo rivoluzionario del 1799. Intorno al 1720 poi un Padre dei Chierici Regolari della Madre di Dio dal nome Binda, Padri che afferivano in Lucca all’Ordine degli Scolopi, si trova negli elenchi ufficiali dell’Ordine. Tali Padri avevano la Casa Madre in Lucca, una seconda Casa in Roma ed una terza Casa in Genova. Ritengo importante sottolineare il ruolo prioritario che gli stessi Padri Scolopi ebbero nel corso del Settecento e nei primi anni dell’Ottocento nell’educare molti degli uomini che poi avrebbero avuto un ruolo decisivo nelle questioni rivoluzionarie risorgimentali. Gli studi condotti sull’argomento ci ricordano quanto gli Scolopi Liguri (ma la città di Lucca aveva diretti legami anche geografici, con la realtà genovese) si prodigarono nel primo Ottocento tra educazione, assistenza e letteratura;[13] [14] gli elementi in nostro possesso ci offrono un panorama politico in cui uomini come Giuseppe Mazzini ed il compagno di studi e di vita politica Giuseppe Elia Benza, nonché in Toscana lo stesso Giosuè Carducci, in epoca successiva, si formarono proprio presso i Padri Scolopi. Il legami esistenti dei quadri dell’Ordine col mondo giansenista, con gli ambienti ultramontani ed il senso di comunione con una scuola più «popolare» rispetto al filone gesuita, ne facevano i diretti interlocutori di una visione più «liberale» della società, che coinvolse maggiormente chi si sentì più in sintonia con i tempi nuovi. Come poi ho ricordato, riferendomi al periodo in cui Giuseppe Binda visse a Holland House, furono i Canoviani ad avere anche in Lucca un preciso legame con gli stessi ambienti di quei Padri Scolopi, almeno lucchesi. I riferimenti sono personali, ma non per questo meno probanti sul piano storico. Un aristocratico lucchese del tempo, Lorenzo Pierotti (molti suoi congiunti sono stati Scolopi e sepolti nella Casa Madre Lucchese), il 1° gennaio 1815 scrisse a Ranieri Zucchelli da Empoli a Pisa, riferendosi al conte Lazzari di Torino, visto che ci parla di nuova patria di un loro comune amico e di un pastore (protestante), tale D’Amico, con cui entrambi avevano stretti contatti. Con ogni evidenza il conte Lazzari potrebbe essere il futuro capo della polizia sabauda di Carlo Alberto. Le questioni dei due convenuti appaiono «questioni patriottiche» di naturalizzazioni di patrioti in Piemonte. Quest’uomo (Lorenzo) ebbe legami col Principato dei Baciocchi, che spiegherebbero i suoi trascorsi canoviani, ma anche con i Bonaparte votati alla causa mazziniana,[15] visto che alcuni membri di quella famiglia risultano ospitati in Benabbio, Bagni di Lucca, negli anni Trenta del XIX secolo ufficiosamente qui protetti dal Duca Lucchese Carlo Ludovico. E in Benabbio, peraltro piccolissima frazione, la famiglia di Lorenzo aveva proprietà.[16]

Ranieri Zucchelli era un religioso. La lettera, presente alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze,[17] proviene dalla collezione di Pelagio Palagi, l’Architetto che negli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo ristrutturò Torino, compresa la palazzina di Stupinigi. L’impronta dei personaggi è canoviana.

Negli anni Cinquanta Binda verrà destituito dall’incarico, quando non sarà più in linea con le posizioni politiche del neonato Stato Unitario Italiano, almeno questa fu la motivazione ufficiale. Venne infatti sospettato di essere filo francese, e dunque favorevole ad un forte Stato nell’Italia Centrale, sotto l’egida di Leopoldo II, cosa che peraltro fu poi ritenuta priva di autentico fondamento politico. Binda mediò per conto dei Bonaparte, è presumibile; ma mai si pronunciò ufficialmente a favore di tale soluzione politica, come risulta dalle sue carte in nostro possesso.

Giuseppe Binda aveva legato col Principe Walewsky, figlio naturale di Napoleone I e di Maria Walewska. Apprendiamo dai carteggi del Massari[18], da Torino, in data 29 agosto 1859 quanto segue: «È giunto qui il Binda; dice che vuole andare a Parigi; ma io sospetto che abbia ordine dal suo amico Walewsky di rimanere a Torino per sorvegliare le accoglienze che si faranno alla deputazione toscana». Walewsky non approva la politica filo sabauda del cugino Napoleone III. Tant’è che quest’ultimo gli darà incarichi defilati pur di allontanarlo da un ruolo centrale nella sua politica estera. Walewsky ha sposato una nobildonna toscana e perora la causa degli Asburgo Lorena, che in quel momento sono piuttosto graditi dalla nomenclatura toscana come garanzia di fronte alle incertezze politiche che si stanno profilando. Ma combattere contro le mire espansionistiche sabaude poteva preludere ad un avvicinamento verso quei sovversivi patrioti che ancora erano una spina nel fianco per il futuro Stato Sabaudo allargato almeno al Centro-Nord della Penisola, così come si prospettava prima dell’impresa garibaldina. C’è un particolare riferimento sempre ad un Giuseppe Binda nel carteggio di Urbano Rattazzi del 1857[19]: «Torino, 26 giugno 1857: Al Cavalier Amulfi, luogotenente colonnello dei R. R. Carabinieri di Genova[20]. [Sono in procinto di raggiungere Genova] certi Giuseppe Binda di Monza o vicinanze ed Elena Casati , già ricettatrice di Mazzini a Zurigo. Sarà necessario conoscere se vi si trovino tutt’ora». Un omonimo Giuseppe Binda o più semplicemente l’ex agente Binda che abbiamo conosciuto in veste di uomo d’azione sin dai tempi del Murat? Le autorità non erano bene informate sulle generalità del patriota menzionato.

In Cremona in quel periodo abbiamo due avvocati Binda, fratelli. Sono Luigi ed Antonio, entrambi mazziniani ed entrambi coinvolti nelle vicende del grande genovese anche dopo l’Unità Nazionale. Il nostro si chiamava per esteso Giuseppe Antonio Binda, altra particolare coincidenza. Posso al momento solo dire che Giuseppe Mazzini subito dopo l’Unità si rivolse sia ad Antonio Mordini che a Nicola Fabrizi per progettare un’insurrezione in Lunigiana. Entrambi non risposero positivamente e Mazzini dovette cambiare destinatari. Sia Mordini che Fabrizi facevano parte delle conoscenze e/o vissuto dell’ex console Giuseppe Binda, come risulta dalle vicende dei miei avi.[21] Il figlio di Lorenzo, Cesare, fu coinvolto negli «Amici del popolo» a Firenze nel 1849 mentre Giuseppe (1827-1884) risulta essere il pittore amico di Raffaello Lambruschini, Gino Capponi, Cosimo Ridolfi e lo scienziato Antinori, come appare in un suo dipinto che appartiene a Marco Panta Ridolfi, da lui gentilmente concesso a Palazzo Medici Riccardi nel 2010, in occasione delle celebrazioni risorgimentali in Firenze.[22]

Troviamo nel 1839 un Giuseppe Binda (non meglio identificato) che con Basilio Soresina pubblica sul Vocabolario universale delle Scienze degli Ingegneri ed Architetti civili, militari e navali. La pubblicazione è a Milano, all’interno della Serie dei testi in Lingua e di altre opere importanti della Letteratura italiana dal secolo XIV al XIX di Bartolommeo Gamba. I Gamba furono particolarmente vicini alle posizioni liberali che nel tempo sostennero anche le rivoluzioni mazziniane, sin dal 1823-1824 quando il conte Pietro Gamba si rifugiò a Genova.[23]

Quando da qui, nel 1849, il Generale Giuseppe Avezzana fuggì, da ricercato, per raggiungere Giuseppe Mazzini a Roma e divenire il Ministro della Guerra della Repubblica Romana, si imbarcò su un’imbarcazione statunitense (già era cittadino americano) diretta a Civitavecchia. Fece però tappa a Livorno e, in una sua pubblicazione sulla vita del nonno, la nipote Giuseppina Romano nel 1880 ci descrive l’episodio. Giuseppe Avezzana si fermò in Livorno e, per l’occasione, fu visitato dal console Binda, che viene descritto da Giuseppina Romano come filo austriaco. Pare che per l’occasione abbia sollecitato il comandante della nave statunitense dove il Generale era imbarcato a non sbarcarlo a Civitavecchia perché ritenuto elemento pericoloso. Quella pubblicazione è del 1880, ma apprendiamo da un successivo testo del 1940 che in realtà a Livorno Giuseppe Avezzana cambiò imbarcazione e si diresse a Civitavecchia con altra nave, sempre statunitense; dunque non la stessa in cui si era imbarcato a Genova.[24] Con tutta evidenza il console Binda aveva concesso all’Avezzana di far perdere le sue tracce. Infatti in Civitavecchia il Generale con Nino Bixio e Goffredo Mameli si recò dal Triumvirato Mazzini, Saffi, Armellini, che lo nominò immediatamente Ministro della Guerra. Avrebbero potuto questi personaggi in Civitavecchia agire così, indisturbati, senza il cambio d’imbarcazione in Livorno dell’Avezzana? E Giuseppe Binda certamente non si preoccupò di avvertire le autorità dell’accaduto! Era il Binda in contatto con Mazzini? Certamente questo non possiamo dirlo. Ma questi passaggi non ci appaiono come fortuiti, per quanto non possiamo dimostrarlo. Il console Binda in ogni caso si batté animatamente in quel 1849 nel proteggere tutti i patrioti che cercavano rifugio negli Stati Uniti, segno evidente delle sue convinzioni. La fluidità dei tempi non aiutò certamente il nostro, vista la delicatezza del ruolo ricoperto in Livorno. Delicatezza che si profilò all’orizzonte proprio a partire dalle vicende del 1848-1849.

Trascrivo in proposito le opportune osservazioni dello storico Di Giacomo, tratte ancora dal suo citato saggio su Giuseppe Binda, console a Livorno: «Sempre nel 1849, nei giorni che precedevano la restaurazione del Granduca, Livorno era sede di scontri che vedevano protagoniste le truppe austriache e americane», di cui abbiamo testimonianza grazie alle corrispondenze del giornalista dell’«Herald» di New York. Il primo scontro si aveva quando le navi americane davanti al porto «vollero salvare molti dei capi della rivoluzione di quella città»: il 12 maggio un marinaio del brigantino statunitense Lamartine rimasto a terra, interveniva in soccorso di patrioti che stavano per essere arrestati dalle truppe austriache, accoltellando due soldati e rimanendo colpito a morte nella colluttazione. Successivamente un soldato austriaco ubriaco veniva picchiato duramente perché aveva insultato il medico di una nave americana. Episodi che potremmo definire emblematici, tanto che «fu detto che gli Austriaci avevano antipatia per gli Americani, perché avevano salvato i responsabili della rivoluzione a Livorno». Alcuni aggiungevano persino che gli Austriaci avevano dato ordine di insultare gli Americani tutte le volte che venivano a terra. I primi anni Cinquanta erano caratterizzati dal pesante stato d’assedio imposto dal Governo Toscano in combutta con le truppe austriache. Un regime poliziesco che coinvolgeva anche gli stranieri che frequentavano la città labronica e che verrà più volte denunciato dal console americano Binda. Questi nell’esercizio delle sue funzioni nel 1854 sarà costretto anche a intervenire nel caso dell’arresto del cittadino americano Win che aveva espresso pubblicamente alcune idee liberali: un arresto che sarebbe degenerato in condanna a morte se non ci fosse stato l’interessamento diretto di Binda e le minacce del Commodoro Silas H. Stringham, comandante delle forze navali americane, che si trovava all’epoca nella base di La Spezia. In una relazione del 1852 il diplomatico usa parole forti e dirette per dare il quadro dell’oppressione asburgica. Egli parlerà di «schiavitù austriaca», osservando come il Governo Toscano non fosse in grado di ritornare ad un sistema «legale e regolare»: le truppe austriache, composte da novemila, diecimila soldati erano «l’autentica prigione di Livorno», in quanto, e si facevano chiamare «truppe ausiliarie», in appoggio a quelle governative, erano in realtà i veri dominatori.

Le preoccupazioni esternate dal console Binda erano comuni a tutti gli stranieri che vivevano a Livorno in quel periodo. Lo storico Di Giacomo fotografa, con questa descrizione, il clima della realtà toscana che ivi si respirava: «Una situazione instabile e preoccupante [quella di Livorno] che coinvolgeva le attività economiche e commerciali e che vedeva gli stessi Inglesi lamentarsi con le autorità locali: diverse e “forti” erano infatti le lamentazioni da parte dei Britannici che della realtà toscana avevano fatto oggetto di discussioni parlamentari e di possibili atti di accusa, seppure in modo “garbato”». Nella stessa relazione del 17 aprile 1852 (citata) Binda coglieva l’occasione per esporre il suo sguardo preoccupato sia sulla realtà toscana sia su quella italiana del Risorgimento, lacerata e conflittuale, carica di resistenze al nuovo e di spinte rivoluzionarie. Uno scontento che avvolgeva il Granducato come l’intera Penisola: errori, divisioni e paure dei liberali non avevano ancora fatto perdere gli ardori indipendentistici che – annotava il console statunitense con acume – «stanno ancora vivendo» nella massa della popolazione, e soprattutto nella parte giovane, tanto che una nuova rivoluzione si stava preparando «per un futuro non troppo distante».

Le frasi di Giuseppe Binda riecheggiano le vicende che solo qualche anno dopo si manifesteranno apertamente. Giuseppe Binda è certamente un uomo attivo nelle questioni politiche del periodo. Nonostante la sua carica consolare e, forse, proprio grazie a questa, tale da consentirgli di osservare la realtà del momento da una finestra privilegiata, il console Binda, forte di un passato politico di tutto rispetto, può, ritengo, mantenere i suoi contatti dentro e fuori la Penisola. I personaggi lucchesi che ho descritto precedentemente furono nel corso di tutto il XIX secolo non solo testimoni vigili e attenti di quanto accadeva, ma partecipi delle vicende dell’intero periodo. In Lucca, nel 1902, in località Sant’Alessio, dove dimoravano alcuni di loro, morì lo scienziato Riccardo Felici, rettore dell’Università di Pisa e diretto collaboratore del patriota e scienziato Carlo Matteucci. Il Felici, come si apprende da una recente pubblicazione di un suo discendente, l’ex console Giuseppe Ferrari, era figlio illegittimo di Ugo Foscolo ed Isabella Roncioni, la nobildonna pisana che Foscolo rappresentò nelle Ultime lettere di Iacopo Ortis nel personaggio di Teresa. Sempre nella stessa località, nel 1874, morì Nicola Cattaneo dei Cattaneo di Corsica, nipote del principe Felice Baciocchi. Di lui Giovanni Gentile in «Archivio di Corsica», anno 1926, rivista soppressa diretta da Gioacchino Volpe, ebbe a scrivere che, se avesse ritrovato le sue carte, avrebbe riscritto la storia d’Italia. Solo un minuscolo fascicolo sui Cattaneo è presente all’Archivio di Stato di Lucca. Ma dalle poche righe ivi contenute apprendiamo della reale portata internale del ruolo di questi personaggi, che fecero della città di Lucca, e proprio del paesino di Sant’Alessio, a due chilometri dal centro cittadino, motivo d’elezione. Il Cesare che partecipò al 1848 fiorentino tra gli «Amici del popolo» morì nel 1901, e fu dunque vicino non solo geograficamente ma anche idealmente a questi personaggi. Sono dunque le loro difficoltà politiche reali e visibili che li accompagnarono nel corso di tutto il XIX secolo la spina nel fianco cui si rivolge in quel 1852 Giuseppe Binda, anche lui presumibilmente frequentatore degli stessi salotti dei convenuti lucchesi.

Scrive in proposito lo storico Di Giacomo: «Per questo suo interesse attivo nelle questioni politiche interne toscane, il console Joseph A. Binda avrebbe perso la sua qualifica consolare. Dopo l’abdicazione di Leopoldo II il 27 aprile 1859 il Governo Provvisorio sotto la direzione di Bettino Ricasoli toglieva a Binda, acceso sostenitore del regime di Leopoldo, “il riconoscimento ufficiale”, e la sua “qualifica per l’esercizio dei suoi doveri di ufficio”, sulla base di accuse che in seguito si sarebbero rivelate false. Di fatto il console era stato accusato di essere membro attivo dei “codini”, partito ostile al nuovo regime, e inoltre di aver brindato pubblicamente a favore del vecchio Governo alla cena del principe Poniatowski, amico del Granduca e dello stesso Binda. Come osserva Marraro, che parla di “disgraziato incidente”, l’inchiesta promossa dal Ministro Americano John M. Daniel dimostrò come “il console americano non avesse provocato in alcun modo il provvedimento preso contro di lui”, un’“ingiustizia” dovuta a false informazioni di spie e informatori. Un’azione che viene descritta dal Daniel in un documento del 18 ottobre 1859 indirizzato al Segretario di Stato Cass come “una scortesia verso gli Stati Uniti” da parte di uomini di Governo che “avevano mancato di rispetto ad una Nazione amica”.

In realtà da una lettera in nostro possesso datata 5 novembre 1859 veniamo a conoscenza come Binda già nell’estate del 1858 fosse stato licenziato e si trovava a Parigi, dove il Granduca viveva esule, su sollecitazione dei Francesi, per appoggiare il suo ritorno in Toscana. In questa missiva indirizzata al Segretario di Stato Lewis, un certo Bowker Torrey, probabilmente un rappresentante o impiegato del consolato livornese, informava delle attive negoziazioni il Binda sia a Firenze che a Parigi e della presa d’ufficio momentanea dal luglio 1858 del consolato livornese da parte dell’Italiano Emilio Masi, con gravi ripercussioni di natura burocratica e finanziaria: “Eccellenza, vorremmo richiamare la vostra attenzione sul modo in cui questo consolato è stato gestito gli ultimi sedici mesi. Il signor Joseph A. Binda, che tiene questo ufficio da molti anni, ha lasciato il posto il mese di luglio 1858, lasciando il consolato in mano al signor Emilio Masi, Italiano”».

Chi è Emilio Masi? Effettivamente un uomo votato alla «causa francese»? Ma soprattutto, la «causa francese» è così omogenea? Voglio dire, la volontà di Napoleone III è coincidente a quella del principe suo cugino Walewski?

Proseguo con la descrizione che lo storico Di Giacomo mi ha gentilmente suggerito, contenuta nel suo saggio su Giuseppe Binda: «Verso il mese di agosto scorso [Binda] è tornato per qualche giorno, trascorrendo la maggior parte del tempo in Firenze, dove egli fu mandato dal Governo Francese per negoziare il ritorno del fuggitivo, il Granduca Leopoldo, o di suo figlio. Immediatamente dopo il suo ritorno a Livorno, egli è ripartito per Parigi, dove si trova tutt’ora. Voi vi siete probabilmente informati del suo licenziamento da parte del Governo Toscano per il fatto di essersi interessato degli affari politici del Paese, e di conseguenza noi siamo senza un console. Il signor Binda [che, aggiungerei, non si preoccupa dei provvedimenti a suo carico, visto il proseguo febbrile delle sue attività] aveva lasciato la sua firma, litografata, per il signor Masi, da essere utilizzata con discrezione, e noi abbiamo avuto dei documenti legalizzati e ricevuti con la sua firma in questo modo. Abbiamo bisogno ora di un atto consolare e siamo in grande difficoltà anche pecuniaria, per l’assenza del console. Noi speriamo vivamente che vogliate portare il nostro caso all’attenzione del Presidente e che non si perda altro tempo nella nomina di un console che potrà rappresentare gli Stati Uniti come dovrebbe».

Ma gli Stati Uniti, nella persona dello stesso Presidente Buchanan, non hanno tutta questa fretta nello sciogliere Binda dal suo mandato. Credono poco nelle strategie politiche innestate dal movimento unitario nella Penisola in quel frangente? Nella sua affidabilità reale? Eppure non nutrivano certamente ossequi verso Leopoldo II, che tante pene aveva provocato ai cittadini statunitensi e non solo, grazie al suo sostegno verso le truppe asburgiche in Livorno.

Ma l’intera compagine internazionale non guardava all’Italia come ad una possibile certezza politica. Semmai preoccupavano parecchio le complesse macchinazioni piemontesi. Giuseppe Binda era viceversa una certezza, rappresentava quel «moderatismo» che avrebbe potuto fare la differenza. Ed era ben introdotto anche nei circuiti rivoluzionari, se non altro per la sua storia pregressa.

«Dagli Studi approfonditi di Silvestrini sul movimento anti unitario in Toscana» prosegue il dottor Di Giacomo nella su trattazione, «è possibile apprendere come Giuseppe Binda venisse considerato dal Ricasoli come “persona notoriamente venduta alla politica del Ministro Francese Walewski”. Il console svolse infatti nell’autunno del 1859 un ruolo importante di mediatore fra Walewski e Ferdinando IV nell’esilio di Lindau, durante le febbrili trattative legate al ritorno del Granduca in Toscana. Binda, da “vero capo e regolatore della reazione” nelle sue visite da inviato diplomatico spingeva il Granduca affinché concedesse l’amnistia e formasse un Governo moderato, suggerendo anche un proclama ufficiale in cui annunciava il suo ritorno in Patria. La missione fallita di Binda, che lo aveva messo in vista e in prima linea contro i movimenti rivoluzionari, lo costrinsero a perdere la qualifica consolare».

Bettino Ricasoli, conosciuto come il Barone di Ferro, era più propriamente un «Barone Rampante», per dirla con Calvino. E un Binda attivo nelle vicende politiche toscane rappresentava certamente, al di là della riuscita delle sue trattative, una spina nel fianco. L’accanimento terapeutico verso il nostro fu quantomeno vivace. Prosegue il dottor Di Giacomo: «Nonostante l’interessamento diretto del Governo Statunitense e la minaccia dello stesso Presidente Americano Buchanan di intervento militare dimostrativo, il Governo Americano era quindi costretto a ritirare la nomina consolare a Binda. Atto effettuato probabilmente per motivi di opportunità politica per evitare tensioni che potevano compromettere gli antichi e preziosi rapporti politici e commerciali. L’esequatur del Governo Toscano “al console d’America Giuseppe Binda” verrà ritirato ufficialmente con un documento datato 2 ottobre 1859. In verità fino al 1861 il nuovo console non entrò definitivamente in possesso del suo ufficio. L’ufficio consolare statunitense rimaneva in stato precario, sotto la guida del signor Masi, fino al 1862, quando il Governo Americano avrebbe nominato il signor Andrea Stevens. La Regia Prefettura del Compartimento di Livorno certificherà la nomina il 9 gennaio di quell’anno».

Solo un fatto burocratico oppure il Governo degli Stati Uniti attese che le questioni interne italiane si definissero? Ciò porterebbe a pensare che la questione Binda non fosse soltanto «farina del suo sacco». Certamente il suocero Generale Sumter lo volle prioritariamente nell’incarico. Forse per ragioni di prestigio. Naturalmente qui il condizionale è d’obbligo. Il Governo degli Stati Uniti fu comunque il primo a riconoscere ufficialmente il neonato Regno d’Italia.[25]


Note

1 Marzio Mastrilli, marchese poi duca di Gallo (diplomatico borbonico che poi passò a collaborare con Giuseppe Bonaparte nel 1806 e successivamente con Murat nel 1808. Quest’ultimo lo creò duca).

2 Il Papa di Holland House, pubblicazione tratta dai carteggi di John Whishaw di Lady Saymour per l’editore T. Fisher Unwise di Londra, 1906.

3 Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, sezione carteggi manoscritti, Lettera di Lorenzo Pierotti a Carlo Zucchelli in Pisa 1° gennaio 1815. Lorenzo Pierotti era Lucchese come Binda ed apparteneva come lui ai circoli canoviani.

4 Storia e attualità della presenza degli Stati Uniti a Livorno e in Toscana, a cura di Paolo Castignoli, Luigi Donolo, Algerina Neri. Pisa, Edizioni Plus, 2003.

5 Storia e attualità della presenza degli Stati Uniti a Livorno e in Toscana, a cura di Paolo Castignoli, Luigi Donolo, Algerina Neri. Pisa, Edizioni Plus, 2003, pagina 321 e seguenti.

6 Bostoniani a Livorno: il console Thomas Appleton e i suoi conterranei, Algerina Neri, Pisa, edizioni Plus, 2012.

7 Storia e attualità della presenza degli Stati Uniti a Livorno e in Toscana, a cura di Paolo Castignoli, Luigi Donolo, Algerina Neri. Pisa, Edizioni Plus, 2003.

8 Sergio Di Giacomo, Il Consolato americano di Joseph A. Binda nella Livorno preunitaria attraverso i Reports consolari, «Rivista Storica Toscana del Risorgimento».

9 Now, DUSC-L, Lettera del 31 agosto 1841.

10 G. Baldasseroni, Leopoldo II di Toscana e i suoi tempi, pagina 411.

11 Sergio Di Giacomo, Il Consolato americano di Joseph A. Binda nella Livorno preunitaria attraverso i Reports consolari, «Rivista Storica Toscana del Risorgimento».

12 Elena Pierotti, Padre Gioacchino Prosperi. Dalle Amicizie Cristiane ai valori rosminiani. Tesi discussa presso l’Università di Pisa nel 2010.

13 Luigi Cattani, Scolopi Liguri del primo Ottocento tra educazione, assistenza e letteratura, Biblioteca Franzoniana, 2015.

14 Gian Luigi Bruzzone, Aspetti delle Scuole Pie di Genova durante il periodo giacobino, napoleonico e nei primi anni della Restaurazione (1797-1820), in «Archivium Scholorum Piarum», 1992, numero 32, pagine 95-142.

15 Risultano presenti con certezza in Benabbio figli di Luciano Bonaparte, e nel 1837, ma questo in forse, il futuro Napoleone III.

16 Da Menabbio a Benabbio, pubblicazione edita dal comune di Bagni di Lucca.

17 Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Carteggi Vari 101, 65.

18 Raffaele Ciampini, I Toscani del 1859. Carteggi inediti di Cosimo Ridolfi, Ubaldino Peruzzi, Leopoldo Galeotti, Vincenzo Salvagnoli, Giuseppe Massari, Camillo Cavour, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1959, pagina 106.

19 Epistolario di Urbano Rattazzi, volume I, 1846-1861, a cura di Rosanna Roccia, 2011, pagina 292.

20 Trofiano Amulfi (1803-1880), sottotenente dei Carabinieri Reali di Sardegna nel 1832, percorse tutta la carriera militare nel corpo, sino al grado di Generale. Prese parte alle campagne del 1859 e del 1860.

21 Ho descritto le vicende non solo di Lorenzo Pierotti, ma del di lui figlio Cesare e del pittore Giuseppe, della stessa famiglia. Rivoluzionario il primo con Guerrazzi tra gli «Amici del popolo» nel 1849 a Firenze; moderato, vicino a Cosimo Ridolfi e Gino Capponi il secondo. Pubblicate nell’articolo Un nonno, un padre e un figlio in www.storico.org.

22 Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Carteggi Vari, 264, 99; Carteggi Vari, 471, 62; Corrispondenza Gino Capponi, Numero Ingresso 1.758.216, Anno 1856, XI, 2.

23 F. L. Mannucci, Giuseppe Mazzini e la prima fase del suo pensiero letterario; l’aurora di un genio, Milano, Casa editrice Il Risorgimento, 1919.

24 Antonino D’Alia, Giuseppe Avezzana, Società editrice del Libro Italiano, Roma 1940.

25 Due pubblicazioni dello storico Sergio Di Giacomo mi hanno consentito di ampliare le mie conoscenze sul console Giuseppe Binda e ad esse rimando: Dall’Atlantico al Mediterraneo. I rapporti commerciali e diplomatici tra gli Stati Uniti e il porto di Livorno (1831-1860), Rubettino, Soveria Mannelli, 2004 e: Toscana e Stati Uniti nella prima metà dell’Ottocento: i consoli di Livorno e il caso «Ombrosi», in «Rassegna storica toscana», Olschki, Firenze, giugno 2004, pagine 37-56.

(luglio 2016)

Tag: Elena Pierotti, Italia, Risorgimento, Giuseppe Binda, Carducci, Bonaparte, agente murattiano, Unità Nazionale, Apofasimeni, Lord Bentick, Murat, Lord Holland, Antonio Canova, John Whishaw, Lord Francis Russell, Bath, New York, Thomas Appleton, Boston, Guerrazzi, Montanelli, Lamartine, Pelagio Palagi, Stupinigi, Walewski, Massari, Mordini, Fabrizi, Antinori, Avezzana, Mazzini, Saffi, Armellini, Ricasoli, Poniatowski, Cass, Buchanan, Sumter.