1848: l’anno delle grandi rivolte
Sulla scia dei moti a Palermo, a Parigi e nell’Impero Austriaco, i patrioti italiani si preparano al conflitto armato contro gli Asburgo

La Meditazione

Francesco Hayez, La Meditazione (allegoria dell'Italia del 1848 con il libro della sua storia), 1848, Galleria d'arte moderna Achille Forti, Verona (Italia)

Il 1848 segna una data fondamentale del Risorgimento Italiano: molte rivolte scoppiano negli stati della Penisola, viene combattura la Prima Guerra d’Indipendenza, tutto lo Stivale – si potrebbe pensare – si mobilita per la lotta per la libertà... o no?

Prima di analizzare il corso degli eventi politici e militari, occorre dare uno sguardo a ciò che sta avvenendo sul piano economico. Le ferrovie hanno fatto la loro comparsa: nel 1839 viene inaugurato in Italia il primo tronco di strada ferrata tra Napoli e Portici (otto chilometri, poco più di un tram, percorsi in 11 minuti alla velocità di 50 chilometri all’ora), l’anno successivo verrà inaugurato quello di Milano-Monza, in seguito la linea Torino-Moncalieri, poi la Firenze-Pisa, e un buon tratto della Milano-Venezia. Sono sorte anche molte banche moderne, la Cassa di Risparmio delle Province Lombarde, aperta nel 1823, la Banca di Sconto di Genova, nel 1844. Anche sul piano industriale e su quello agricolo l’Italia è in fermento: la concorrenza estera, come il grano russo, la seta del Bengala o la lana australiana, spinge le industrie ad una maggiore produzione e ad impianti sempre più perfetti. Carlo Alberto intraprende una serie di riforme ispirate ad un moderato liberismo: promulga una Costituzione – lo Statuto Albertino – che sarà la base della futura Costituzione del Regno d’Italia (4 marzo 1848); nel 1841 firma dei trattati di commercio con l’Inghilterra e nel 1843 con la Francia; viene potenziato il porto di Genova e vengono studiati progetti di ferrovie e di traforo delle Alpi; particolare sviluppo hanno l’industria della seta e della lana, che ha il suo centro a Biella. Ma mentre la Lombardia e il Piemonte hanno un’agricoltura razionale e moderna, il Sud d’Italia ha colture estensive poco redditizie: tra Nord e Sud si sta creando un grande dislivello economico che non sarà mai più colmato.

Grandi avvenimenti fermentano in Italia: il popolo acclama Papa Pio IX, che ha condonato le pene ai detenuti politici; si inneggia al «Papa liberale» e i patrioti ripongono in lui grandi speranze. Da Roma, il moto di libertà invade gli altri stati. Prima si ottengono delle riforme, poi la Costituzione. Alla fine anche Ferdinando II, Re delle Due Sicilie, concede la Costituzione, ma di malavoglia. Da Palermo, la rivoluzione si propaga in Toscana, in Francia (nel febbraio si solleva Parigi), poi si espande a Vienna, Budapest, Praga, Berlino, e il Metternich, il Ministro odiato dai liberali, è costretto a dare le dimissioni. I popoli dei diversi Paesi anelano ad una maggiore libertà e desiderano poter esprimere liberamente il proprio pensiero, oltre a partecipare alla formazione delle leggi; vogliono, in definitiva, trasformare le Monarchie Assolute in Monarchie Costituzionali.

Daniele Manin e Nicolò Tommaseo

Napoleone Nani, Daniele Manin e Nicolò Tommaseo dopo la loro liberazione dalle carceri austriache a seguito della sollevazione popolare di Venezia del

1848
, 1876

A Venezia vengono arrestati dagli Austriaci Daniele Manin e Niccolò Tommaseo, «rei» di aver richiesto alcune riforme. Il 17 marzo, alla notizia dei moti di Vienna, una grande dimostrazione di popolo ne ottiene la liberazione; ma non è finita: il 22 giungono le notizie della rivolta di Milano, che fanno scoppiare l’insurrezione – la folla corre all’arsenale, si impadronisce delle armi. Le truppe austriache sgombrano subito dalla città lagunare che si dà un libero governo sotto la guida di Manin, proclamando poco dopo la Repubblica di San Marco. Milano deve invece lottare: la grande battaglia, combattuta tra le vie della città, passerà alla storia col nome di «Cinque Giornate di Milano»!


Le «Cinque Giornate di Milano»

Già dal 1° gennaio 1848 i Milanesi, per colpire la dispotica Austria nei suoi maggiori cespiti di entrata, decidono di astenersi dal fumo e dal gioco del lotto, monopoli di stato: e poiché la polizia manda per la città gendarmi e soldati con lunghi sigari accesi, ne nascono tumulti e repressioni brutali.

Nel pomeriggio del 17 marzo anche a Milano, come a Venezia, giungono le prime notizie dei moti di Vienna. I patrioti milanesi, che già da tempo hanno preparato la sommossa, si rendono conto che è venuto il momento di agire. Alla sera dello stesso giorno alcuni di essi mettono a punto un piano d’azione per il giorno seguente: inscenare una manifestazione davanti al Palazzo del Governo.

Così nelle prime ore del mattino del 18 marzo, i patrioti, guidati dal podestà Gabrio Casati, si dirigono in massa verso Via Monforte, dove si trova il Palazzo del Governatore, ottenendo la concessione della guardia civica e il mantenimento dell’ordine affidato alla municipalità. «Popolo di Milano» si legge nel proclama affisso per tutte le vie della città, «l’Europa ha gli occhi su di noi per decidere se il lungo nostro silenzio venisse da magnanima prudenza o da paura; le provincie aspettano da noi la parola d’ordine. Il destino d’Italia è nelle nostre mani, un giorno può decidere la sorte di un secolo». Ma quando già la folla si sta ritirando soddisfatta, alcune sentinelle sparano delle fucilate, alle quali i dimostranti rispondono con prontezza. In breve i granatieri di guardia ungheresi sono sopraffatti, disarmati o uccisi, e la folla entra nell’edificio devastando ogni cosa.

Intanto i soldati autriaci riuniti nel Castello sparano alcune cannonate nella speranza di intimidire i Milanesi. Alle cannonate fanno però subito eco le 62 campane che chiamano a raccolta i cittadini mentre per le strade si innalzano le prime barricate, accatastando alla rinfusa mobili e materassi, pagliericci, panche di chiesa, pianoforti, carrozze, libri e bollettari, fascine e pietre per sbarrare il passaggio ai nemici e per ripararsi dalle loro fucilate. Viene intanto istituita una libera guardia civica alla quale si arruolano volontari di ogni età. Il Maresciallo Radetzky, comandante in capo delle truppe imperiali in Italia, non appena viene a sapere che al Municipio si stanno arruolando i volontari della guardia civica, fa circondare il palazzo dai suoi soldati, che riescono a piazzare un cannone e ad aprire una breccia nell’edificio. Dopo due ore, i 130 difensori sono sopraffatti e trascinati prigionieri nel Castello.

Il Maresciallo Austriaco, forte di 14.000 uomini bene armati ed addestrati, dopo questa azione è convinto di aver già domato la rivolta e manda un messaggio a Vienna per annunciare la sua vittoria.

Ma s’inganna: i Milanesi, che dispongono di soli 600 fucili e di scarsissime munizioni, svuotano i negozi degli armaioli e prelevano armi di ogni tipo persino dai musei e dai magazzini, spade e picche, pugnali e coltellacci da cucina, pistole, vecchi archibugi dei collezionisti, ogni cosa che possa ferire e colpire. Le vere armi dell’insurrezione, data la scarsità delle munizioni, sono però le tegole e le pietre, i sassi ed i pezzi di legno, l’acqua e l’olio bollenti che uomini, donne e ragazzi gettano dalle finestre e dai tetti sulle pattuglie di soldati che si avventurano nelle vie barricate.

L'armeria di Ubaldo invasa dagli insorti

Carlo Bossoli, L'armeria del nobiluomo Ubaldo invasa dagli insorti milanesi per provvedersi delle armi il 19 marzo 1848, 1848, Museo del Risorgimento,

Milano (Italia)

I Milanesi in questi giorni sono tutti animati dallo stesso entusiasmo: artigiani, sacerdoti, donne si aiutano l’un l’altro e tutte le case sono pronte ad ospitare chi è stanco, affamato o ferito; all’interno delle abitazioni si aprono delle brecce per facilitare le comunicazioni e per passare da una zona all’altra della città. Potremmo citare innumerevoli nomi di chi si batte non per gloria né per interesse, ma solo perché vuole diventare ciò che si sente, un cittadino italiano: come Amatore Sciesa, tappezziere appartenente al comitato clandestino dell’Olona, che la notte del 30 luglio 1851 (tre anni dopo le Cinque Giornate) è sorpreso da una ronda militare mentre affigge manifesti che incitano alla rivolta; lungo la strada per il circondario di polizia viene fatto passare davanti alla sua abitazione dove, affacciati alla finestra, vi sono sua moglie ed il figlioletto; i gendarmi gli promettono la libertà in cambio dei nomi dei suoi complici, al che egli risponde: «Tiremm innanz» («Andiamo avanti»); tre giorni dopo viene fucilato. Persino i sacerdoti partecipano ai combattimenti: uomini come Don Cesare Airoldi Aliprandi, che il 19 marzo 1848 prende parte alla battaglia del Monforte e al ritorno degli Austriaci sconta la sua partecipazione alle Cinque Giornate con 10 anni di esilio da Milano; come Don Marino Lazzarini, nativo di Brignano, giunto a Milano per predicare la Quaresima a San Bartolomeo, che viene ritenuto uno degli organizzatori della sommossa di Porta Tosa ed è ucciso dagli Austriaci il 20 marzo mentre prepara un discorso; come Don Francesco Corbetta, parroco di Paderno d’Adda, che partecipa alla sommossa milanese alla testa di 21 dei suoi fedeli. Neppure le donne si tirano indietro (e 39 di loro rimarranno esanimi sul campo di battaglia): ricordiamo, a titolo di esempio, Giuseppina Lazzaroni, che combatte sulle barricate insieme al fratello e per il suo coraggio viene segnalata al Governo Provvisorio affinché le sia concessa una ricompensa; o Cecilia Brivio, una cucitrice di 36 anni, uccisa con il marito il 22 marzo presso il mercato vecchio; o ancora Paola Grandi, domestica di Rosa Monti, che assieme alla padrona costruisce una barricata in contrada del Crocefisso e viene ferita negli scontri. Anche i ragazzini danno il loro valido contributo: si distinguono specialmente nella costruzione delle barricate e come portaordini; per gioco issano su un bastone un cappello che fanno sporgere dalle barricate, traendo in inganno gli Austriaci che si mettono a sparare sprecando le munizioni; molti giovinetti preparano le munizioni e curano i feriti; si distinguono anche i «Martinitt», cioè gli orfanelli milanesi, che sono addetti ai collegamenti.

Non è però una rivolta popolare: se è vero che nelle schiere milanesi militano numerosi contadini senza terra, la dirigenza delle operazioni è in mano a borghesi giovani e democratici, studenti, professionisti ed intellettuali. Molti dei contadini in armi non sono neppure Milanesi: sono stati inviati lì dai loro signori, che abitano nei paesi vicini, per fomentare la rivolta, perché la gente della città non si sarebbe mai ribellata da sola. Non è vero che le Cinque Giornate di Milano sono l’unico episodio risorgimentale in cui il popolo ha preso le armi: anche in questo caso, ha scelto di stare sulla barricata di propria volontà una minoranza, mentre molti di coloro che combattono lo fanno perché costretti da una volontà altrui.

Durante la notte cade una pioggia tormentosa, ma i cittadini vegliano. I patrioti trasferiscono il comando in una zona sicura ed erigono nuove barricate che trasformano la città in un vero labirinto insuperabile per i soldati nemici.

Il giorno successivo, 19 marzo, un gruppo di patrioti guidato da Augusto Anfossi (un Nizzardo che in Egitto, per il suo valore, si era guadagnato il grado di colonnello) prende d’assalto una batteria di cannoni austriaci che dall’alto di Porta Nuova sta sparando sulla città. Dopo una serie di fucilate ben aggiustate, gli uomini addetti ai cannoni sono sopraffatti ed i superstiti si devono arrendere. I pezzi d’artiglieria vengono presi dai rivoltosi e sull’arco di Porta Nuova è issato il tricolore.

Altri due cannoni vengono catturati a Piazza Mercanti, due a Porta Ticinese; si combatte al Broletto. A Porta Orientale un ragazzo di 12 anni ha la gamba asportata di netto da una cannonata ed esclama: «Benedetti coloro che muoiono per la Patria». Pattuglie di ussari e di Croati sono sopraffatte a Porta Tosa, a Porta Romana; il cappellano di San Celso, quello di San Calimero incoraggiano la lotta, accorrono alle barricate con la Croce e con le tegole. A Porta Ticinese, Giuseppe Broggi cade colpito a morte mentre anima e rincuora i compagni.

Il Maresciallo Radetzky pensa allora di ritirare le proprie truppe dal centro e di assediare la città dalle porte; intanto chiede rinforzi ai presidi delle altre città lombarde. Ma Lodi è insorta, Monza e Pavia si sono sollevate in armi, Bergamo, Gallarate e Busto Arsizio sono in rivolta: i patrioti hanno devastato le strade e i ponti, impegnano al combattimento i reparti austriaci e ne ritardano la marcia. Questo perché i Milanesi si sono serviti di palloni di carta riempiti di aria calda per appendervi i comunicati del Comando Cittadino e gli appelli alle popolazioni lombarde, invitandole ad aiutare con ogni mezzo la città in rivolta; i palloni sono stati trascinati dal vento fuori città cadendo poi nelle diverse zone della Lombardia, dalla Brianza al Bresciano.

Scrive il repubblicano Carlo Cattaneo (all’epoca alla testa del Consiglio di Guerra), in Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra, un riesame critico dell’impresa quarantottesca scritto durante l’esperienza dell’esilio in Svizzera: «In quelle prime giornate, avidi alcuni d’avere armi e polvere si spingevano a cercarne anco fuori delle barricate; e si ponevano alle porte delle case, sperando che sopravenisse qualche drappello di nemici per corrergli sopra e afferrarlo e disarmarlo, essendo che l’Austriaco è naturalmente meno destro e meno audace dell’Italiano. A San Francesco da Paola, vidi il cadavere ancora spirante d’un soldato, che un giovine, balzando fuori da un vicolo, aveva disarmato e coll’arme stessa ucciso, sotto li occhi d’un intero battaglione.

La penuria delle armi dava un aspetto singolare alla pugna; poiché il popolo non le voleva vedere in mano di chi non gli paresse ben esperto a maneggiarle. Rare volte si spendeva un colpo, dove la vicinanza del nemico non lo rendesse quasi certo.

Al quartier generale si distribuiva ai combattenti la polvere quasi a prese; contenti d’averne anche solo per uno o due colpi, correvano a lontane barricate; poi tornavano a cercarne ancora. Alcuni studenti, ai quali si dimandò perché non tirassero se non di concerto e l’uno dopo l’altro, risposero che temevano di spendere due tiri per uccidere un Croato solo. Il nostro foco era dunque lento e raro, ma micidiale, mentre il nemico, ridondante d’armi e munizioni, e manifestamente sgomentato, prodigava il suo, cacciando le palle di cannone a fracassare fin presso al tetto balconi e finestre. Intorno alle barricate, i ragazzi facevano mille burle al nemico, sviando il suo foco sopra qualche gatto, o qualche cappello calabrese confitto sopra un manico di scopa, e dando così agio ai nostri d’appostarlo con maggior sicurezza. Radetzki, nella sua relazione, attribuì l’efficacia della nostra difesa, non a questa cura nostra di fare il miglior uso delle poche forze, bensì alla perizia d’officiali stranieri! Ma dopo il terzo giorno, dopo la presa di tanti edificii, nei quali il nemico aveva accumulato molte materie di difesa, quella penuria ebbe fine.

Le barricate intanto divenivano sempre più numerose; se ne contavano nella città da mille e settecento; e caricate assiduamente con sassi, potevano resistere anche al cannone. Intorno ad una, ch’era di fronte al Castello, ed era costrutta con lastre di granito legate con catene e ingombre di terra, si raccolsero settantadue palle. Li allievi del Seminario barricarono coi loro letti il largo di Porta Orientale, sotto il più violento foco. Attraversate alle vie si vedevano balle di merci, mobiglie, carrozze eleganti; v’erano mucchi di tegole sull’orlo dei tetti, mucchi di sassi ad ogni finestra; rotti in molti luoghi i ponti; sfondati i sotterranei canali.

Presso la sera del terzo giorno, la bandiera tricolore fu inalberata sulla aguglia del Duomo da Luigi Torelli e Scipione Bagaggia. Nella terza notte, anche il corpo che aveva espugnato il palazzo municipale, e contava parecchie centinaia di soldati, vedendosi stretto e tempestato d’ogni parte, si salvò vergognosamente a tutta corsa, trascinando stupidamente seco i bambini del Bellati e sua moglie, ch’era pur figlia del marchese Ragazzi, il più zelante tra i censori delle stampe; poco dipoi per effetto del crudele trattamento uno dei fanciulli morì.

I soldati facevano cose atroci; nelle case dei Fortis trucidarono undici persone inermi, rubando quanto v’era di stoffe e di denari; al cadavere d’un soldato si trovò in tasca una mano feminile adorna d’anelli; brani di corpi feminili si trovarono mal sepolti in castello; più d’una famiglia fu arsa viva; infilzati sulle baionette i bambini; nel ruolo dei morti si contarono più di cinquanta donne; essendo però vero che alcune di esse erano fra i combattenti, anzi combattevano audacemente. Si udivano officiali ben nati aizzare a crudeltà il soldato, dandogli a credere bugiardamente che i cittadini facessero scempio dei prigionieri. Tanto la condotta dei nostri nemici disonora la civiltà germanica quanto quella del nostro popolo onora la infelice Italia».

Il 20 marzo, i Milanesi si rendono conto che il centro della città è stato abbandonato dagli Austriaci durante la notte; sulla guglia più alta del Duomo è issata la bandiera tricolore, e dal Castello il Radetzky vede sventolare l’odiato vessillo della libertà italiana. Antonio Leoncini attacca proprio il Castello, gridando a coloro che lo sconsigliano: «Lasciate fare, le palle non ci toccano, portiamo in fronte il nome di Pio IX». Il lattivendolo Giovanni Meschia, dietro un camino sul tetto davanti al campanile di Sant’Eustorgio, uccide con 10 colpi altrettanti soldati austriaci. La sera porta un’eclisse totale di luna; «Anche la luna si è messa la coccarda» si scherza dalle barricate.

Alle 5 del 21 marzo il Maresciallo Austriaco manda un suo rappresentante per trattare una tregua d’armi, ma le trattative falliscono.

I patrioti attaccano con decisione le ultime posizioni che sono rimaste al nemico nella città. Una mischia furiosa si accende davanti alla caserma del Genio Militare, presidiata da un buon numero di soldati. Augusto Anfossi respinge un reparto di granatieri, prende un cannone, lo punta contro la porta sbarrata e poi si inerpica per piantare sul cornicione il tricolore; è colpito in fronte da una palla di moschetto. Il ciabattino Pasquale Sottocorno, benché sciancato e per di più ferito, si avvicina al portone dell’edificio tra le fucilate austriache e vi sparge dell’acqua ragia; poi vi porta due fascine di legna alle quali velocemente appicca il fuoco, che in breve tempo si sparge per tutto l’edificio costringendo i 160 Austriaci alla resa. Non contento, corre a Porta Tosa, disperde ed uccide senza pietà chiunque porti l’insegna dell’aquila bicipite. Quattro caserme cadono in mano ai Milanesi.

Il 22 marzo gli insorti, ormai padroni di tutta la città, attaccano le porte, decisi a rompere l’assedio. A Porta Ticinese e a Porta Comasina (oggi Porta Garibaldi) gli assalitori vengono respinti, ma l’assalto a Porta Tosa viene preparato con estrema cura. Per distrarre l’attenzione del nemico, si finge dapprima di assalire Porta Romana. Intanto sul corso di Porta Tosa si preparano le «trincee mobili», cioè grosse fascine di legna che possono essere facilmente spinte in avanti a proteggere gli attaccanti. All’improvviso le trincee mobili vengono fatte avanzare mentre dai tetti delle case si spara sul nemico. Gli Austriaci rispondono con cannonate e con un intenso fuoco di fucili. «La spada del Maresciallo Radetzky, per 65 anni tinta nel sangue dei fratelli, è nelle nostre mani; sarà balocco dei nostri fanciulli» promette il Governo Provvisorio. Si combatte con furore. Andrea Cazzanini spara da indiavolato e muore benedicendo Dio per la vittoria. I Milanesi riescono a far indietreggiare i nemici fino alla Porta e, verso sera, i più arditi, trascinati da Luciano Manara e dai fratelli Enrico ed Emilio Dandolo, sferrano l’attacco decisivo. Paolo Pirovano, un falegname di 17 anni, è il primo a lanciarsi all’assalto. Un ragazzo a cavalcioni sulla barricata provoca ed insulta i Croati, un altro coglie le palle dei cannoni nemici e le rigetta ironico e beffardo perché imparino a lanciarle meglio. Porta Tosa cade nelle mani degli Italiani e l’assedio è rotto. Da allora si chiamerà Porta Vittoria. Poco dopo anche Porta Comasina viene occupata.

La ritirata degli Austriaci

Carlo Bossoli, La ritirata degli Austriaci dal dazio di Porta Tosa, 1848

Già si prepara per il giorno seguente l’attacco decisivo al Castello, ma ormai il Maresciallo Radetzky, temendo di vedersi ogni via di fuga chiusa dagli insorti della campagna, si ritira verso il Mincio, nel formidabile Quadrilatero (le fortezze di Mantova, Peschiera, Verona e Legnago).

Nella notte tra il 22 e il 23 marzo l’esercito austriaco abbandona Milano agli insorti. Alle due dopo la mezzanotte il cannone tace, mentre si accendono fuochi di gioia e si elevano canti di vittoria. La prima ad intonarli è la ventiquattrenne Luigia Battistotti Sassi, che per tutte le Cinque Giornate ha combattuto senza sosta, uccidendo Croati e cacciatori tedechi a colpi di carabina, strappando le armi di mano ai soldati, inseguendo i nemici fin oltre i bastioni. Un morente ha scritto col proprio sangue sulla parete di una casa: «Coraggio fratelli, sangue di martiri Iddio compenserà, in terra resterà la corona del trionfo. Viva l’Italia». I Milanesi, civili male armati e con poca o nessuna preparazione militare, hanno vinto; gli Austriaci, soldati addestrati alla guerra e ad una dura disciplina militare, con artiglierie, armi moderne ed abbondanza di munizioni, hanno perso. Secondo le stime ufficiali, 409 Milanesi (disoccupati, artigiani, operai, negozianti, impiegati...) e circa 1.000 Autriaci bagnano col loro sangue le vie di Milano.

(settembre 2017)

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