Gli Ittiti, gli «scomparsi» del Vicino Oriente
Ascesa e caduta di una «superpotenza» del mondo antico

Pochi popoli, nel corso della Storia, dopo essersi innalzati tanto in potenza quanto quello ittita, sono scomparsi in modo totale, tanto che oggi non ne rimangono i discendenti né qualcuno che pretenda di esserlo. Non possono infatti essere definiti gli antenati dei Turchi, come sostiene qualcuno con poco senso critico, perché quasi 2.000 anni separano la fine delle ultime città ittite dall’avvento dei Turchi dall’Asia nella terra che da essi ha preso il nome. Inoltre, gli Ittiti non diedero alla civiltà nessun apporto duraturo nel campo politico, artistico, filosofico o letterario, tranne che in uno: quello della metallurgia. La lavorazione del ferro fu infatti il segreto della loro ascesa e insieme del loro crollo. Ma andiamo con ordine, alla scoperta di un popolo molto più affascinante di quanto comunemente si creda.

Gli Ittiti sono stati uno dei popoli scoperti più di recente dagli archeologi. La loro storia sarebbe ancora avvolta nel mistero se, nel 1906, uno studioso tedesco, Hugo Winckler, scavando presso la città turca di Boghazköy (l’antica capitale Hattushash, 150 chilometri a Est di Ankara) non avesse avuto la fortuna di imbattersi nientemeno che nell’archivio dell’Impero scomparso! Vennero così alla luce 10.000 tavolette di creta ricoperte di caratteri cuneiformi: trattati politici, discorsi di Sovrani, descrizioni di cerimonie, preghiere, aneddoti moralistici illustranti la vita di Corte, tutto ciò che serve a far luce sulla civiltà di un popolo. Alcune di queste tavolette sono vocabolari che elencano gli equivalenti sumerici, babilonesi e ittiti; altre sono decreti amministrativi che rivelano uno Stato Monarchico dotato di una rigida organizzazione militare; altre ancora contengono 200 frammenti di un codice di leggi che risentono molto l’influenza di quelle di Hammurabi, e che comprendono anche calmieri di prezzi.

Dobbiamo parlare brevemente della scrittura, perché gli Ittiti ne usavano contemporaneamente due tipi: quella geroglifica e quella cuneiforme. Il sillabico cuneiforme era stato preso a prestito dai Babilonesi e utilizzato per i testi più lunghi, su tavolette di argilla di cui insegnarono l’uso ai Cretesi; si tratta per lo più di rapporti diplomatici, ma anche di opere religiose o letterarie. Si scriveva con pennello e inchiostro su tavolette di legno, rivestite di lino e spalmate con calce. C’erano anche vari sigilli, lavorati con cura e con notevole eleganza, alcuni a rullo (cioè adatti a scorrere sulla creta), altri cubici, piatti o rotondi; alcuni si potevano usare da vari lati. La scrittura di tipo pittografico (denominata per tale motivo «geroglifici ittiti») venne creata proprio in Anatolia verso il 1500 avanti Cristo come trascrizione di un dialetto luvita e usata per le iscrizioni ufficiali, incise il più delle volte su pareti rocciose; dovevano essere lette una riga da sinistra a destra, la successiva da destra a sinistra, e così via alternativamente. Oltre all’ittita, venivano utilizzate parecchie altre lingue: il palavio, il luvio (dialetti indoeuropei), l’hatti, come pure il sumero, l’akkadico e l’hurrita.

Sembra che già 2500 anni prima di Cristo i progenitori degli Ittiti abitassero l’altipiano anatolico, a Sud del Mar Nero, lungo il bacino del fiume Kizilirmak (l’antico Halys), nel cuore dell’odierna Turchia: era una regione piuttosto arida e di difficile accesso, circondata da montagne che formavano un’eccellente protezione naturale. Verso il 2000 avanti Cristo dalle steppe del Caucaso giunsero alcune popolazioni di pastori nomadi indoeuropei, che vennero a sovrapporsi agli agricoltori che già vi esistevano e col tempo li assimilarono. Durante il loro viaggio avevano imparato le tecniche della lavorazione del ferro, che permetteva loro di distinguersi come cavalieri e guerrieri formidabili. Fisicamente non erano molto alti di statura e avevano una corporatura piuttosto massiccia, con un aspetto più da Europei che da Asiatici; erano caratteristici i loro lunghi capelli, piuttosto chiari; si mescolarono con gli antichi Ebrei tanto intimamente da dar loro il proprio naso marcatamente aquilino, così che questa caratteristica ebraica deve essere considerata rigorosamente «ariana» (con buona pace di Hitler, che aborriva il naso degli Ebrei più di ogni altra parte del loro corpo). Parlavano un idioma che appartiene al vasto gruppo delle lingue dette indoeuropee, di cui rappresenta il dialetto più antico; le forme di declinazione e di coniugazione rassomigliano strettamente a quelle latine e greche, e alcune delle parole più semplici hanno una somiglianza strabiliante con i corrispettivi vocaboli inglesi (per esempio «vadar», inglese «water», «acqua»; «ezza», inglese «eat», «mangiare»; «tug», inglese «tee», «tu»; «vesh», inglese «we», «noi»; «mu», inglese «me», «me», e via dicendo). Le tavolette provenienti dalle basi commerciali assire in Anatolia (1900-1800 avanti Cristo) rappresentano le più antiche tracce di scrittura nella regione e costituiscono le prime testimonianze dell’esistenza degli Ittiti, dei Luvi e dei Palavi. Il primo grande Sovrano Ittita fu Anittas, che verso il 1800 avanti Cristo unificò in un solo Regno i vari Staterelli situati nel bacino dell’Halys; la capitale definitiva del territorio si ebbe con Hattushash, fondata da Hattusil I (circa 1650 avanti Cristo).

Di questo Re, che iniziò le prime conquiste territoriali, ci rimangono gli annali storici, le leggi e soprattutto il suo testamento politico, un documento unico nel suo genere nella letteratura del Vicino Oriente Antico. Il Sovrano era ammalato, giaceva nel suo ricco letto e rifletteva: ripensava agli anni trascorsi del suo Regno e a tutti gli avvenimenti che si erano succeduti, alla potenza e alla ricchezza raggiunti dal suo Paese e alla capitale da lui fondata, Hattushash, che suscitava ammirazione tra i popoli vicini. Un Re buono può fare molto per la sua gente, e Hattusil sentiva di aver svolto bene il suo compito: ora che si avvicinava il momento della morte, sapeva di dover prendere un’ultima, grande decisione. Fece radunare gli alti dignitari e gli uomini d’armi, che si presentarono indossando i loro abiti da cerimonia e si disposero ad ascoltarlo con reverenza. A loro così parlò il Re: «Tempo fa vi presentai ufficialmente mio figlio, Labarna, dicendovi che egli sarebbe un giorno salito al trono al mio posto. Voi avete approvato». I dignitari assentirono chinando il capo e facendo ondeggiare leggermente i lunghi capelli. «Ma durante la mia malattia» proseguì il Re «ho osservato il contegno di mio figlio: si è dimostrato un uomo freddo e senza cuore». I dignitari si guardarono in viso l’un l’altro, riconoscendo il vero in quelle parole. «Inoltre, ha prestato orecchio alle insinuazioni malvagie di coloro che tentavano di aizzarlo contro di me. Ebbene» concluse il Sovrano, «vi dico che costui non è più il mio successore. Gli avevo detto di porre sopra ogni altra cosa il bene dello Stato, ma egli non ha dato ascolto alle mie parole; ha preferito agire seguendo la propria ambizione. Se non sa rinunciare al suo egoismo, come potrà amare Hattushash?» I dignitari approvarono. Hattusil scelse come proprio successore il nipote Murshilish, che si era sempre dimostrato onesto e ragionevole; in seguito, gli insegnò come si deve comportare un buon Sovrano. Così, il grande Re degli Ittiti diede, proprio agli inizi della storia del suo popolo, un esempio di saggezza e di onestà, dimostrando di tenere in maggior conto il buon governo che gli interessi della propria famiglia. Un insegnamento che dovrebbe essere fatto proprio dagli uomini politici di tutti i tempi e di tutti i Paesi, a riprova che la Storia ci dà molti valori che si possono a buon diritto definire «universali».

La capitale dello Stato Ittita, Hattushash, sorgeva su uno sperone roccioso. Le prime tracce di occupazione risalgono già al terzo millennio avanti Cristo; all’inizio del secondo millennio avanti Cristo si aggiunge al nucleo originario un abitato con tracce di abitazioni. Intorno al 1900 avanti Cristo, quando gli Assiri impiantarono nel Paese le loro colonie commerciali, il sito fu scelto come sede di un «Karum» (emporio e postazione a protezione dei traffici mercantili), con case fittamente giustapposte su strette vie, per lo più acciottolate, che si aprivano su ampie piazze. Tra il 1400 e il 1200 avanti Cristo, Hattushash raggiunse l’estensione di 120 ettari: l’intero centro urbano era fortificato con un muro nel quale si aprivano cinque porte con stipiti ad arco parabolico e composte da una struttura a doppia tenaglia, protette da una torre avanzata; un cunicolo sotterraneo, con la volta in pietra, permetteva l’approvvigionamento della città in caso di assedio. La cittadella, che ospitava gli edifici pubblici, era divisa in tre quartieri, disposti intorno a tre corti aperte; sono stati identificati magazzini, cappelle e zone di servizio, oltre agli archivi cittadini e a quello che viene ritenuto un palazzo reale di rappresentanza. Sempre nel XIII secolo avanti Cristo furono edificati cinque templi, tutti con un cortile, un portico a pilastri e una cella («adytion»).

Porta dei Leoni a Hattushash

La cosiddetta Porta dei Leoni a Hattushash (Turchia)

Nel 1800 avanti Cristo, gli Ittiti erano stabiliti presso le sorgenti del Tigri e dell’Eufrate. Col passare del tempo, i confini del Regno si allargarono sempre più, tanto che nel 1595 avanti Cristo il Re Murshilish I s’impadronì della grande Babilonia e di tutti i suoi tesori; la rase al suolo ma non vi si stabilì. Nel 1460 circa avanti Cristo, il Re Telepinu operò un’interessante regolamentazione giuridica della successione al trono che ponesse fine alle crisi interne (guerre civili, regicidi) che avevano fino allora dilaniato la società. I domini ittiti raggiunsero la massima espansione sotto il Regno di Suppiluliuma, che visse tra il 1375 e il 1335 avanti Cristo: il grande Sovrano conquistò la Siria (compreso l’importantissimo centro di Ebla) e parte dell’Armenia, giungendo a minacciare da vicino i territori egiziani. Una formula di preghiera recitava: «Forza e vigore al Re, alla Regina, ai principi e alle loro truppe, e possa la loro terra essere delimitata dal mare a sinistra e a destra dal mare». Ormai l’Impero Ittita occupava, al fianco dell’Egitto e della Mesopotamia, un posto di primo piano sulla scena politica del Vicino Oriente Antico: una vera e propria «superpotenza». A questo periodo risale la maggior parte dei documenti scritti.

L’Impero Ittita

L’Impero Ittita all’apice del suo potere, nel 1290 avanti Cristo

Le spedizioni militari ittite furono avvantaggiate dal perfetto equipaggiamento dei soldati. I guerrieri ittiti erano muniti di corazze e lunghe spade ricurve di ferro, in grado di sconfiggere qualsiasi nemico equipaggiato con armi di bronzo; usavano anche lance, frecce e bipenni. Ma ciò che rivoluzionò completamente il modo di combattere fu l’impiego del cavallo per il traino veloce dei carri da guerra, tra i più interessanti tra quelli in uso dai popoli antichi: erano costruiti non più con le ruote piene dei carretti sumeri trainati dai lenti asini ma con più sottili e maneggevoli ruote a raggi cerchiate di ferro, ciò che li rendeva più leggeri e favoriva la velocità. Attaccando a ondate successive, i carri da guerra miravano non soltanto a sfondare il centro dello schieramento nemico armato in modo pesante, ma anche ad attaccarlo alle ali, allargando progressivamente il loro raggio di azione fino a investire il nemico da ogni parte.

Carro da guerra ittita

Carro da guerra ittita ritratto in un bassorilievo in pietra proveniente da Karkemish, X-VIII secolo avanti Cristo

La lavorazione del ferro, estratto dalle montagne che confinano con l’Armenia, era un segreto militare: ai fabbri ittiti era severamente proibito rivelarlo, pena la morte. Così, per secoli le loro tecniche metallurgiche furono custodite gelosamente e nessun altro popolo riuscì a impadronirsene; le esportazioni si riducevano ai pugnali e agli ornamenti personali, destinati come doni ai Sovrani degli Stati vicini. Gli Ittiti fondevano il ferro in forni riscaldati con carbone, che sviluppa più calore della legna, e ventilati con l’aiuto di un mantice; dopo averlo lasciato parzialmente raffreddare, battevano il ferro con pesanti martelli per fargli assumere la forma voluta (forgia); i manufatti di ferro ancora roventi venivano poi immersi in acqua fredda, un procedimento chiamato tempra grazie al quale diventavano durissimi; nell’ultima fase gli oggetti ottenuti venivano nuovamente arroventati e battuti, per renderli più resistenti e per affilare le parti taglienti.

L’agricoltura era favorita dalla fertilità della terra: crescevano con abbondanza l’orzo (dal quale gli Ittiti sapevano già produrre la birra), il grano e la vite; oltre a queste, che erano le colture fondamentali, venivano prodotti anche l’olio (ma non sappiamo se fosse olio di mandorle o di oliva), i latticini, la frutta e gli ortaggi. Le bevande erano contenute in caratteristici recipienti d’argilla a forma di animali.

La religione, come sempre, rifletteva i caratteri e i modi di vita del popolo. Gli Ittiti erano sinceramente religiosi, e perfino nei documenti di Stato si trovano elencate le divinità, sotto la cui protezione si dovevano porre tutte le imprese. Gli dèi erano innumerevoli: i più importanti erano la dea del Sole e il dio delle Tempeste, che avevano soprattutto un carattere guerriero. Era molto venerato anche il dio dell’agricoltura, Telepinu, al quale era legata una leggenda che narrava come periodicamente questo dio scomparisse per poi ritornare, simboleggiando in questo modo l’alternarsi delle quattro stagioni.

Re, sacerdoti, militari ittiti erano simili a quelli mesopotamici o egiziani, con la diversità che il Sovrano Ittita non pretendeva di essere una divinità. Gli artisti e gli scribi erano bravi professionisti. Gli artigiani, abili soprattutto – come si è ricordato – nell’arte della metallurgia, sapevano trattare il ferro come nessun altro nel Vicino Oriente Antico; la conquista dei territori anatolici e di varie altre aree ricche di miniere va vista in questa ottica. I contadini erano obbligati a fornire cibo a tutta la struttura statale e manodopera per i lavori pubblici (costruzione di mura e di edifici, anche col contributo notevole dei prigionieri di guerra); ma anche quando non lavoravano nei campi e non c’erano progetti edilizi da realizzare (cioè per una grande parte del tempo), i contadini dovevano comunque lavorare, nelle loro case, per produrre ferro: semilavorati (lingotti), oppure oggetti finiti. I commercianti si occupavano di venderli, lavorando non in proprio, ma sotto le precise direttive dei Monarchi: si dava ferro agli amici, lo si negava ai nemici, si riusciva persino a farne «salire il prezzo» lesinando sulle forniture. Tutto e tutti dipendevano dalle decisioni (che peraltro erano «utili» all’intera comunità) prese nella capitale: tutto questo faceva di quella ittita una civiltà imperiale!

Il senso estetico era piuttosto rozzo, in linea col carattere militare della società: gli Ittiti scolpivano grandi e goffe figure in tutto tondo o nella viva roccia. Il barone Von Oppenheim dissotterrò a Tell Halaf e altrove molti avanzi dell’arte ittita, che egli raccolse in un proprio museo, una fabbrica abbandonata di Berlino. La maggior parte di questi resti viene fatta risalire dal suo scopritore a circa il 1200 avanti Cristo; Von Oppenheim, basandosi però su criteri discutibili, ne attribuì alcuni al quarto millennio avanti Cristo. La collezione comprende un gruppo di leoni scolpiti nella pietra in modo rozzo ma vigoroso, un toro in fine pietra nera, e figure del dio Sole, del dio Tempo e della dea Hepat. Una della figure più impressionanti è una sfinge priva di ogni garbo, davanti alla quale sta un vaso di pietra per le offerte.

Caccia al leone

Caccia al leone rappresentata in un bassorilievo datato attorno al 750 avanti Cristo e proveniente da Coba Höyük (Sakçagözü), in Anatolia

Vari erano gli abiti. Il più usato dagli uomini era una tunica lunga fino al ginocchio, con maniche corte, stretta alla vita da una cintura. Nelle regioni più calde era in uso anche il «perizoma», un corto gonnellino aderente che lasciava totalmente scoperto il torace e spesso era ornato di vivaci ricami; al di sopra, veniva portato un ampio mantello che si poteva drappeggiare in vari modi intorno alla persona. Le donne vestivano in modo molto semplice e non usavano acconciature elaborate: indossavano una veste pieghettata sopra la quale portavano spesso una corta camicia; come gli uomini, avevano un mantello ampio da drappeggiare a proprio piacimento. Il Re, durante le cerimonie sacre, portava un abito speciale consistente in una tunica lunga fino alle caviglie e ornata di frange e ricami; in questi casi, il Sovrano doveva subire il fastidio di una barba posticcia e di un copricapo molto aderente e alto, che era il simbolo della dignità regale ed era lo stesso con cui si raffiguravano gli dèi. I capelli, lunghi e lisci, erano pettinati all’ingiù. Le orecchie, forate, venivano ornate di orecchini. Sicuro distintivo della dignità regale era il bastone ricurvo, detto «liuto».

I Sovrani che succedettero a Suppiluliuma iniziarono un lungo periodo di guerre continue ed estenuanti contro gli Egiziani per il controllo della Siria e della Palestina. Lo scontro decisivo avvenne a Kadesh (oggi Tell Neby Mend, in Siria), sul fiume Oronte, probabilmente nel 1286 avanti Cristo, e fu la battaglia più grande mai combattuta fino a quel momento; ecco come la ricostruisce lo storico tedesco Emil Nack in L’Egitto e il Vicino Oriente nell’antichità (Edizioni La Scuola, Brescia): «Gli Ittiti, guidati dal Re Muwatalli, reclutarono un esercito di circa 20.000 uomini, il maggiore che gli Egiziani avessero mai dovuto affrontare. Ramses aveva organizzato un esercito altrettanto grande, rinforzato da Nubiani e da mercenari. Era suddiviso in quattro gruppi che portavano il nome dei quattro grandi dèi. Il Faraone comandava la divisione “Amun” (“Ammone”) e scendeva marciando lungo l’Oronte. Era già in vista di Kadesh. Con uno stratagemma gli Ittiti riuscirono ad aprirsi una breccia nel fianco dell’esercito egiziano e a separare il Re insieme all’avanguardia dal resto delle truppe. I soldati egiziani, sorpresi, ripiegarono in fuga precipitosa coi loro carri da guerra. Il Faraone sarebbe stato catturato se non avesse avuto un ricco bottino nell’accampamento egiziano caduto in mano agli Ittiti che fece dimenticare a questi ultimi ogni disciplina militare spingendoli al saccheggio. Così il Re insieme alla sua guardia del corpo, facendo appello a tutto il suo coraggio, ne approfittò per aprirsi la strada verso le sue truppe e, con il loro aiuto, respingere il nemico dentro la città. La pronta decisione di Ramses salvò certamente l’esercito dall’annientamento. Tuttavia Kadesh non poté essere conquistata. Le perdite erano state troppo grandi e il Faraone dovette accontentarsi di essere uscito da quella situazione difficile e di poter ricondurre in Egitto il resto delle sue schiere».

La battaglia, di per sé, si concluse senza vincitori né vinti. Naturalmente, sia gli Ittiti che gli Egiziani si attribuirono la vittoria, ma con una differenza: mentre i documenti ittiti, pur elogiativi, sono abbastanza equilibrati, l’egiziano Poema di Qadesc (conservatoci dal copista Pentaur) dà il merito della vittoria esclusivamente al Faraone, perché la sua resistenza e il suo sovrumano valore guerriero gli consentirono, da solo, di prevalere «contro i milioni [di nemici] radunati» («Trovai coraggioso il mio cuore [è il Fraraone che parla], mentre il mio animo era in gioia. Divenni come Montu [dio guerriero egiziano]: lanciai frecce alla mia destra, facevo prigionieri a sinistra: ero come Seth [dio delle armi e della tempesta] nella sua ora, davanti a loro. Li feci cadere nell’acqua come cadono i coccodrilli, caduti uno sull’altro. […] Mi lanciai verso di loro [gli Ittiti] ed ero come Montu; feci che assaggiassero la mia mano per la durata di un’ora. Feci strage di loro, imperversavo là dove stavano e uno gridava all’altro dicendo: “Non è un uomo, che è in mezzo a noi, è Baal [divinità semitica] in persona! Non sono azioni umane quelle che compie: egli da solo vince le centinaia di migliaia, senza che ci sia esercito con lui né cavalleria. Spicciamoci, muoviamo svelti le nostre gambe davanti a lui, sicché possiamo salvarci la vita e respirare”. Ecco, Sua Maestà era alle loro spalle come il grifone. Facevo strage di loro senza che ne sfuggisse uno»). Pochi anni dopo, nel 1278 avanti Cristo, il Re Ittita Hattusili III firmò un trattato di pace con il Faraone Ramses II suggellandolo con il matrimonio del Sovrano Egiziano con la figlia dello stesso Hattusili: fu stabilita un’alleanza difensiva e determinate le rispettive zone di influenza, che lasciavano agli Ittiti la parte di territorio migliore (quella che avevano già occupato), ma ne bloccavano l’avanzata verso Sud.

Tra il 1250 e il 1225 avanti Cristo il Re Tudhaliyash IV portò a termine il santuario rupestre di Yazilikaya (a due chilometri da Hattushash), un monumento insolito formato da due gallerie naturali le cui pareti sono ricoperte di rilievi che rappresentano 71 divinità del pantheon ufficiale; nella prima sono raffigurate due processioni divine, una femminile e una maschile, che convergono verso un pannello centrale raffigurante gli dèi Teshub e Hepat; nella seconda sono rappresentate 12 divinità dell’oltretomba in corsa, un’edicola rappresentante lo stesso Sovrano Tudhaliyash IV e il dio Sharruma, e un grande rilievo raffigurante una divinità metà uomo e metà spada. Secondo un’ipotesi nel santuario di Yazilikaya si dovevano celebrare alcuni riti di purificazione e la festa di Primavera, mentre secondo un’altra ipotesi – oggi più accreditata – questo doveva essere il santuario funebre del Re, dove venivano celebrati i riti in onore del Sovrano. A questo Re si devono anche gli adattamenti della fortezza reale di Büyükkale (nel cuore di Hattushash).

Il santuario rupestre di Yazilikaya

Il santuario rupestre di Yazilikaya (Turchia), bassorilievo del XIII secolo avanti Cristo

L’epoca del crollo dell’Impero Ittita è quasi contemporanea a quella della distruzione di Troia ed è dovuta agli stessi invasori: gli Achei e gli altri «popoli del mare», una confederazione di genti di origine indoeuropea (Lici, Siculi, Sardi, Filistei, forse i Tirreni antenati degli Etruschi, e altri) che dopo aver invaso l’Anatolia e Cipro cercarono di sistemarsi stabilmente nelle fertili pianure della Siria, della Palestina e del delta egiziano, provocando grandi sconvolgimenti in tutto il Vicino Oriente. Qualcuno ipotizza anche un’epidemia portata dai roditori, che avrebbe decimato la popolazione. Forse vi furono entrambe le cause, e magari l’invasione achea fu favorita dalla pestilenza che aveva assottigliato le schiere dei guerrieri ittiti. Lo Stato e la società ittita non avevano radici altro che in una limitata massa di armati e in una superiorità tattica che era utopistico pensare rimanesse in eterno. Popolazione di montagna priva di una flotta da guerra, gli Ittiti si trovarono impotenti di fronte alle genti marittime che conducevano la guerra in parte come pirati e in parte come conquistatori, tagliando agli avversari le fonti di rifornimento, come quando strapparono agli Ittiti il dominio su Cipro, o interrompendo grandi vie di comunicazione, come quando gli Achei ebbero la supremazia in località vitali per lo Stato Ittita.

Hattushash fu distrutta, i superstiti fuggirono e tra loro probabilmente vi furono anche i fabbri: nei Paesi dove trovarono ospitalità furono costretti per sopravvivere a rivelare la loro arte, cambiando per sempre la storia della Mesopotamia e del mondo intero. Intorno al 1000 avanti Cristo, tutti i popoli orientali sapevano lavorare il nuovo metallo: in Palestina esso era usato non solo per le armi ma per tutto ciò che servisse alle attività economiche e in particolare per l’agricoltura, con zappe, falci e vomeri di aratro; i Greci del periodo post-miceneo si procuravano probabilmente le loro spade e i loro pugnali dall’Anatolia e dalla Siria, forse attraverso Cipro, e da qui con l’andar del tempo trassero le conoscenze necessarie a costituire un’industria siderurgica loro propria.

Le invasioni achee portarono a un periodo oscuro durato due secoli. L’altipiano rimase spopolato, mentre nella parte Sud-Occidentale dell’Anatolia e nella Siria Settentrionale si vennero a formare, nel corso del decimo secolo prima di Cristo, piccoli Regni o Città-Stato Ittiti: Tabal, federazione dei principati situati a Ovest del Tauro; Melitene, Gurgum, Commagene, Karkemish, Samal e Est. Scomparve la scrittura cuneiforme ma rimasero in uso i geroglifici, utilizzati anche per la redazione di testi lunghi bilingui o trilingui (luvio, fenicio e aramaico). Questi Stati, detti Neo-Ittiti, costituirono un’appendice durata tre secoli della brillante civiltà anatolica, ma non poterono evitare la decadenza, anche perché il ferro, l’unica cosa che garantiva la superiorità, era ora accessibile anche ai loro rivali. L’una dopo l’altra, queste città scomparvero; l’ultima, Karkemish, cadde conquistata dagli Assiri nel 717 avanti Cristo. Quanto all’antica capitale, Hattushash, la città sarà rioccupata dai Frigi nell’VIII-VII secolo avanti Cristo; con la conquista del Regno Frigio da parte dei Cimmeri, la città decadde in modo definitivo e non fu più sede di nuovi insediamenti.

Così, il più potente e civile tra i primi popoli indoeuropei cadde in un oblio durato migliaia di anni: i Greci e i Romani non avevano già più alcuna notizia di questo antico popolo.

(ottobre 2020)

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