La civiltà micenea
Cittadelle fortificate, mura ciclopiche,
raffinate manifestazioni artistiche caratterizzano la
società cantata da Omero nei suoi poemi
La Grecia è stata la prima terra dell’Europa a vedere il sorgere di una grande civiltà; anzi, si può dire che la civiltà stessa dell’Europa abbia avuto origine da quella greca: molti aspetti della nostra cultura e del nostro pensiero derivano dal popolo greco.
Il fiorire di una straordinaria civiltà su questa terra è spiegato dalla sua posizione: la Grecia è infatti la più orientale delle penisole mediterranee e la più vicina alle coste dell’Africa Settentrionale e dell’Asia Minore, territori abitati da popoli estremamente avanzati (come gli Egiziani o i Fenici).
La Penisola Greca è poi circondata da numerose isole che ancor più l’avvicinano a quelle terre: sono state queste isole le prime ad essere abitate da popoli progrediti, che poi si sono spinti sulle coste ed all’interno della penisola, attratti dal clima dolce di quei territori. Questi antichi abitatori di Creta e della Penisola Greca sono i Pelasgi o Carii, provenienti forse dalla Penisola Anatolica (l’odierna Turchia), genti di cui si hanno scarse notizie storiche.
Tra il 2000 e il 1600 avanti Cristo, la Grecia viene invasa dagli Achei, un popolo di stirpe ariana originario probabilmente delle steppe della Russia Meridionale e che dovrebbe parlare un dialetto indoeuropeo progenitore del greco. Irrompendo nella penisola, gli Achei scacciano i Pelasgi che si riducono a vivere in una zona montuosa che da loro ha preso il nome. Dopo avere compiuto devastazioni e distruzioni, gli Achei assimilano poco a poco la superiore civiltà dei Pelasgi e fondano diversi villaggi e città, delle quali la più importante è Micene, nel Peloponneso: da questa città la colonizzazione degli Achei prende il nome di «civiltà micenea».
Mappa dei principali centri della civiltà micenea
I Regni Micenei della Grecia continentale e del Peloponneso si consolidano e prosperano grazie ad uno sfruttamento sistematico delle risorse agricole (come le opere di drenaggio del lago Copais) e ad un sistema amministrativo-burocratico fortemente centralizzato, caratterizzato da imponenti fortificazioni dei centri di potere e inventari dettagliati delle merci su tavolette di argilla. Una volta stabilitisi saldamente nel continente, gli Achei si spingono nelle isole circostanti, mettono in discussione la supremazia marittima di Creta e delle isole Cicladi finché, verso il 1450 avanti Cristo, la distruzione generale dei siti cretesi, testimoniata dagli scavi archeologici, segna l’inizio della potenza micenea. Il commercio miceneo si sviluppa nel Mediterraneo Centrale e Orientale e favorisce, in alcune di queste regioni, gli insediamenti stabili: abbiamo siti micenei in Italia Meridionale, in Sicilia, in Sardegna, a Malta, a Cipro, in Siria, in Palestina, in Egitto, fin sulle coste dell’Asia Minore; qui gli Achei vengono in urto con le stirpi asiatiche impegnandosi in una lunga e difficile guerra che si configura nel decennale assedio di Troia cantato nei poemi omerici; dopodiché, praticamente non hanno più rivali. Siamo circa nel 1200 avanti Cristo.
Pur mostrando contatti con la civiltà cretese e con le civiltà del Vicino Oriente, la civiltà micenea appare tuttavia diversa ed omogenea. La società è più povera, legata a tradizioni agricole e pastorali, in cui è molto sviluppato l’artigianato (numerosi sono i muratori, i fabbri, i falegnami); conosce l’uso di leggeri carri da guerra dotati di ruote a raggi e tirati da cavalli, un tipo diffusosi inizialmente con gli Hyksos in Palestina e in Egitto, e con gli Ittiti nell’Anatolia. Guerrieri valorosi ed abili navigatori, gli Achei amano la caccia e gli esercizi sportivi, e non trascurano le manifestazioni artistiche, come ci dimostrano i vasi di pietra, d’alabastro e di ceramica dipinta, il vasellame d’oro, d’argento e di bronzo, i prodotti d’oreficeria, le armi e, soprattutto, le maschere funerarie dei Re defunti.
Le città degli Achei – in realtà poco più grandi di un villaggio – sono potentemente fortificate, circondate da robuste mura con torri e bastioni sui quali vigilano giorno e notte le sentinelle, e ci ricordano un po’ le cittadelle feudali del Medioevo: contrariamente alle città-palazzo cretesi, ampie, libere, aperte, qui possiamo parlare piuttosto di città-fortezza. Basti pensare alle imponenti difese di Tirinto, per esempio: le sue mura sono fabbricate con grandi massi, di tale imponenza da giustificare la leggenda secondo la quale sarebbero state costruite dai Ciclopi, i mostruosi giganti della mitologia greca forniti di un solo occhio in mezzo alla fronte (si parla infatti di «mura ciclopiche»). Queste mura, altre circa 10 metri, sono talmente larghe (da 7 a 17 metri) che all’interno corre un passaggio in galleria. Alla cittadella si accede mediante una rampa, da cui si passa ad una via interna, fiancheggiata da altre potentissime mura dalle quali i difensori possono colpire i nemici che siano riusciti a salire fino a quel punto. Successivamente si può penetrare nel cortile esterno, da cui, attraversando un portico di accesso chiamato «propileo», si giunge in un secondo cortile e da qui, mediante un atrio, si entra nel «mégaron», la grande sala rettangolare al cui centro s’alzano quattro colonne ai lati del focolare e il cui impianto sarà poi costante nel tempio greco. Il «mégaron» è il locale più importante dell’intera cittadella: come ci racconta Omero, è qui che il Re, circondato dai nobili e dagli schiavi, dà udienza ai sudditi, banchetta a base di arrosti con la famiglia e i dignitari di Corte, riceve ospitalmente i forestieri che sono considerati sacri, si esercita in prove di forza e di abilità, ascolta le voci melodiose dei cantori, osserva il lavoro paziente delle donne. Entro il recinto delle mura della cittadella vivono gli alti dignitari, gli artigiani, i servi, mentre il resto della popolazione abita invece nei bassi edifici allineati ai piedi della collina.
Ricostruzione delle cittadelle fortificate di Tirinto e di Micene
Galleria all'interno delle mura, XV-XIII secolo avanti Cristo, Tirinto (Grecia)
Ricostruzione del mégaron del palazzo di Nestore a Pilo
Come Tirinto, anche Micene sorge su un colle per essere difesa più agevolmente; le sue mura, costruite con grosse pietre squadrate, esprimono una forza contenuta ma inesorabile; la porta, sormontata da un monolite raffigurante due leonesse che si fronteggiano appoggiandosi ad una colonna (e che perciò è chiamata «Porta dei Leoni»), è larga 3 metri, profonda 1 metro e 20 centimetri, alta 3 metri e 20 centimetri; il solo architrave che la sovrasta pesa circa 20 tonnellate. Nella sua cittadella la leggenda colloca le mitiche, fosche vicende della famiglia degli Atridi: Agamennone, il Re dei Re, il vincitore di Troia, assassinato a tradimento, al ritorno dalla lunga guerra, da Egisto, l’amante della moglie Clitennestra; l’uno e l’altra, a loro volta, uccisi da Oreste, il figlio di Agamennone e Clitennestra, istigato a compiere la terribile vendetta dalla sorella Elettra.
Le mura e la Porta dei Leoni, circa XIV secolo avanti Cristo, Micene (Grecia)
Ogni famiglia achea è abituata a vivere in modo indipendente, perché ognuno provvede ai propri bisogni. Gli uomini coltivano la terra e costruiscono con le proprie mani le case e i mobili; le donne filano la lana e tessono. Anche i Sovrani non disdegnano i lavori manuali.
L’alimentazione è costituita in prevalenza di carni arrostite, di legumi, di focacce di frumento; se bisogna addolcire i cibi, si usa soltanto il miele. La bevanda preferita è vino misto con acqua.
Gli Achei vestono in modo molto semplice, con una tunica lunga fino al ginocchio; le donne portano inoltre un velo ed una cintura. I più ricchi si adornano con anelli e spille d’oro. Uomini e donne calzano sandali di cuoio.
Come molti popoli dell’antichità, gli Achei non coniano monete: per commerciare usano lingotti d’oro o di bronzo, ma preferiscono lo scambio di una merce per un’altra. I traffici all’interno della Grecia sono comunque piuttosto scarsi per la mancanza di vere strade; più attiva è la navigazione, specialmente verso Creta e l’Egitto. I vasi d’oro e d’argento, gli specchi con i manici di avorio finemente intagliato, le armi e i monili splendidamente lavorati e l’uso di materie prime provenienti da lontani Paesi dimostrano la potenza raggiunta dai Sovrani Achei.
La nostra conoscenza della civiltà achea è dovuta principalmente all’archeologo tedesco Heinrich Schliemann: dopo aver scavato i resti di Troia, nel 1876 questo infaticabile entusiasta si mette a scavare un colle del Peloponneso, seguendo passo passo le descrizioni di Omero. Il suo lavoro è coronato dal successo: scopre Micene, la patria dei vincitori di Troia. Gli Achei, scomparsi da secoli, quasi inghiottiti da quella terra che li aveva nutriti, considerati ormai solo un fantasioso mito, rivivono attraverso gli oggetti stupendi che Schliemann estrae dalle viscere della terra, dalle loro tombe e il loro segreto, nascosto per millenni, torna alla luce: ogni pietra, ogni oggetto o suppellettile «parla», a chi lo sa ascoltare, raccontando la sua storia affascinante.
Nel periodo più antico della loro civiltà, gli Achei hanno usato tombe «a pozzo», scavate nella viva roccia lungo la strada che conduce alla rocca; più tardi, per i personaggi illustri, si sono costruite sepolture più monumentali. La più celebre è il cosiddetto «Tesoro di Atreo» («tesoro» per le ricchezze principesche che si sono accumulate all’interno): un lungo corridoio, scavato nella roccia, conduce in una grande sala circolare, costruita con pesanti macigni sovrapposti che terminano a cupola; un tempo la volta era decorata da rosoni di bronzo dorato che, nella semioscurità, dovevano dare suggestivi bagliori di cielo stellato. In questa sala, sulla nuda terra, sono stati posti i defunti, con gli oggetti più preziosi che sono loro appartenuti. Il capo famiglia ha una celletta a parte, di forma quadrata, adiacente al locale. Dopo la sepoltura, il corridoio di ingresso è stato murato e riempito di terra: così la tomba è rimasta isolata a custodire il suo segreto.
Il soffitto del «Tesoro di Atreo» ha una grande importanza dal punto di vista architettonico, perché è il primo esempio di copertura «a volta»; in realtà non è una volta vera e propria, perché non è formata da un vero arco: è stata ottenuta per mezzo di massi di pietra posti uno sull’altro in modo da sporgere; le sporgenze sono state poi «tagliate» e scalpellate per creare la rotondità. È la stessa tecnica costruttiva dei trulli pugliesi e dei nuraghi sardi.
Quando Heinrich Schliemann scopre le prime tombe micenee, davanti ai suoi occhi abbagliati appaiono degli scheletri magnificamente rivestiti: indossano abiti ornati di dischetti d’oro, lavorati con arte finissima, diademi ed anelli-sigillo che attestano la loro dignità. I Re e i principi sono riconoscibili perché hanno sul volto una maschera di sottili lamine d’oro che riproduce, un po’ stilizzati, i loro lineamenti dal tipico profilo greco: tratti forti, decisi, energici, dagli occhi chiusi nella terribile fissità della morte. In una di esse l’archeologo tedesco crede di individuare il volto del leggendario Agamennone, mentre in realtà la tomba risale ad un’epoca più antica.
Maschera funeraria, inizialmente creduta quella di Agamennone, circa XVI secolo avanti Cristo, Museo Archeologico Nazionale, Atene (Grecia)
Le splendide coppe d’oro e d’argento provenienti dalle tombe di Micene, che servivano per le libagioni sacre, ci dicono molte cose sul gusto degli Achei: essi amavano senza dubbio il lusso e la raffinatezza dei materiali preziosi (lo testimonia il frequente impiego dell’oro); la loro fantasia artistica si manifesta nell’elegante fattura delle coppe, degne dei più grandi artefici, mentre la scelta degli animali più frequentemente raffigurati, il toro e il leone, è simbolo della loro fiera volontà di potenza.
Un vaso da libagione in argento raffigura l’assedio di una città. Raramente si attaccavano direttamente le mura: di solito le battaglie si svolgevano in campo aperto e si risolvevano in duelli mortali fra i singoli eroi. Questo è anche quanto racconta Omero.
Un pugnale di bronzo dalla lama di 18 centimetri porta inciso in oro ed argento un drammatico episodio di caccia: cinque cacciatori achei, armati di scudi smisurati, di arco e di giavellotto, hanno stanato un branco di leoni; due degli animali fuggono, mentre il terzo si slancia sul cacciatore caduto a terra. La caccia era molto amata dagli Achei: oltre a procurare il cibo, serviva a tenere allenati i muscoli dei guerrieri.
Insomma, in tutti gli oggetti posti ad ornamento delle loro dimore dopo la morte, si riflette intera la personalità di un popolo non solo forte e guerriero, ma anche profondamente civile.