Royer-Collard
L’esperienza dottrinaria della
Restaurazione: premessa di sviluppo borghese fra suggestioni
gianseniste ed attese innovatrici
Nella Francia della Restaurazione le tendenze conservatrici, esaltate dalla reazione agli «eccessi» della Rivoluzione ed a quelli dell’Impero, emarginarono la dialettica parlamentare nella cosiddetta «Camera introvabile» ed acquisirono connotazioni radicali nella stagione del «Terrore bianco». Le voci dissenzienti furono poche ma alcuni moderati vollero impegnarsi in un movimento politico che nonostante lo scarso seguito ebbe un’influenza significativa nelle vicende dell’epoca: quello dei «dottrinari».
Nel piccolo gruppo, che si distingueva da una «Sinistra» orientata a favore del libero pensiero e di un sistema costituzionale ma pur sempre monarchico, e che si riconobbe sinteticamente nelle istanze del «juste milieu», la figura più significativa fu quella di Pierre Paul Royer-Collard, un uomo coltissimo di formazione giansenista da cui aveva mutuato spunti di austera intransigenza idonei ad esaltare il fascino di una dirittura morale riconosciuta da tutti, e capace di coniugarsi al meglio con una personalità brillante e faconda.
Royer-Collard, che apparteneva ad una grande famiglia di proprietari terrieri della Champagne, era nato nel 1763 ed aveva vissuto le esperienze di Rivoluzione ed Impero senza un apporto partecipativo importante, limitandosi ad onorare gli impegni istituzionali. Non era stato insensibile ai grandi principi di libertà ed uguaglianza e non aveva condiviso il progetto assolutista di Napoleone, tanto da accettare l’incarico di Consigliere Segreto di Luigi XVIII durante gli anni di «emigrazione» della Monarchia legittima.
Pur essendo molto ascoltato, non fu un leader carismatico nel senso tradizionale della parola né si fece suggestionare da esperienze totalitarie come quelle di Robespierre o di Bonaparte, ma ebbe un ruolo notevole nella formazione di una volontà politica in cui seppe attenuare talune pregiudiziali della maggioranza «ultra» sia pure nei limiti derivanti dalla struttura oligarchica delle forze governative e della stessa opposizione. E la «leadership» del gruppo dottrinario, sia intellettuale che politica, fu innegabilmente sua.
I quindici anni che intercorrono fra la Restaurazione di Luigi XVIII e la caduta di Carlo X, compresi fra il 1815 ed il 1830, furono importanti, ed alla fine decisivi in un lungo ed aspro confronto per l’affermazione dei nuovi diritti attraverso le moderne garanzie costituzionali.
L’apporto di Royer-Collard alla maturazione di questa consapevolezza, oggi ovvia ma difficile nella sua epoca, è stato molto incisivo: sempre pronto ad intervenire nel dibattito parlamentare, sempre orientato a battersi per la soluzione «giusta» dei problemi politici, fu coerente nelle scelte, spesso non condivise dalla maggioranza, a favore delle libertà di pensiero, di stampa e di culto, dell’uguaglianza giuridica, della pubblica moralizzazione e dello stesso decentramento amministrativo.
È da sottolineare in modo specifico il suo impegno per la libertà religiosa, tanto più ragguardevole in un uomo di sicura fede e di stretta osservanza cattolica. Ne costituisce un esempio, fra gli altri, l’intervento rivolto a depenalizzare il sacrilegio: un reato che durante la Restaurazione avrebbe potuto condurre al patibolo. Insomma, l’ossequio all’Altare non ha impedito, in Royer-Collard, la maturazione di una coscienza laica, pronta a riconoscere il ruolo di Cesare accanto a quello di Dio.
Il distacco dagli eccessi rivoluzionari e dalle tentazioni imperiali era presente nella sua intuizione di una società civile che non avrebbe potuto riconoscersi nell’antico regime e tanto meno nell’esperienza bonapartista, bensì nel bisogno di una nuova libertà, sia pure improntata alla prudenza, la cui codificazione fosse statuita nella Carta costituzionale e garantita dal legittimismo monarchico.
Royer-Collard non comprese che l’opposizione ai privilegi aristocratici e le dichiarazioni di fedeltà nei confronti della Corona di diritto divino non avevano la possibilità di coesistere: il sistema della Restaurazione doveva contare sull’appoggio della Destra ultra-realista e limitare con questo supporto ogni apertura «democratica» non senza prevenire conati rivoluzionari tutt’altro che spenti, come avrebbero dimostrato le Giornate del 1830 e l’avvento di Luigi Filippo.
Nelle suggestioni legittimiste di Royer-Collard compare un tema che con qualche approssimazione si dovrebbe definire di classe, intesa nel significato di aggregazione sociale e di consapevolezza dell’appartenenza al suo censo e della condivisione dei suoi interessi. Non a caso, il leader dottrinario coglie nella «classe moyenne» il fatto nuovo della politica francese e vi percepisce aspetti di «potenza» irreversibile, precisando che la democrazia, intesa quale antitesi dell’aristocrazia, si sostanzia nel progresso borghese fino al punto di competere positivamente, almeno in linea di fatto, con la classe superiore.
La fedeltà al Trono ed all’Altare, che sarebbe stata riferimento irrinunciabile di tutta una vita, resta un valore legato alla formazione religiosa ed alle tradizioni di intransigenza rigorista ma non impedisce a Royer-Collard di teorizzare il fondamento della nuova società sulla base di un’uguaglianza giuridica a cui non corrisponde un’omogeneità sostanziale in via di fatto, dal momento che bisogna tenere conto delle «differenze di interessi e delle situazioni sociali derivanti da superiorità di ogni genere: gloria, nascita, proprietà, ricchezza». Parole chiare, da cui emerge una valutazione autoreferenziale del proprio «status» che contraddice l’assunto liberale di fondo, ma si spiega con l’opportunità di non dissociare le attese dell’aristocrazia da quelle di una classe media in prepotente ascesa.
Ciò posto, diventa facile trasferire il privilegio borghese alla sfera istituzionale e consolidarlo nella garanzia di ordine e di stabilità in cui risiede la chiave del conservatorismo dottrinario: la difesa dell’uguaglianza è appassionata fino a quando non compromette i privilegi del potere, compreso quello economico. Va aggiunto, peraltro, che le preoccupazioni di Royer-Collard diventarono paradossalmente più accentuate dopo la caduta dei Borboni, manifestando, sia negli interventi alla Camera che nelle tante lettere l’ansia per un futuro condizionato da suggestioni eversive, velleitarie ma frequenti.
La sua intuizione, in effetti, è di notevole lucidità, per qualche aspetto profetica: il secolo XIX sarebbe stato quello della rivoluzione industriale e del predominio borghese, ed avrebbe visto l’avvento del socialismo.
Royer-Collard intravvede le ulteriori inferenze «sovversive» che avrebbero posto in discussione i fondamenti del predominio borghese, sostitutivo di quello nobiliare, ed avverte il bisogno prioritario di tutelare la situazione in essere. La stessa difesa della legittimità si inserisce in questa ottica, in quanto la caduta delle prerogative reali avrebbe comportato, come corollario, quella dell’illusione dottrinaria e della stessa idea di rappresentanza, legata alla Monarchia ed alla Carta.
Il suo pensiero non è rivolto al passato e tende all’avvenire, ma le sovrastrutture derivanti dall’educazione, dall’esperienza politica e dalla consapevolezza del rischio di nuovi sommovimenti non giovano alla chiarezza e danno luogo a visibili ritrosie nei confronti dell’azione responsabile, all’insegna di una psicologia complessa dove la pregiudiziale giansenista finisce per indulgere ad una sorta di sofferto perfezionismo teleologico e, quindi, a soluzioni attendiste.
La Restaurazione non lasciava spazio ai partiti, sia pure in senso ideologicamente e funzionalmente circoscritto, ma dopo la prima fase di forte orientamento reazionario non fu aliena dal consentire la formazione di due movimenti che davano luogo ad una limitata dialettica politica: da una parte, la forte maggioranza ultra-realista in cui l’accettazione provvisoria della Carta non escludeva di azzerare l’opera della Rivoluzione, e dall’altra gli spiriti indipendenti, favorevoli a garanzie costituzionali che permettessero di ricostruire lo Stato sulla base dei nuovi principi di libertà.
Fra questi due movimenti venne ad inserirsi quello dei dottrinari, avversario di reazioni e rivoluzioni, convinto del valore «immutabile» della Carta e deciso a conservare i diritti della classe media senza escludere possibili provvedimenti eccezionali in caso di emergenza. Si può dire che il «partito» di Royer-Collard fosse di carattere centrista, anche alla luce del suo difficile tentativo di riconciliazione nazionale. Non esistevano vincoli di scuderia ad una linea ufficiale ma un atteggiamento comune, sia pure con sfumature diverse, nei confronti di problemi essenziali, a cominciare da quello della sintesi fra legittimismo e libertà.
I dottrinari non erano molti: come fu detto in chiave garbatamente critica, erano quattro ma si vantavano di essere tre, sembrando impossibile che potessero esistere quattro teste di cotale forza, mentre altre volte, quando volevano spaventare gli avversari, si vantavano di essere cinque.
Gli esponenti in vista appartenevano a classi diverse ma comunque «superiori»: il duca Albert de Broglie, espressione della nobiltà, rappresentava il movimento alla Camera dei Pari, mentre Jean Mounier e Camille Jordan venivano dal mondo rivoluzionario, Hector de Serre da quello militare, Prosper de Barante e Stephane Pasquier da quello dei pubblici funzionari che avevano servito Napoleone. Ne facevano parte, infine, giovani intellettuali come Francois Pierre Guizot e più tardi Adolphe Thiers.
Il collante del gruppo, garantito da rilevanti mezzi finanziari che gli assicuravano una significativa autonomia strategica, non era un’idea ma un’atmosfera: paradossalmente, mancava un sistema politico che potesse tradursi in «dottrina» tanto da porre il problema di «inventarne» una secondo le circostanze e le convenienze.
Del resto, le moderne involuzioni partitocratiche erano ben lontane, lasciando margini notevoli all’azione personale, e la stessa «leadership» di Royer-Collard non ebbe uno specifico contenuto ideologico mentre trasse apprezzabili motivi di accoglimento e di condivisione, nell’ambito di tutto il gruppo, da valori come l’alto senso dello Stato, la dirittura morale ed una straordinaria eloquenza.
Dopo la Rivoluzione «gloriosa» del luglio 1830, il ruolo del movimento dottrinario venne ridimensionato sino a scomparire, tanto che lo stesso Royer-Collard si sarebbe definito un sopravvissuto, pur continuando a partecipare alla vita pubblica e parlamentare con impegno ridotto ed unanime rispetto, rimanendo fedele al principio legittimista ma accettando le implicazioni liberali e «borghesi» del nuovo regime politico.
Quella di Royer-Collard è una parabola di esperienze straordinarie e per taluni aspetti irripetibili, acquisite durante la Rivoluzione, l’Impero e la Restaurazione: sempre all’insegna del «juste milieu» e della moderazione, nella forte salvaguardia dell’ortodossia religiosa ma con frequenti concessioni alla «morale» borghese. In ogni caso, una parabola sofferta, uno spirito nobile ed un esempio di arduo «contemperamento» fra interesse politico e valori etici.