David Livingstone
Un testardo esploratore

Un grande esploratore del continente africano del XIX secolo fu il medico e missionario David Livingstone, che è entrato nella storia per le sue scoperte laggiù fatte.

David Livingstone

Litografia di David Livingstone

Era nato in Scozia, nella regione del Lanarkshire, precisamente nella cittadina denominata Blantyre, il 19 marzo 1813, in una famiglia di umili origini, nella quale lui era il secondo di sette fratelli. Che la vita fosse grama lo dimostra la necessità di farlo lavorare quando aveva appena dieci anni. Il suo lavoro non era pesante, perché consisteva nell’annodare i fili rotti in un’industria tessile. Dedicava il tempo libero allo studio, imparando il latino e più tardi, con i soldi che aveva caparbiamente risparmiato, si iscrisse a medicina presso l’Università di Glasgow, dove si laureò.

Era un cristiano convinto, profondamente religioso e fu ordinato sacerdote. A quel punto, ebbe il desiderio di andare all’estero come missionario ed era pronto per recarsi in Cina quando, nel 1839, scoppiò la prima guerra dell’oppio, che durò fino al 1842; per questo cambiò destinazione, decidendo per l’Africa, e nel 1841 si recò a Città del Capo nell’attuale Sudafrica.

Da allora, nelle sue qualità di medico, di missionario e soprattutto di esploratore, svolse le sue attività nella perlustrazione dell’Africa Meridionale, in territori inesplorati. Il suo scopo era quello di fare conoscere tante cose dell’Africa in Europa, dove non si sapeva molto in merito, e di aprire nuove vie commerciali.

Ma non era contento, perché il suo sogno era quello di imitare il nobile inglese James Bruce, cioè colui che, nel 1790, aveva scoperto le sorgenti del piccolo Nilo Azzurro; si venne a sapere, poi, che erano state scoperte in precedenza dai Gesuiti.

In ogni modo, il suo sogno era quello di trovare le sorgenti del Nilo Bianco. Questo sogno non si avverò mai, tuttavia fece scoperte altrettanto importanti, quale quella delle cascate Vittoria, come le chiamò in onore della Regina Inglese di allora, che si trovano lungo il corso del fiume Zambesi. Nella mappatura di quel fiume, evidenziò che per lunghi tratti non era navigabile a causa delle sue cateratte. Comunque, fu una spedizione disastrosa durante la quale i suoi accompagnatori occidentali o morirono o rinunciarono. E, il 27 aprile 1862, perse pure la moglie Mary, uccisa dalla malaria. Lui continuò le sue esplorazioni e ritornò in patria solamente nel 1864.

Qui trovò la conferma che la sua spedizione era stata ritenuta un fiasco, tanto che ebbe difficoltà a trovare fondi per quella successiva.

Ma, nel 1866, riuscì a partire di nuovo per l’Africa, approdando in Tanganica, da dove iniziò le sue ricerche per le sorgenti del Nilo Bianco, convinto che ce l’avrebbe fatta nel giro di due anni. Però, i suoi spostamenti lo portarono troppo verso Occidente, tanto da giungere al fiume Lualaba che, secondo lui, era quello che cercava, ma che, invece, si è dimostrato essere l’inizio del fiume Congo. E da allora se ne persero le tracce e molti erano dell’avviso che fosse morto. Lui, invece, era vivo, ma stanco, spossato dai lunghi viaggi in condizioni critiche, messo male in salute, con la malaria che non lo mollava. Tentava di mandare sue notizie in Inghilterra, ma non arrivavano al recapito giusto oppure non erano ritenute verosimili.

Finché, un lustro dopo, nel 1871, il quotidiano «New York Herald» organizzò una spedizione, con a capo il Gallese Henry Stanley, reduce dalla guerra civile americana, avente lo scopo di ritrovarlo.

Stanley, con la promessa al giornale che lo avrebbe riportato vivo o, se fosse morto, ne avrebbe portate le ossa, il 21 marzo 1871 iniziò le sue ricerche, partendo dal piccolo porto di pescatori di Bagamoyo, posto a nord di Dar es Salam, con la sua carovana composta da più di cento portatori e da tantissimi animali da soma.

L’impresa si dimostrò subito difficile e disastrosa, giacché l’ambiente si rivelò subito estremamente ostile, costituito com’era da terreni difficili, giungle intricata e paludi pestifere, abitate da pericolosi coccodrilli e infestate da sciami della micidiale mosca tse-tse, che falcidiarono le bestie da soma; e molti portatori furono uccisi dalle malattie e altrettanti, disorientati e impauriti, abbandonarono la carovana. E pure Stanley non se la passava bene, torturato dalla dissenteria, dal vaiolo e da una forma di malaria cerebrale, dovuta a un’infezione di «plasmodium falciparum». Comunque, con i portatori restanti, andò avanti con grande coraggio, finché, dopo aver percorso circa 1.100 chilometri, giunse nel villaggio di Ujiji, oggi in Tanzania, sulle rive del lago Tanganica dove, secondo informazioni avute durante il tragitto, si trovava un uomo bianco. Stanley decise di presentarsi al bianco ben vestito e in ordine e, il 10 novembre 1871, andò al villaggio insieme con un gruppo dei suoi accompagnatori. Furono subito attorniati dai locali, incuriositi, che si chiedevano che cosa desiderassero quegli stranieri, ma Stanely, che aveva adocchiato una persona, sicuramente europea, piuttosto malandata, con un aspetto da scarsa salute e con i capelli bianchi e una barba disordinata, gli si avvicinò, formulando quella domanda che è rimasta famosa nella storia delle esplorazioni (supposto che il fatto sia avvenuto in tale maniera): «Il Dottor Livingtone, suppongo?» e allungò una mano. Alla risposta affermativa, ricevette una stretta di mano e Stanley, con un senso di liberazione e sollievo, esclamò: «Ringrazio Dio, dottore, perché mi è stato permesso di vederla». Era il 10 novembre 1871.

E Stanley ebbe da Linvingstone il racconto di come fosse andata veramente la spedizione. La sua spedizione lungo il Nilo fu martoriata da furti e dimezzata dalle diserzioni dei portatori; malattie tropicali avevano colpito portatori e Livingstone stesso che era stato costretto ad accettare di viaggiare con mercanti arabi di schiavi. Quando la spedizione di soccorso giunse, era in una fase penosa di salute.

Stanley voleva riportarlo in patria, ma lui, caparbio, volle riprendere le ricerche delle sorgenti del Nilo. Perciò Stanley lo rifornì del necessario, ci fu la separazione nel marzo 1872 e Livingstone si diresse verso il lago Bangweulu nell’attuale Zambia, dove, il 1° maggio 1873, morì a causa della malaria e della dissenteria, che lo tormentavano senza tregua.

Gli indigeni tolsero il sangue e i visceri al suo corpo, poi, per conservarlo, lo coprirono di sale, lo fecero seccare al sole e alla fine lo posero in un rotolo di corteccia con la funzione di bara per mandarlo in Inghilterra, dove fu tumulato a Westminster. Il cuore, invece, fu trattenuto in Africa e seppellito all’ombra di un albero di mobola, presso il lago Bangweulu, a Chitombal.

Tutto quanto fu fatto con amore e rispetto dai suoi due fedeli assistenti Chumah e Susi. Alla richiesta di un chiarimento in merito alla decisione di trattenere il suo cuore, la risposta fu semplice, ma intensa, cioè che il corpo era inglese, ma il cuore era un bene del Continente Africano.

I risultati delle spedizioni di Livingstone si possono sinterizzare nelle poche righe seguenti.

Fu il primo Occidentale a trovarsi di fronte alle grandiose cascate Vittoria e sempre il primo ad attraversare il Continente Nero lungo un parallelo, dall’Angola di oggi al Mozambico; ad affrontare, per due volte, l’attraversamento del deserto del Kalahari portando con sé la seconda moglie e i suoi figli; inoltre, mappò il fiume Zambesi e fornì notizie e informazioni sull’Africa del tutto ignote in Europa.

(aprile 2024)

Tag: Mario Zaniboni, David Livingstone, Scozia, Blantyre, missionario, Nilo Bianco, cascate Vittoria, fiume Zambesi, Henry Stanley, New York Herald, lago Bangweulu, esplorazione dell’Africa.