Il feroce Saladino
Nell’immaginario popolare, il Saladino è l’icona stessa della ferocia musulmana, un vero e proprio terrorista «ante litteram». Ma le fonti ce ne danno un’immagine parzialmente diversa, e per certi versi persino sorprendente: un personaggio insieme spietato e feroce, così come magnanimo e leale

Ci sono pochi condottieri che, nel ricordo dei posteri, rimandano ad un’impressione di ferocia come quella del Saladino. Gli scrittori del passato sembrano non aver dubbi in proposito: l’Abate Gioacchino da Fiore (1130-1202) lo inserì nella lista nera dei persecutori della Chiesa insieme ad Erode, Nerone e Maometto, mentre Guglielmo, Arcivescovo di Tiro e cronista delle Crociate, lo definì «superbo tiranno infedele», anche se fu costretto a riconoscere che era comunque un uomo «dall’acuta intelligenza e generoso oltre misura». Un’illustrazione del Trecento, che lo raffigura mentre duella contro Riccardo Cuor di Leone, lo dipinge con un volto viola, la bocca digrignante irta di denti sotto un naso appuntito, più simile a un uccello rapace che ad un uomo. Spiega il medievista Franco Cardini che «va detto che in effetti Saladino, come molti condottieri, fu responsabile di azioni spietate. Ma il mito del “feroce Saladino” non è altro che il frutto di una diceria mediatica tarda, nata addirittura negli anni Trenta del Novecento. La “colpa” di quel nome è una raccolta di figurine organizzata a scopo pubblicitario dalla Buitoni-Perugina. Si trattava di un concorso: chi completava un album aveva diritto a un premio. Ma ultimandone 150 si aveva diritto a una Fiat Topolino. Si scatenò una gigantesca caccia che coinvolse milioni di Italiani: la figurina più ambita era proprio quella, rarissima, del “feroce Saladino”». Un uomo disegnato con la pelle scura, le membra arcuate, una bocca dall’espressione cupa sotto un naso prominente. Da quel concorso, il successo dell’epiteto e la «consacrazione» definitiva del marchio di ferocia.

Saladino

Il feroce Saladino delle figurine della Buitoni-Perugina

Ma chi era, in realtà, questo condottiero? Era davvero solo feroce, o c’era anche dell’altro?

Saladino (dall’arabo Salāh al-Dīn, ovvero «Integrità della Fede») era il nome onorifico di Yūsuf ibn-Ayyūb, nato nel 1138 da madre curda, a Tikrit (la stessa città natale, in Iraq, del dittatore Saddam Hussein, il «macellaio di Baghdad»). Suo padre Najm al-Dīn Ayyūb, emiro (governatore) e stimatissimo luogotenente a Damasco del Califfo Turco di Siria Nūr al-Dīn (latinizzato in Norandino), gli era a fianco come consigliere, ma fu lo zio Shīrkūh a dargli l’imprinting militare. A 14 anni lo fece entrare al servizio di Norandino, nonostante il ragazzo propendesse più per gli studi teologici che per l’arte della guerra. Apparentemente quieto e modesto, Saladino possedeva un animo ambizioso; passava il tempo a osservare e ascoltare tutto ciò che si svolgeva a Corte, imparava l’arte del governare e, nello stesso tempo, veniva a conoscenza dei vari problemi politici del Regno.

Nel 1168 fu mandato in Egitto al seguito dello zio, con un corpo di spedizione siro, per sedare una rivolta. Già in quest’occasione si rivelarono le sue non comuni doti militari e di organizzazione: in pochi mesi la rivolta venne repressa. Poco dopo lo zio Shīrkūh morì e Saladino fu nominato visir – una specie di Primo Ministro del Califfato – al Cairo e comandante in capo delle truppe egiziane.

Subito dovette affrontare un esercito crociato franco-bizantino che voleva frenare l’avanzata dei musulmani verso il Regno di Gerusalemme (sorto grazie a Goffredo di Buglione e ai suoi Crociati Franchi nel 1099). Saladino lo sbaragliò e si diresse rapidamente sulla costa del Mar Rosso, dove si impadronì della città di Ailah: in questo modo assicurava le comunicazioni fra l’Egitto, la Palestina e la Siria.

La potenza acquistata da Saladino e il suo ardore combattivo insospettirono Norandino. Già si stava profilando fra i due un conflitto armato, quando il Califfo morì. Era il 1174. Scomparso anche l’imam (il capo religioso), Saladino abbatté il Califfato e divenne Sultano d’Egitto, fondando la dinastia ayyubide (dal suo cognome). Era l’inizio di un’inarrestabile ascesa.

In Siria, molti emiri si prepararono a deporre colui che era considerato un usurpatore. Ma prima che riuscissero ad organizzarsi, Saladino con una marcia improvvisa, tanto veloce quanto estenuante, portò le sue truppe in Siria e depose gli emiri ribelli (al modo turco del tempo, cioè tagliando loro la testa). Nel 1175, la signoria di Saladino si estendeva sull’Egitto, su parte della Palestina, sulla Siria Centrale e sullo Yemen. E diveniva così sempre più inevitabile lo scontro delle sue forze con quelle del Regno di Gerusalemme, una lotta che occuperà quasi ininterrottamente tutta la seconda parte della sua vita.

La rivelazione che la sua missione si chiamava «jihad», cioè «sforzo» interiore per raggiungere la vera fede o, in senso meno spirituale, la guerra santa, venne a Saladino dopo una malattia. Mentre organizzava campagne in Egitto, Yemen e Siria, si ammalò gravemente. Scampò alla morte per miracolo e, nello stesso periodo, perse la moglie: il suo animo ne uscì cambiato.

Decise da allora di combattere per riconquistare Gerusalemme, per compiere il proprio dovere nei confronti di Dio e (sostenne) per permettere ad ogni musulmano di recarsi liberamente nella Città Santa per pregare.

Dopo la Seconda Crociata, il Regno di Gerusalemme aveva favorito il sorgere di una nuova, strana civiltà. Gli Europei che vi si erano stabiliti avevano finito per adottare il turbante e le vesti svolazzanti del Vicino Oriente, idonei a proteggere dal sole e dalla sabbia, avevano sposato donne siriane dando luogo a una discendenza mista e parlavano l’arabo come lingua di uso comune. I mercanti musulmani entravano senza limitazioni nelle case cristiane per vendere le loro merci, i dottori musulmani ed ebrei curavano ammalati cristiani. Il clero cristiano permetteva il culto islamico nelle moschee e il Corano era insegnato nelle scuole islamiche di Antiochia e Tripoli. Tra Cristiani e musulmani si stringevano alleanze ma anche amicizie personali, si scambiavano salvacondotti per viaggiatori e commercianti; Ibn Jubair nel 1183 fece un viaggio nella Siria Cristiana e vide i suoi correligionari prosperi e ben trattati dai Franchi. Ma il Regno era anche indebolito da continue lotte interne fra i comandanti crociati, i mercanti genovesi, veneziani e pisani portavano grande disordine nei porti orientali con le loro mortali rivalità e il duca Reginaldo di Châtillon non perdeva occasione per insultare e attaccare i musulmani. In un’imboscata ad una carovana fece un ricco bottino e molti prigionieri, tra i quali la sorella di Saladino. Questa fu la goccia che fece traboccare il vaso e scatenò la guerra.

Il 4 luglio 1187, presso i corni di Hattin, un’altura biforcuta vicino a Tiberiade (nell’odierno Israele), l’esercito musulmano di Saladino si scontrò nella battaglia decisiva con quello crociato guidato da Guido di Lusignano, Re (usurpatore) di Gerusalemme. Le forze opposte, come numero, dovevano equivalersi, ma Saladino, conoscendo i luoghi, aveva fatto occupare in anticipo dai suoi tutti i pozzi. I Cristiani giunsero sul luogo della battaglia stanchi e assetati, sotto le loro pesanti armature arroventate dal sole e senza il refrigerio di un po’ d’acqua; Saladino, approfittando anche del vento che spirava verso il nemico, diede fuoco ai cespugli, cosicché il fumo che si levava investiva i Cristiani. Le sue truppe separarono la fanteria cristiana dalla cavalleria e la fecero a pezzi; i cavalieri crociati combatterono con la forza della disperazione contro i nemici, il fumo e la sete, infine caddero a terra esausti e furono catturati od uccisi. Nella battaglia i musulmani si impadronirono anche della veneratissima reliquia della Vera Croce di Cristo, che era stata portata da un prete come insegna: fu inviata al Califfo di Baghdad e da allora scomparve. Alla tenda di Saladino arrivarono in catene i capi crociati appena catturati: lo stesso Re Guido, assieme al duca Rinaldo di Châtillon, Principe di Antiochia e Signore di Oltregiordano, e al Gran Maestro dei Templari Gerardo di Ridefort. Al primo, stravolto e coperto di polvere, Saladino offrì una coppa d’acqua al profumo di rose, raffreddata con le nevi del monte Hermon, accogliendolo come un ospite e salvandogli la vita. Al secondo chiese conto della violazione dell’armistizio, che aveva fatto riaprire le ostilità tra i due eserciti in lotta per la conquista della Terrasanta, e gli offrì la scelta tra la morte o il riconoscere Maometto come profeta di Dio. Rinaldo fece spallucce, Saladino compì un giro fra le sue truppe e, quando tornò indietro, gli tagliò la gola, a sangue freddo, poi lo decapitò. La scena terminò con il corpo di Rinaldo trascinato per i piedi da un cavallo e la sua testa conficcata su una lancia, per essere mostrata in tutte le terre del Regno di Saladino. Non contento il grande Sultano fece trucidare i 200 cavalieri Templari e Ospitalieri catturati (Gran Maestro incluso) fra gli applausi dei volontari del suo esercito. (Si dice – lo leggiamo in un poema francese dei primi del Duecento – che avrebbe chiesto ad Ugo di Tabaria, uno dei Crociati catturati in quella sfortunata battaglia, di farlo cavaliere. Il nobile signore gli spiegò che il requisito principale di un cavaliere era la fede cristiana e che «il santo ordine della cavalleria mal collocato sarebbe in voi, che siete della cattiva legge e non avete battesimo né fede; e che follia farei se volessi vestire di sete un letamaio?»).

Ecco come Ibn Al-Athir, storico arabo e testimone diretto di quanto accadde, racconta l’eccidio: «Al mattino del lunedì, due giorni dopo la vittoria, il Sultano fece cercare dei prigionieri Templari e Ospitalieri, e disse: “Purificherò la terra di queste due razze impure”. Assegnò quindi 50 dinar a chi ne avesse portato uno prigioniero, e subito l’esercito ne portò a centinaia. Egli ordinò che fossero decapitati, preferendo l’ucciderli al farli schiavi. C’era presso di lui una schiera di dottori e un certo numero di devoti e asceti: ognuno chiese di poterne ammazzare uno, e sguainò la spada, e si rimboccò la manica. Il Sultano era seduto con lieto viso, mentre i miscredenti eran neri, le truppe stavano schierate, gli emiri ritti in doppia fila. Ci fu chi fendette e tagliò netto, e ne fu ringraziato; e chi si ricusò e fallì, e fu scusato; e chi fece ridere di sé, e altri prese le sue veci. Vidi lì chi sghignazzava e ammazzava». Ce n’è a bizzeffe per dare al Saladino la nomea di «feroce».

Però, quando Saladino mise sotto assedio Gerusalemme, consentì ai Cristiani di abbandonare incolumi la città dietro pagamento di un riscatto (versato, dice un cronista cristiano, «con gratitudine e lamenti») e, con una specie di forfait, lasciò andare anche i più poveri e anziani. Si dice che abbia esentato dal pagamento vedove ed orfani, a cui anzi avrebbe offerto dei doni prima di lasciarli partire. Dei 60.000 Cristiani catturati, «solo» 15.000 divennero schiavi.

La presa di Gerusalemme provocò la Terza Crociata (1190) a cui parteciparono l’Imperatore Tedesco Federico I Barbarossa (che però annegò durante il viaggio in Asia Minore), il Re di Francia Filippo II Augusto e il Re d’Inghilterra Riccardo I Cuor di Leone. Questi ultimi due Sovrani si detestavano e si intralciavano a vicenda, finché Filippo Augusto se ne tornò malato in Francia lasciando il Re d’Inghilterra unico capo dell’intera spedizione.

Fu una guerra di alterne vittorie e sconfitte: Riccardo Cuor di Leone si rivelò un degno avversario del Sultano e, pur combattendolo con accanimento, ne rispettava il valore. I cronachisti arabi si diedero da fare per accreditare Saladino, in questa guerra, come un uomo virtuoso: fonti musulmane raccontano che durante una battaglia, quando Saladino si accorse che Riccardo Cuor di Leone combatteva a piedi per aver perso il suo destriero, gli inviò il suo scudiero con due cavalli da guerra perché non riteneva giusto che un valente guerriero dovesse combattere a piedi (già in precedenza, nel 1183, durante l’assedio alla fortezza di Kerak – oggi in Giordania –, dove si celebrava un matrimonio, aveva dato ordine ai soldati di non colpire, per una notte, la torre degli sposi con le catapulte). Quando seppe che il Re Inglese era febbricitante e aveva espresso il desiderio di qualche frutto e di una bevanda fresca, Saladino gli inviò pere, pesche, un po’ di neve e, in più, il suo medico personale. Per queste sue attenzioni, ai limiti del paradosso, nel 1825 lo scrittore inglese Walter Scott in un suo romanzo «vestirà» Saladino da medico, lo farà entrare nel campo dei cavalieri crociati e gli farà curare in prima persona Riccardo gravemente malato.

«In realtà il senso dell’onore di Saladino era piuttosto mutevole, come dimostra l’episodio dell’uccisione di Rinaldo, ma neanche Riccardo Cuor di Leone fu poi così cavalleresco» spiega lo storico Matthew White, autore di vari libri sulle peggiori atrocità della Storia. «Dopo aver tolto la città di Acri ai musulmani, concesse a Saladino una settimana per scendere a patti: scaduto il termine, Riccardo trascinò i 2.700 prigionieri di guerra fuori città e li decapitò, insieme a 300 loro familiari». Quando Saladino ne ebbe notizia, ordinò l’uccisione indiscriminata di tutti i Cristiani che da quel momento fossero stati fatti prigionieri in battaglia: quando riteneva che le necessità militari lo richiedessero, sapeva dispensare la morte con grande energia.

La parabola del «feroce Saladino» si concluse il 4 marzo 1193: quattro mesi prima Riccardo Cuor di Leone era tornato in Europa dopo aver stipulato una tregua che concedeva ai Crociati il controllo di una striscia costiera, permettendo a Cristiani e musulmani di circolare liberamente. Ma il Sultano non fece in tempo a godersela e a rallegrarsi del fatto di aver resistito all’offensiva crociata: morì fiaccato da continui attacchi di febbre. Tra l’altro senza mai aver visitato la sua, di città santa, La Mecca. Aveva 55 anni.

Saladino fu in genere generoso con i deboli, tendeva a trattare bene i vinti e mantenne sempre la parola data, tanto che i Cristiani si meravigliavano che un’anima che sapeva essere tanto gentile appartenesse a un infedele, e che in lui si incarnassero le virtù e i difetti cristiani. Trattava i servi con gentilezza e ascoltava tutti con pazienza. Di lui si disse che dava al denaro lo stesso valore della polvere: al figlio ez-Zahir che gli successe, lasciò come eredità personale un solo dinaro.

In Occidente si cominciò a restituire al Saladino nobiltà d’animo e lealtà almeno dal Trecento in poi. Spiega Cardini che «a proporre la sua apologia furono Dante, Boccaccio e – in pieno Illuminismo – il Tedesco Gotthold Efraim Lessing, che ne fece, con l’opera teatrale intitolata Nathan il saggio (1779), un modello di tolleranza»; anche Voltaire difese il Saladino, dicendo che pochi cronisti seppero rendergli giustizia. Dante, in particolare, nella Divina Commedia riservò a Saladino un trattamento di speciale favore: lo mise sì all’Inferno (Canto IV), ma in un maestoso castello nel Limbo; unico musulmano, insieme a due maestri arabi della scienza e della filosofia del suo tempo, Avicenna e Averroè. «[...] e solo, in parte, vidi ’l Saladino» (verso 129): il Sultano celebrato come principe di grande liberalità e giustizia, appare solo e in disparte rispetto alle altre anime dell’antichità; il suo isolamento, dovuto al fatto che è di altra stirpe e di altra religione, conferisce alla sua figura proporzioni eroiche. Anche Boccaccio (1313-1375) nel Decamerone elogia la tolleranza di Saladino che, in una delle prime novelle, ricopre di doni uno scaltro ebreo perché gli ha rivelato l’impossibilità di dire quale religione, tra la cristiana, l’ebraica e la musulmana, sia quella autentica (ognuno, conclude l’Ebreo, crede che sia la sua): in un’illustrazione del XIV secolo è raffigurato con un volto mite, uno sguardo dolce e pensoso e una barba bianca tipica di un filosofo.

Perché, allora, ne abbiamo sempre avuto un ritratto fosco? Perché le fonti giunte fino a noi sono spesso di parte, più simili ad opere di «propaganda» che di ricerca storica: dipingere l’avversario come un mostro serviva – e serve tuttora – a giustificare la guerra celandone i veri motivi, legati spesso a questioni economiche. I Persiani, per gli scrittori greci del V secolo avanti Cristo, erano tutti tipi violenti dai gusti un po’ volgari: era infatti dalla Persia che, all’epoca, veniva la minaccia più grande per le città-stato greche. In modo analogo, l’aristocrazia del Senato Romano vedeva come fumo negli occhi i primi Imperatori assolutisti, accentratori di potere e «nuovi ricchi»: siccome molti storici e scrittori latini sedevano in Senato e parteggiavano per le famiglie che avevano fatto grande la Repubblica Romana, gli Imperatori passarono alla Storia mostrando il loro lato peggiore. Lo stesso trattamento venne riservato agli Imperatori pagani del IV e V secolo («debosciati» nelle fonti cristiane perché persecutori di Cristiani), poi ai barbari delle steppe orientali, agli Arabi conquistatori della Terrasanta, fino al Saladino (ed oltre). Ripresi dagli storici posteriori, questi cupi ritratti hanno alimentato leggende nere che solo la nascita, nel secolo scorso, di una scienza storica basata sul confronto oggettivo di documenti e fonti diverse ha contribuito a sfatare. «Forse Saladino non aveva molto a che fare con la tolleranza come l’intendiamo oggi» conclude Cardini. «Ma personaggi come lui finiscono per essere più importanti per quel che significano per i posteri che per quello che sono davvero stati».

(settembre 2018)

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