Invasioni Avaro-Slave
Una storia medievale dagli effetti permanenti

L’Italia è terra di conquista: mancava parecchio tempo alla fine dell’Impero Romano, fissata convenzionalmente nell’anno 476 dell’Era Volgare con la caduta di Romolo Augustolo, quando i primi barbari si avventarono sul bel Paese facendone spesso e volentieri terra bruciata. Analogamente, mancavano pochi decenni all’inizio del terzo millennio quando gli eserciti anglo-americani e i loro alleati risalirono la Penisola durante una nuova e lunga guerra caratterizzata da ogni sorta di efferatezze, come le fucilazioni dei prigionieri italiani in Sicilia o gli stupri di massa consumati impunemente, non soltanto dai Marocchini. Si tratta di una probante conferma della teoria dei corsi e ricorsi storici, proposta da Giambattista Vico.

In mezzo a questi estremi, la storia evidenzia un lungo elenco delle invasioni, idoneo a motivare anche a posteriori l’invettiva di Dante nei confronti di una terra che non era più «donna di province ma bordello» per non dire di quella di Francesco Petrarca quando dichiarava sconsolatamente come fosse inutile parlare delle «piaghe mortali» diffuse nel «bel corpo» dell’Italia, o della triste rassegnazione di Giacomo Leopardi. Si potrà eccepire che la conformazione geografica del Paese ha largamente favorito le invasioni, alla stregua di quanto è facile ravvisare sia nella storia antica sia in quella contemporanea, ma non si potrà negare che i Lanzichenecchi di turno abbiano avuto il vantaggio talvolta decisivo di vedersi aprire le porte da Italiani sempre pronti a soccorrere il vincitore mettendosi a pieno servizio del nuovo padrone, all’insegna di un celebre aforisma dei tempi andati: «Francia o Spagna, purché se magna».

Nella grande maggioranza dei casi, le invasioni sono state simili alle tempeste tropicali che provocano gravissime distruzioni ma transitano rapidamente, rendendo possibili le opere di ripristino, peraltro assimilabili alle fatiche di Sisifo in quanto destinate a nuovi disastri, in seguito a successive scorrerie. Nondimeno, anche questa regola ha avuto le sue eccezioni: tra le più importanti, se non altro per gli effetti indotti anche a lungo termine, si deve menzionare quella degli Avaro-Slavi che ebbe luogo fra il quinto e il sesto secolo dell’epoca cristiana[1]. Infatti, sebbene queste popolazioni di origine asiatica[2] non fossero stanziali, finirono per trovare una sorta di terra promessa nelle regioni dell’Alto Adriatico, tanto da farne oggetto di una modificazione delle loro strategie che sarebbe stata rivoluzionaria. Costoro, da veri barbari, non avevano leggi e non conoscevano nemmeno la scrittura, ma dopo essersi abbandonati a ogni sorta di nequizie, tanto da lasciare dietro di sé un autentico deserto, come da pertinente definizione della storiografia regionale, fecero propria – sia pure inconsapevolmente – l’affermazione latina ripresa da Gabriele d’Annunzio nel 1919, a margine dell’Impresa di Ronchi dei Legionari: «Hic manebimus optime».

Secondo valutazioni storiografiche piuttosto condivise sebbene non unanimi, gli Avari mutuarono la propria denominazione dal fatto di essere un popolo «migrante» e quindi con una vocazione iniziale al nomadismo, pur senza disdegnare l’erezione di nuclei permanenti fortificati, anche allo scopo di difendere le vie di comunicazione. Non ebbero mai una struttura centralizzata: tuttavia, tale sistema di tipo «fluido» avrebbe consentito di mantenere una loro presenza sia pure discontinua nella vastissima area geografica compresa fra gli Urali e la Corea, fino a quando i nuclei più propensi alla ricerca di nuove opportunità per le comuni strategie di mobilità si spinsero ai limiti del vecchio Impero Romano, o di quanto ne sopravviveva nelle consolidate strutture statuali bizantine, e nelle nuove entità organizzative sorte dopo la catarsi occidentale del 476.

Diversamente da quanto era accaduto per Goti, Vandali, Unni, Eruli e via dicendo, i nuovi arrivati seppero organizzarsi opportunamente, anche per quanto riguarda una convivenza forzosa con le popolazioni autoctone che nell’anno 638, a circa mezzo secolo dalla prima comparsa avaro-slava in Dalmazia, si tradusse in un patto promosso dall’Imperatore d’Oriente, Eraclio, con cui si accettavano le leggi già in vigore, si garantivano le proprietà e si tutelavano le prerogative appartenenti ai vecchi aggregati latini.

Nel breve termine quella collaborazione ebbe una conferma probante nel fatto che quattro anni più tardi gli Slavi furono coinvolti nelle vaste operazioni militari condotte contro i Longobardi sulla sponda occidentale dell’Adriatico, per iniziativa dei Bizantini, verosimilmente su navi dalmate. Nella medesima ottica, fu possibile consolidare i rapporti con l’Esarcato di Ravenna e promuovere, con varie onoranze per i martiri della fede, la diffusione di un impegno volto a compassione e rispetto, come accadde per iniziativa del «santissimo e fedelissimo Abate Martino»[3]. Nondimeno, quelle intese non avrebbero avuto vita lunga perché i nuovi abitanti diedero luogo a svariate e ripetute forme di prevaricazione e di violenza, come sarebbe stato riconosciuto dal nuovo potere imperiale carolingio quasi due secoli dopo, anche sul piano giuridico formale, con il celebre «Placito» di Risano.

Nei lunghi secoli successivi, contraddistinti dalla presenza veneta, i fattori mercantili diventarono spesso prevalenti, e prima ancora furono tali le esigenze di una comune difesa contro la nuova barbarie ottomana, ben dimostrata dai ripetuti «sacchi» delle città costiere come quelli particolarmente efferati di Vieste o di Otranto che fecero impallidire le tristi gesta degli antichi predecessori.

Quando la Serenissima Repubblica di Venezia si vide costretta a riempire i vuoti causati dalle tante pandemie di peste dando la preferenza all’elemento slavo, ciò fu dovuto alla capacità di sviluppo demografico manifestata dai nuovi immigrati in termini certamente maggiori rispetto a quelli delle popolazioni autoctone, piuttosto che alla loro migliore idoneità a essere governati senza soverchi problemi. In definitiva, il fatto nuovo decisivo rimase l’invasione medievale che avrebbe cambiato in termini sostanzialmente irreversibili i vecchi equilibri, e che nelle successive esperienze sarebbe stata gestita col necessario realismo ma nello stesso tempo salvaguardando i valori culturali della tradizione latina, fino alla nuova svolta storica dell’Ottocento.

Un secondo fatto nuovo fondamentale sarebbe avvenuto nella seconda metà di quest’ultimo secolo: il Governo Asburgico – già subentrato a Venezia per trista volontà napoleonica – dopo avere perduto il Veneto con la Terza Guerra d’Indipendenza Italiana diede crescenti e spesso smaccate preferenze al mondo slavo, dove i conati nazionali avevano cominciato a diffondersi, sia pure in modo tardivo rispetto a quanto accaduto in Italia o in Grecia, per scatenarsi palesemente agli inizi del Novecento. Non a caso, negli anni antecedenti la Grande Guerra i giornali sloveni di Trieste invitavano gli Italiani a recitare il «confiteor» perché destinati a essere travolti dal nuovo vento dell’Est.

Il resto è storia recente. Dopo la vittoria dell’irredentismo grazie al Primo Conflitto Mondiale, quando il sole di Vittorio Veneto parve aprire una nuova aurora sull’avvenire dell’Italia finalmente uscita dalla «gran tempesta» di dantesca memoria, la seconda deflagrazione è stata foriera di un’altra svolta storica, a favore della Jugoslavia assurta al rango di Stato già dagli anni Venti e non certo aliena, sin dal suo esordio, dal perseguire programmi sciovinisti se non anche terroristi. La perdita di tutta la Dalmazia e di gran parte della Venezia Giulia con l’iniquo trattato di pace del 1947 era assolutamente imprevedibile dopo la vittoria nella «Quarta Guerra d’Indipendenza» di cui alla pertinente definizione di Gilles Pècout[4]. Quindi, è stata un evento davvero traumatico, sia pure in una storia di ampio subordine a interessi estranei come quella italiana; tuttavia, è fondato ravvisare alcune sue matrici di permanente rilevanza nei fatti accaduti quindici secoli or sono con l’inizio delle invasioni avaro-slave[5] quasi a confermare la continuità di cause e di effetti, e la complessità dei nessi conseguenti, in una serie di vicissitudini certamente articolate e drammatiche.

Al riguardo, una serie di conseguenze molto importanti sul piano etico-politico ha continuato a manifestarsi anche dopo il 1947. Fra le maggiori, basti citare l’iniquo trattato di Osimo del 1975, con cui l’Italia ha rinunciato alla propria sovranità sulla Zona «B» del cosiddetto Territorio Libero di Trieste; ovvero, l’accoglienza alle nuove Repubbliche indipendenti di Slovenia e Croazia in seno all’Unione Europea senza contropartite di sorta, avallata incondizionatamente anche da parte italiana. Che dire, infine, dei fatti non meno opinabili del 2020, quando è stato ceduto il vecchio «Balkan» alla comunità slovena di Trieste quale «risarcimento» dell’incendio scoppiato un secolo prima? Eppure, nulla si doveva: intanto, per l’assenza di responsabilità proprie, e poi perché un primo indennizzo di analogo valore era comunque avvenuto con le intese «ad hoc» degli anni Cinquanta. Invece, si è fatto ancora di più, aggiungendo l’omaggio ai terroristi sloveni che erano stati condannati nel 1930 a seguito di un processo tenuto alla presenza di molti osservatori internazionali che ne avevano ammesso la regolarità, affermando che le pene comminate in tale occasione non sarebbero state diverse nel caso di analoghi giudizi davanti a corti di altri Stati Occidentali.

I caduti italiani di ogni tempo e di tante stagioni oscure della storia giuliana, istriana e dalmata sono stati sostanzialmente ignorati in questa lunga vicenda, peraltro meramente esemplificativa, perché la loro ricorrenza costituisce un «leit-motiv» reperibile in svariate epoche. D’altra parte, in una valutazione per quanto possibile oggettiva, non è cosa buona e giusta dimenticare quanti persero la vita anche nei «secoli bui» dell’Alto Medioevo a causa della legge ferina del più forte, espressa dagli uni o dagli altri barbari nel volgere a proprio esclusivo favore il disastro di Roma e la scarsa capacità di resistenza offerta dai popoli superstiti; in ogni caso, sebbene l’affermazione possa sembrare paradossale, il loro sacrificio non fu vano, perché accanto al successo dei tradizionali principi di fede e di cooperazione, avrebbe proposto un forte esempio di alta coerenza morale e avrebbe consentito una civilizzazione dei nuovi immigrati certamente difficile ma idonea a promuovere i valori della cultura e della civiltà.


Note

1 La provenienza e i tempi di trasferimento restano incerti ma le fonti attestano come intorno alla metà del quarto secolo gli Avari avessero già raggiunto le pianure fra il Mar Caspio e il Mar Nero, fino alle pendici del Caucaso, da dove mossero per un ulteriore balzo verso Occidente nel secolo successivo. Non a caso, nel 538 una loro ambasceria raggiunse Costantinopoli per essere ricevuta da Giustiniano, il quale avrebbe acconsentito al loro passaggio oltre il Bosforo con destinazione ultima in Pannonia: di qui, il nuovo balzo che alcuni decenni dopo li avrebbe condotti oltre il Danubio (582) minacciando direttamente la Dalmazia e la costa adriatica.

2 La bibliografia sull’argomento, anche per quanto riguarda le disponibilità di testi in lingua italiana, è relativamente limitata. Al riguardo è tuttora fondamentale il contributo di Giuseppe Praga, Storia di Dalmazia, Dall’Oglio, Varese 1981, 392 pagine (ampliamento di una prima edizione uscita a Zara nel 1941, e completamente distrutta dai bombardamenti del capoluogo dalmata durante il Secondo Conflitto Mondiale). Per i primi tempi della penetrazione avaro-slava, riferimenti utili sono presenti in Carlo Cipolla, Storia economica dell’Europa pre-industriale, Il Mulino, Bologna 2009. Altri apporti di buon rilievo sono reperibili in Sima Cirkovic, Storia d’Europa. Gli Slavi Occidentali e Meridionali e l’area balcanica, Einaudi, Torino 1994, nonché in Georg Ostrogorski, Storia dell’Impero Bizantino, Einaudi, Torino 1996. Informazioni interessanti, anche circa la datazione delle migrazioni, sono reperibili in Egidio Ivetic, Storia dell’Adriatico: un mare e la sua civiltà, Il Mulino, Bologna 2019, e in Autori Vari, Storia della Jugoslavia: gli Slavi del Sud dalle origini a oggi, a cura di Stephen Clissold, Einaudi, Torino 1969. Qualche dettaglio sull’ostilità avaro-slava nei confronti delle popolazioni autoctone si trova anche nella grande opera di Dario Alberi, Dalmazia: storia, arte, cultura, Lint, Trieste 2008.

3 Giuseppe Praga, Storia di Dalmazia, Dall’Oglio, Varese 1981. Giova aggiungere che nel periodo in questione sedeva sul soglio pontificio il Pontefice Dalmata Giovanni IV, nativo di Salona, che ebbe un ruolo notevole nella tutela dei valori cristiani in un’ottica di solidarietà, e per quanto possibile, di collaborazione.

4 Confronta Gilles Pécout, Il lungo Risorgimento: la nascita dell’Italia contemporanea (1770-1922), Bruno Mondadori, Milano 2011 (con esaustiva nota bibliografica). Per il noto storico francese (ma non solo) le dimensioni dell’esperienza risorgimentale spaziano fino alla Grande Guerra e muovono dai primi albori del Settecento.

5 Il fenomeno fu «di carattere essenzialmente distruttivo» (Giuseppe Praga, Storia di Dalmazia, Dall’Oglio, Varese 1981, pagina 47). Eppure, nonostante il dominio vessatorio dei vincitori, venne a crearsi una pur faticosa osmosi tra la cultura latina e la barbarie asiatica dando luogo a una «generazione nuova che tiene degli uni e degli altri». Accade in ogni conquista, che nel caso di specie diede luogo a una sorta di commistione etnica sostanzialmente imposta, confermando il carattere irreversibile della «mutazione» intervenuta con le invasioni, anche se il momento culturale ebbe il sopravvento, unitamente alle capacità organizzative e allo spirito reattivo di taluni autoctoni, nonostante le distruzioni subite da Salona, Epidauro, Scardona, e da un’altra dozzina di aggregati urbani. Nel periodo lungo il processo di relativa assimilazione avrebbe fatto altri decisivi passi avanti, in specie attraverso le conversioni degli immigrati alla fede cattolica, diventate plebiscitarie soprattutto in Dalmazia con la grande opera missionaria e la predicazione dei Santi Cirillo e Metodio.

(ottobre 2020)

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