Dante Alighieri
La vita e le opere di un genio sfortunato

È il 1289; da tempo, ormai, la città ghibellina di Arezzo disturba il commercio di Firenze, impedendo il transito dei suoi prodotti verso Roma. Ora i Fiorentini, perduta la pazienza (di cui probabilmente non hanno mai abbondato), dichiarano guerra alla città rivale.

L’11 giugno l’esercito fiorentino si schiera dinanzi a Campaldino, a pochi chilometri da Arezzo. Tra i volontari a cavallo, che i Fiorentini hanno schierato in prima linea, v’è un giovane di ventiquattro anni, un uomo di studi, buon poeta (autore del Fiore e del Detto d’amore), che vuole dimostrare di essere disposto a sacrificare anche la vita per la grandezza di Firenze. Gli Aretini vengono sconfitti e Firenze può riprendere i suoi grandi commerci. Il giovane poeta in battaglia dà buona prova di sé, e nell’agosto dello stesso anno milita nell’esercito fiorentino che toglie ai Pisani la fortezza di Caprona. Il suo nome è destinato a passare indenne tra il tumultuoso vorticare dei secoli: Durante Alighieri, più noto come Dante!

Dante nasce a Firenze nel 1265 da Alighiero di Bellincione di Alighiero e donna Bella, in una casa bassa e poco appariscente di mattoni bruni, ed è battezzato nel battistero di San Giovanni. La sua famiglia non è ricca; un tempo è stata nobile (il suo trisavolo Cacciaguida, fatto cavaliere da Corrado III, ha partecipato alla Seconda Crociata in Terrasanta ed è morto combattendo per la Fede), ma adesso è decaduta. È ancora un ragazzo di pochi anni, quando rimane orfano di madre. Suo padre si risposerà e avrà altri figli, coi quali Dante avrà un buon rapporto; ma, nonostante questo, la sua infanzia non trascorrerà serena, sarà anzi malinconica. Il miglior ritratto di lui è quello che ci ha lasciato Giovanni Boccaccio: «Fu questo nostro poeta di mediocre statura; il suo volto fu lungo, il naso aquilino, gli occhi grandi; e sempre nella faccia malinconico e pensoso».

Dante Alighieri

Raffaello Sanzio, Disputa del Sacramento (dettaglio), tra il 1510 e il 1511, Stanza della Segnatura, Palazzi Pontifici (Città del Vaticano)

La Firenze in cui Dante nasce e trascorre la giovinezza non è la città ricca di monumenti che tutto il mondo ci invidia. È una città, però, piena di vita, dove povertà e ricchezza si mescolano assieme: strade tortuose, vie percorse da processioni, cortei variopinti dei nobili, una torma di poveri, giovani sfaccendati. Firenze è il centro commerciale e industriale più importante d’Italia, e la sua maggiore fonte di ricchezza è rappresentata soprattutto dall’industria serica e da quella laniera. Il governo del Comune è in mano a pochi nobili, ma dal 1250 quella parte del popolo che è rappresentata da ricchi mercanti, grossi artigiani e banchieri si pone contro la nobiltà, reclamando anche per sé il diritto di partecipare alla vita pubblica. Per essere compatti nella lotta contro i nobili, quei cittadini si riuniscono in Associazioni chiamate «Arti» e a capo di ciascuna di esse nominano un «Priore». Nel 1282 riescono nel loro intento: anche i Priori delle Arti sono ammessi a far parte del governo. Undici anni dopo, ottengono una piena vittoria: riescono ad escludere i nobili da tutte le cariche pubbliche. Ma i nobili, i piccoli artigiani e il popolino fanno lega tra loro per cacciare dal governo i ricchi cittadini. Da quel momento i Fiorentini si dividono in due gruppi: vengono chiamati Bianchi quelli che si schierano dalla parte dei cittadini saliti al potere, sono detti Neri quelli che invece parteggiano per i nobili e per quella parte del popolo che si vede esclusa dal governo; due famiglie potenti, i Cerchi e i Donati, hanno preso posizione nei due campi avversi e i loro nomi sono divenuti pur essi sinonimo di Bianchi e di Neri. Tra i cittadini dei due gruppi nasce un odio spietato e accade spesso che arrivino a liti e a zuffe per le vie della città; spesso, queste contese finiscono con un assassinio. Le vendette tra famiglia e famiglia si trascinano per anni, per generazioni.

Dante si presenta a scuola come un ragazzo vispo e intelligente, avido di sapere. Non ci sono libri, perché il loro costo, prima dell’invenzione della stampa, sarebbe proibitivo: bisogna stare attenti a quello che spiega il maestro. Non ci sono nemmeno quaderni: si scrive su carta di tela, perché la pergamena è costosa e il suo uso è riservato agli scritti importanti. Gli insegnanti sono molto severi, e non lesinano le bacchettate. Le materie di studio sono grammatica, matematica e musica (considerata un modo per spiegare l’armonia dell’Universo). Oltre a queste, l’esercizio delle armi e le cacce formano l’occupazione della sua giovinezza. È amatissimo della lettura, e si assorbe talmente nei libri, che gli avviene talvolta di non udire né veder nulla di quanto accade intorno a lui. Un aneddoto narra che un giorno, trovandosi nella bottega di uno speziale in Siena, gli viene portato un libretto ch’egli ha desiderato con ardore: subito lo apre sul banco e si mette a sfogliarlo; è giorno di festa, e poco dopo comincia in quella via una grande armeggiata e balli e giochi d’ogni sorta fra il clamore della gente… ma Dante, tutto assorto nella lettura, non si accorge di nulla e non si leva di là finché non ha letto il libro per intero.

Dopo la scuola, Dante – che ha trascorso un periodo di studi a Bologna – decide di dedicarsi alla vita politica. Per poterlo fare (dato che il popolo di Firenze è diviso in tante corporazioni secondo le arti e i mestieri che ciascuno professa e che gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella riservano il governo del Comune solo ai cittadini iscritti ad una delle corporazioni d’arti e mestieri), Dante si iscrive all’arte dei medici e degli speziali. Il 14 dicembre del 1295 è tra i «Savi», cioè nel gruppo di quei cittadini che devono eleggere i Priori. Sei mesi dopo fa già parte del «Consiglio dei Cento», ossia di quell’assemblea che deve decidere sulle spese e sugli affari più importanti del Comune. I Fiorentini, che apprezzano la sua intelligenza e soprattutto la sua grande onestà, gli affidano ben presto la più alta carica del Comune: il 15 giugno del 1300, Dante Alighieri è nominato Priore. Ma proprio l’anno in cui Dante ha in mano il governo del Comune, più sanguinosi si fanno gli scontri tra i Bianchi e i Neri, tanto che Firenze rischia di trasformarsi in un campo di battaglia. Dante è dei Bianchi, ma rifiuta di avvantaggiare la sua parte e cacciare gli avversari. Decide, per favorire la pace, di mandare in esilio i capi dei due partiti (compreso il suo amico Guido Cavalcanti, con cui ha partecipato al movimento del Dolce Stil Nuovo).

La risoluzione non sortisce l’effetto sperato: i Neri, pur di sconfiggere gli avversari, si appellano a Papa Bonifacio VIII. Questi manda in Firenze uno straniero, Carlo di Valois, fratello di Filippo il Bello, Re di Francia, in qualità di paciere.

All’annuncio della sua venuta, i Bianchi inviano a Roma Dante ed altri due ambasciatori per chiedere al Papa di mettere accordo tra i Fiorentini. Ma nel frattempo Carlo di Valois entra in Firenze e lascia che i capi dei Neri diano inizio ad una serie di violenze contro i Bianchi; la casa di Dante è la prima ad essere saccheggiata. Durante il viaggio di ritorno, il poeta ha notizia della sentenza pronunciata contro di lui: l’integerrimo magistrato, il cittadino pieno d’amore per la sua patria viene condannato a una multa di cinquemila fiorini, all’esilio per due anni, all’esclusione perpetua dai pubblici uffici, con l’accusa di essersi procurato illeciti guadagni e di aver turbato la pace della città.

E poiché Dante non vuole pagare l’ingiusta multa, il 10 marzo 1302 è condannato all’esilio perpetuo e «ad essere morto di fuoco, se mai venisse in forza del Comune». Abbandona la famiglia, la moglie Gemma Donati (sposata nel 1269) e i tre figli che ha avuto da lei, e comincia a vagabondare per l’Italia ospite ora di una corte, ora di un’altra, provando «sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ’l salir per l’altrui scale». Ma in cuore, adesso, gli rimarrà sempre il desiderio della sua patria, delle vie di Firenze, delle persone che ama; nutre la speranza che un giorno i Fiorentini, riconoscendo di averlo accusato a torto, gli permettano di ritornare in città. Sarà un vagabondare lungo, colmo di un’inconsolabile tristezza.

Nel settembre del 1310, l’Imperatore Arrigo VII di Lussemburgo decide di venire in Italia per riconciliare i partiti e porre tutte le città sotto la sua autorità. Dante, che riconosce nell’Imperatore la somma autorità temporale, come nel Pontefice la suprema autorità spirituale, e giudica i due poteri emanati entrambi direttamente da Dio, spera che Arrigo VII ridia ordine all’Italia, «nave senza nocchiero in gran tempesta». In questa occasione, pieno di fiducia e di entusiasmo, indirizza un’epistola latina ai Comuni ed ai signori d’Italia, esortandoli ad accogliere colui che viene mandato da Dio come redentore dell’Italia… ma i signori guelfi e i Comuni (quello di Firenze innanzi a tutti) si oppongono all’Imperatore, provocando l’indignazione del poeta che rivolge in un’epistola parole roventi agli «scellerati fiorentini» e, in un’altra, infiammate esortazioni all’Imperatore perché punisca la città ostinata e ribelle. Arrigo VII non riesce nella sua opera di pacificazione né può condurre a termine l’impresa ideata, perché la morte lo coglie nel 1313, a Buonconvento presso Siena.

Tre anni dopo, l’animo di Dante si apre nuovamente alla speranza: si diffonde la voce che il Podestà di Firenze voglia concedere un’amnistia generale. Ma, quando viene a sapere che per rientrare in patria gli esuli devono pagare una multa e presentarsi, come s’usa dai delinquenti comuni, al Santo Patrono della città nella chiesa di San Giovanni, scrive fieramente ad un amico: «È questa, dunque, la gloriosa maniera con cui Dante è richiamato in patria dopo le sofferenze di un esilio quasi trilustre? Lungi sia da un uomo che proclama la giustizia ch’egli paghi il suo denaro come a benefattore a coloro che gli fecero ingiuria… Non è questa la via di tornare in patria; ma se voi ne troverete un’altra che non sia indegna della fama e dell’onore di Dante, per quella prontamente mi avvierò. Se poi non è dato entrar in Firenze per una via siffatta, ebbene, io in Firenze non rientrerò. E che? Non potrò io veder dappertutto lo splendore del sole e degli astri? Non potrò dappertutto meditare le dolcissime verità, se prima non mi renda inglorioso, anzi infame agli occhi del popolo e della città di Firenze…?». Qui appare veramente tutto l’alto e nobile orgoglio del poeta e del giusto!

Nelle sue peregrinazioni, Dante trova cortese ospitalità presso diversi signori, quali gli Scaligeri di Verona e i Malaspina della Lunigiana. Nel 1319 è a Ravenna, insieme ai figli, presso Guido Novello da Polenta. Va’ in cerca di pace; questa città sembra fatta apposta per un’anima stanca come la sua, che avverte la morte imminente. È qui che Dante porta a compimento quello che sarà il suo capolavoro, la Commedia, la cui composizione è iniziata quand’era ospite a Verona di Cangrande della Scala. S’illude ancora: crede che ora i Fiorentini lo vorranno in patria per incoronarlo poeta sulle rive dell’Arno. Non accade. Durante un viaggio a Venezia, si ammala. Fa appena in tempo a ritornare a Ravenna che si aggrava e muore. È la notte fra il 13 e il 14 settembre del 1321.

Dante viene seppellito in un umile sepolcro, nella chiesa dei Francescani a Ravenna. In seguito, nel 1483, Bernardo Bembo, un illustre letterato e pretore della Repubblica Veneta (alla quale Ravenna è soggetta), gli fa erigere uno splendido monumento, che ancora oggi si può ammirare. I Fiorentini tentano più volte di avere le ossa del loro grande cittadino, ma i Ravennati si oppongono sempre.

Nel 1829 gli viene eretto un sepolcro nella chiesa di Santa Croce a Firenze, dove riposano alcuni tra i più grandi geni italiani: ma il sepolcro fiorentino di Dante è destinato a rimanere vuoto. Il suo sepolcro a Ravenna, invece, che ancora ne conserva il corpo, è sempre méta di commossi pellegrinaggi.


Le opere di dottrina

Quando muore, Dante non ha che cinquantasei anni. Ma la sua vita è stata incredibilmente fitta di eventi: fatti d’arme, partecipazione al governo, ambascerie, condanne, esilio; ha partecipato attivamente alla vita pubblica della sua città. Egli, però, è riuscito ad essere allo stesso tempo due cose diversissime: uomo d’azione e letterato. Ha avuto una vita passata in gran parte in esilio, in povertà, con pochi amici; una vita malinconica. Ma la sua anima non si accascia mai sotto il peso della sventura: si consola delle amarezze dell’esilio con la meditazione e con profondi e vastissimi studi. Frutto di tale meditazione e di tali studi sono alcune opere di severa dottrina. Vengono chiamate «minori» per il paragone con la Commedia, ma fanno di Dante il maggior intellettuale del suo tempo ed uno dei più grandi geni dell’umanità.

Tra le più importanti, innanzitutto, il Convivio, composto tra il 1304 e il 1307, un trattato filosofico che, nelle intenzioni di Dante, doveva divenire un’enciclopedia in quindici volumi comprendente tutto lo scibile: doveva trattare problemi di fisica, filosofia, politica, astronomia e via dicendo, tutto quel sapere che egli aveva acquisito in lunghi anni di studio e di meditazione. Il titolo, simbolico, deriva dal latino «convivium» («banchetto») per significare che, con la sua opera, Dante intende imbandire uno spirituale banchetto di scienza dedicato a coloro che siano desiderosi di sapere e che vogliano dedicarsi all’attività pubblica e civile senza aver compiuto gli studi superiori. E perché tutti possano accedere a tale banchetto, egli vuole scrivere la sua opera nella lingua italiana parlata dal popolo (allora le persone colte scrivevano in latino). Dei quindici libri progettati, Dante ne scrive però solo quattro: le preoccupazioni derivate dalla sua condizione di esiliato politico lo distolgono in quegli anni dagli studi. Sebbene incompiuta, l’opera ci mostra però con chiarezza quanto siano state ampie e profonde le conoscenze di Dante in ogni campo del sapere.

Nel De Vulgari Eloquentia, composto intorno al 1305, Dante ammette il grande valore del siciliano illustre, la prima lingua letteraria assunta a dignità nazionale. Il trattato è stato significativamente e provocatoriamente scritto in latino: questo perché deve richiamare l’attenzione degli uomini dotti, e Dante sa bene che questi prendono in considerazione soltanto opere scritte in latino. Egli, con valide ragioni, dimostra che la lingua volgare è ormai degna di essere usata come lingua letteraria, e propone agli intellettuali di abbandonare definitivamente la lingua latina per utilizzare quella volgare. L’opera contiene numerose osservazioni linguistiche preziose anche per gli studiosi moderni; tutte le migliori opere di Dante sono redatte in lingua volgare, che il Poeta porta a tale perfezione da meritarsi il titolo di «padre della lingua italiana».

Il De Monarchia, composto tra il 1312 e il 1313, è un trattato nel quale Dante esprime il suo ideale politico; viene scritto in latino, perché è destinato ad essere letto dalle persone colte. Dante svolge le sue idee intorno al problema della monarchia universale, che per lui è l’Impero: afferma la necessità dell’Impero come unica forma di governo capace di garantire unità, pace e giustizia ai popoli; l’Impero non può mai divenire un tiranno, perché, «tutto possedendo», grazie alla sua massima carica, «nulla può desiderare». Inoltre, Dante riconosce la legittimità del diritto dell’Impero da parte dei Romani: solo a Roma spetta il diritto di essere la sede dell’Impero e quindi dell’Imperatore; dimostra che l’autorità del Monarca è una volontà divina, dipende da Dio, quindi non è soggetta all’autorità del Pontefice (teoria dei «due soli»: l’Imperatore si occupa dei corpi dei suoi sudditi, il Papa delle loro anime, ognuno dotato di autorità assoluta nel proprio ambito).


La Vita Nova

Ma la prima grande opera di Dante non è un trattato, bensì un libretto (egli lo ha chiamato «libello») scritto in lingua italiana tra il 1293 e il 1294, nel quale raccoglie sonetti e canzoni uniti da brani esplicativi in prosa: la Vita Nova. È un’opera giovanile, ma non la prima opera poetica: Dante ha già composto parecchie poesie in lingua italiana.

Il titolo vuol far intendere che Dante ha iniziato una nuova vita – una vita migliore, ispirata al ricordo di Bice, figlia di Folco Portinari, che Dante ha veduto la prima volta nel 1274, quando lui aveva nove anni ed ella poco più di otto, ed ha rivisto nove anni dopo, sentendosi ardere d’amore per le sue doti spirituali. Per celare ai profani il suo amore e dissipare ogni sospetto (Bice è sposata a Simone de’ Bardi), Dante finge di interessarsi ad altre donne, suscitando mormorazioni che, giunte all’orecchio di Bice, la spingono a negargli il saluto. Nella tristezza che invade allora il cuore del poeta, il suo amore si fa più puro e più alto: se prima Dante non ha avuto altro desiderio che il saluto di Bice, ora egli cerca la sua felicità nel dire le lodi dell’amata e nell’adorarla umilmente, come creatura celeste. Ma un giorno il poeta ode in sogno un doloroso annuncio («Non sai novella? / Morta è la donna tua ch’era sì bella») e la scorge dolcemente composta nell’eterna quiete; il presagio si avvererà l’8 giugno 1290, quand’ella morirà di parto.

Dante incontra Beatrice

Henry Holiday, Dante incontra Beatrice al Ponte Santa Trinità, 1883, Walker Art Gallery, Liverpool (Gran Bretagna)

Da quel momento Bice, ritenuta dal poeta un modello di perfezione, diverrà l’ispiratrice di tutta l’opera poetica dantesca. L’amore per Bice ha ispirato a Dante alcune tra le sue migliori poesie, come un sonetto al capitolo XXVI:

«Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ’ntender no la può chi no la prova:
e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira».

Questo sonetto è considerato, per la sua musicalità e la sua purezza, uno dei più belli di tutta la lirica italiana.


La Commedia

Tutte le sofferenze, i sogni, le speranze di quest’anima grande sono stati riversati nella sua poesia eterna: nella Commedia, innanzitutto e soprattutto – è considerato il più grande poema di tutti i tempi, un’opera che Giovanni Boccaccio apprezzò a tal punto da definirla «divina»; due secoli dopo la morte di Dante, in un’edizione stampata a Venezia, l’aggettivo appare per la prima volta nel titolo, e da allora l’opera s’intitola, appunto, Divina Commedia. Basterebbe questo solo poema, nutrito di tutto il sapere del tempo, per nobilitare non solo un uomo, ma un’intera epoca letteraria ed un’intera Nazione. Per questo si dice che Dante non è «un» poeta, ma «il» Poeta, per eccellenza. Nell’opera Dante è presente per intero, con le sue convinzioni religiose e politiche, i suoi amori e i suoi odi, col suo carattere appassionato, sdegnoso, facile all’ira ed alla pietà, col suo animo assetato di giustizia e di verità, di bontà e di bellezza.

Offrirne un’introduzione esaustiva è un lavoro arduo, che occuperebbe troppe pagine; ne parleremo quindi per cenni essenziali, con la speranza che il lettore senta nascere in sé il desiderio di immergersi nella lettura del poema (una lettura attenta e completa, non limitata a quei pochi, scarni brani che si trovano nelle antologie scolastiche).

La Commedia, composta dal 1307 fino a poco prima della morte di Dante, è la descrizione di un fantastico viaggio attraverso l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. Dante stesso indica lo scopo della sua opera: «Fine del tutto e di ciascuna parte è di rimuovere gli uomini viventi in questa vita dallo stato della miseria e condurli allo stato di felicità». E per il Poeta, fervente Cristiano, lo «stato della miseria» significa la vita peccaminosa, ed essere in «stato di felicità» vuol dire trovarsi in grazia di Dio. Il viaggio narrato nel poema è la via che l’anima umana deve seguire per liberarsi dal peccato (l’Inferno) e raggiungere la grazia di Dio (il Paradiso) attraverso la penitenza (il Purgatorio).

Dante e la Commedia

Domenico di Michelino, Dante e il suo poema, 1465, Cattedrale di Santa Maria del Fiore, Firenze (Italia)

Durante il viaggio nell’oltretomba, il Poeta incontra anime nobili e misere, di Firenze e dei luoghi più remoti, Santi, peccatori, Papi, artisti, Imperatori; l’oltretomba è popolato di uomini del presente e del passato coi quali Dante si sofferma a parlare o che contempla muto. Si potrebbe paragonare il poema ad una meravigliosa cattedrale, nel marmo della quale lo scalpello di uno scultore sublime abbia ricavato centinaia e centinaia di figure, alcune complete in ogni particolare, altre appena abbozzate, figure dolenti o feroci, soavi o grottesche, ora solitarie, ora raggruppate nei più vari atteggiamenti, indimenticabili tutte; così come il Duomo di Milano reca scolpite le statue di innumerevoli personaggi del lontano e recente passato (vi è anche l’effigie di Benito Mussolini!). Percorrendo i cento canti del poema – trentatre canti per ogni cantica, più uno d’introduzione, per un totale di 14.233 versi endecasillabi raccolti in terzine –, si ha l’impressione che tutto quanto ci viene narrato sia realmente accaduto: che i luoghi orridi o deliziosi dei quali il Poeta ci parla siano veramente situati o configurati com’egli dice; che gli spiriti dei quali Dante riferisce i discorsi siano veramente giudicati da Dio come egli li giudica, parlino davvero come egli li fa parlare, soffrano, sentano, godano, maledicano, preghino così come in Dante si legge. Egli mostra in quale condizione si trova la nostra anima dopo la morte, in base a come ci siamo comportati nell’unica vita che ci è concessa in questo mondo: ci dà una descrizione delle pene e dei premi che, secondo la sua fantasia, vengono assegnati alle anime nell’oltretomba.

Dante immagina di smarrirsi, «nel mezzo del cammin di nostra vita» (quindi all’età di circa trentacinque anni, nella primavera del 1300), nella «selva oscura» del peccato; arrivato ai piedi di un colle illuminato dai primi raggi del sole, comincia a salirvi, sennonché una lonza (lince), un leone ed una lupa – simboli di lussuria, superbia ed avarizia secondo alcuni; di malizia, sfrenata bestialità e incontinenza secondo altri – lo ricacciano verso la selva «che non lasciò giammai persona viva». Finché gli appare il poeta latino Virgilio, che si offre di salvare Dante guidandolo per un’altra via, molto più lunga, molto più dolorosa all’inizio, ma più sicura: la via che, per l’Inferno e il Purgatorio, porta al Paradiso.

Dante viene accompagnato nel suo viaggio da tre personaggi.

Il primo è il già ricordato Virgilio, poeta da lui molto apprezzato, che lo guiderà dalle pene senza speranza dell’Inferno alle sofferenze dei penitenti del Purgatorio; ma non potrà andare più oltre, in quanto pagano. Virgilio simboleggia la ragione umana, la filosofia, che ci può avvicinare a Dio.

Il secondo personaggio è Bice (la cui vicenda Dante ha già narrato nella Vita Nova), che viene trasfigurata nella celestiale Beatrice, l’amore che ci avvicina a Dio: si raggiunge così il vertice della concezione della donna-angelo del Dolce Stil Nuovo, seguito, oltre che da Dante, da Guido Guinizelli, Guido Cavalcanti e Cino da Pistoia. Sarà proprio Beatrice ad andare da Virgilio scongiurandolo fra le lacrime di accorrere presso Dante in pericolo.

Ma neppure l’amore è sufficiente a permetterci la visione beatifica di Dio: al termine del suo viaggio, sarà San Bernardo, la fede, a permettere al Poeta di contemplare i supremi misteri.

La Commedia è un’opera innovativa per più d’una ragione. Innanzitutto, la lingua scelta dal Poeta, il volgare toscano arricchito con parole e modi coniati volta per volta, derivati dal latino o cólti dai vari dialetti della Penisola. Gli studiosi suoi contemporanei si vantano di scrivere e parlare ancora in latino e disprezzano la lingua parlata dal popolo; Dante invece capisce le potenzialità di una lingua che considera «viva» rispetto al latino, lingua che egli ritiene esser stata inventata dai sapienti per non farsi capire dagli ignoranti, lingua quindi «artificiale» (come ha già ribadito nel De Vulgari Eloquentia): il suo poema è destinato agli uomini di tutte le classi, anche a chi non ha studiato ma che ha l’animo aperto alla poesia ed ama sentirsi insegnare le più alte verità morali con la dolce musica del verso.

Un’altra caratteristica della Commedia è di essere un testo di tipo filosofico-teologico espresso in forma poetica, una «summa» di tutto lo scibile medievale: notizie di storia, nozioni scientifiche, mitologiche, teologiche, questioni morali, ogni cosa si trova nei cento canti del poema; un intero mondo con le sue sventure, le sue superstizioni, i suoi errori, la sua fede e le sua idealità (potremmo anche vedere le varie opere di Dante come le balze di un monte altissimo, in cima al quale sta la Commedia – opera ultima, perfetta, che tutte le precedenti ricapitola in sé, a volte perfezionandole). La ricchezza della materia radunata dal Poeta è immensa e i commentatori vi troveranno sempre nuovi motivi di studio. Al tempo di Dante, la poesia è ritenuta non solo inadatta, ma addirittura incapace di esprimere concetti elevati: convinzione che il Poeta demolirà. Nella Commedia tutto è meraviglioso per proporzione e varietà, precisione e semplicità, armonicamente si alternano voci aspre o dolci, rapide o lente, cupe o flebili; e il verso, duttile, si piega ad esprimere mirabilmente ogni fenomeno della natura, ogni sfumatura del pensiero, ogni moto dell’animo. La migliore poesia si unisce ad una speculazione filosofica e teologica di eccelso livello; basti pensare alla preghiera di San Bernardo alla Vergine Maria:

«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ’l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridïana face
di caritate, e giuso, intra ’ mortali,
se’ di speranza fontana vivace.
Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar sanz’ ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fïate
liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate.
Or questi, che da l’infima lacuna
de l’universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una,
supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
più alto verso l’ultima salute.
E io, che mai per mio veder non arsi
più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi
ti porgo, e priego che non sieno scarsi,
perché tu ogne nube li disleghi
di sua mortalità co’ prieghi tuoi,
sì che ’l sommo piacer li si dispieghi.
Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
dopo tanto veder, li affetti suoi.
Vinca tua guardia i movimenti umani:
vedi Beatrice con quanti beati
per li miei prieghi ti chiudon le mani!» (Paradiso, canto XXXIII, 1-39).

O, ancora, la chiusura del poema, quando Dante – nel momento stesso in cui penetra i sacri misteri e gode della visione beatifica di Dio – si ritrova impossibilitato a descrivere ciò che ha sentito con le parole:

«Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’ elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Paradiso, canto XXXIII, 133-145).

Una caratteristica che Dante riversa in pieno nella Commedia è il suo altissimo senso della giustizia, lui ch’è stato ingiustamente esiliato. La giustizia, per Dante, è una sola ed è quella divina, che alla fine trionferà; la giustizia degli uomini, se questi non vogliono essere ottusi, deve conformarsi integralmente a quella divina, da questa discendere e da questa trarre i suoi criteri valutativi:

«La prima volontà, ch’è da sé buona,
da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse.
Cotanto è giusto quanto a lei consuona:
nullo creato bene a sé la tira,
ma essa, radïando, lui cagiona» (Paradiso, canto XIX, 86-90).

Un concetto identico è anche espresso nel De Monarchia (libro II, 11, 5): «e ne consegue che tra gli uomini il diritto [la giustizia] non è altro che l’immagine della volontà divina: di qui si deduce che qualsiasi cosa non si conforma alla volontà di Dio non può essere diritto [giustizia], e qualsiasi operazione si conforma alla volontà divina è diritto [giustizia]».

Nell’Inferno Dante incontra molte persone sventurate che lo muovono a compassione e pietà, ma che egli condanna perché hanno anteposto se stesse e le loro passioni alla giustizia: per esempio, Paolo e Francesca da Rimini, gli amanti uccisi dal marito di lei (che per questo avrà una pena maggiore di quella a cui loro sono condannati), oppure Virgilio, la cui «colpa» è unicamente quella di non aver conosciuto Gesù. La giustizia è per lui superiore a tutto, anche all’amicizia: per questo all’Inferno troviamo Brunetto Latini, il suo maestro di retorica, condannato per via della sua – presunta – omosessualità (ci si potrebbe risentire, mettere all’Inferno l’uomo che coi suoi insegnamenti ti ha permesso di scrivere il poema: ma quelli che antepongono l’amicizia alla giustizia sono precisamente i mafiosi!). Eccezione notevole è quella dell’antico, severo Catone romano, pagano e per di più suicida, che Dante pone a custodia del Purgatorio: per il Poeta, Catone simboleggia l’anelito alla suprema libertà (una libertà che arriva anche alla rinuncia alla vita).

Alla struttura della Commedia si è ispirato don Angelo Mutti per il suo poema L’Avvenimento (L’Autore Libri Firenze, 1998), un viaggio attraverso il passato, il presente ed il futuro della storia umana, dal Nulla prima del Big Bang alla parusia-ritorno di Cristo, da quando il tempo non c’era ancora a quando il tempo cesserà di essere. Un altro capolavoro, non inferiore alla Commedia, composto da colui che è stato definito «il Dante Alighieri del XX secolo». Mai definizione fu più azzeccata!

(aprile 2013)

Tag: Simone Valtorta, Dante, Dante Alighieri, guelfi, ghibellini, Bianchi, Neri, Cerchi, Donati, Dolce Stil Nuovo, Medioevo, Firenze, poeta, poesia, Convivio, De Vulgari Eloquentia, De Monarchia, Vita Nova, Beatrice, Commedia, Angelo Mutti, l'Avvenimento, Divina Commedia, Beatrice.