La guerra del fascismo contro la mafia
Nel 1925, Benito Mussolini decise di estirpare in modo totale e definitivo la mafia dalla Sicilia. E ne affidò il compito ad un uomo non gradito al Regime, ma di sicure capacità: Cesare Mori, il «Prefetto di Ferro»

«Voscenza, signor capitano, è con mia… è sotto la mia protezione. Che bisogno aveva di tanti sbirri che si è portato dietro?».

È il 6 maggio 1924. Benito Mussolini, Presidente del Consiglio, sta compiendo il suo primo viaggio in Sicilia. I grandi esponenti della «onorata società», spalleggiatori del fascismo non appena è stato chiaro ch’esso avrebbe rappresentato – nel bene e nel male – il futuro del Paese, si sono affannati ad una marea di manifestazioni di ossequio e di devozione verso il Duce che solo uno sprovveduto o un ingenuo non avrebbe ritenuto insultanti. E Mussolini non è né uno sprovveduto, né un ingenuo. Quell’ultima frase, sussurrata a bassa voce da don Francesco Cuccia, capo-mafia e sindaco di Piana dei Greci, con un tono di amichevole rimprovero e di complicità, lo riempie di furore. Nei giorni seguenti, il suo disagio aumenta: «Qui sono tutti in combriccola» confida una sera al suo segretario, Chiavolini. «Come mi muovo sento puzza di mafia».

Mussolini, di mafia s’intende poco. Nei diciotto mesi di governo non ha avuto il tempo di approfondire il problema. E il quadro che gli si dipinge davanti è desolante: tutta la Sicilia è controllata dall’onorata società, gli viene detto; vaste zone montane, come le Madonie, sono occupate da bande armate che governano a loro modo decine di villaggi; l’autorità dello Stato non esiste, le forze dell’ordine devono scendere a patti coi banditi. Le bande sono acquartierate nei paesi, emettono ordini, pianificano le attività criminose, amministrano a modo loro la giustizia (per esempio, restituendo sempre il maltolto se i derubati pagano un riscatto pari ad un terzo del valore del bottino), regolano la vita amministrativa: il sindaco della cittadina di Gangi, barone Sgadari, ha rifiutato un contributo dello Stato per l’illuminazione pubblica perché i malavitosi preferiscono che le strade restino al buio. I briganti che dominano la campagna sono l’organo esecutivo dell’«alta mafia» che risiede nelle città e che può comprendere il deputato locale, il barone, il possidente, il professionista (mentre la «bassa mafia» annovera tra i suoi il «pezzo da novanta», spesso più autorevole del deputato o del barone per cui lavora, il gabellotto, il campiere, il curatolo, il soprastante, il portinaio…). La mafia controlla la vita politica ed economica dell’isola, elegge deputati, regola le fittanze agrarie, impone ai latifondisti i propri campieri, svolge azioni antisciopero, si intromette negli appalti e in ogni altro affare lucroso, impone a proprietari e commercianti (dietro pagamento) la propria tutela che è ovunque più efficace e più sicura di quella che può offrire lo Stato.

Mussolini non ha alcuna intenzione di diventare il «Ministro della malavita»: «L’Italia fascista debellerà la mafia!» dichiara.

Tornato a Roma, il 27 maggio convoca a Palazzo Chigi Emilio De Bono, l’onorevole Luigi Federzoni prossimo ad assumere l’incarico di Ministro dell’Interno, alcuni alti funzionari della polizia, e chiede a chi possa essere affidato il compito di liquidare la mafia. De Bono esita, poi propone il nome del prefetto Cesare Mori. Mussolini tace corrucciato.

Mori è sulla lista nera fascista: lombardo di nascita, integerrimo funzionario dell’Italia liberale, dotato di un senso quasi maniacale dello Stato, ha combattuto con la stessa energia contro repubblicani, anarchici, socialisti e fascisti, senza guardare in faccia a nessuno. A Bologna, come questore, ha contrastato con risolutezza le squadre fasciste di Balbo e Arpinati; è stato il loro principale avversario, tant’è vero che gli squadristi emiliani intonavano una canzone in cui si chiedeva la sua testa. Mussolini, venti giorni dopo la Marcia su Roma, lo ha sospeso da ogni incarico; però il Duce è anche un uomo pragmatico: «Spero che questo Mori sarà altrettanto duro con i mafiosi quanto lo è stato con i miei squadristi di Bologna», conclude, approvando quella scelta.

A 52 anni, Cesare Mori va in Sicilia. Anzi, vi torna: c’è già stato, dal 1903 al 1917, per contrastare la mafia e soprattutto il banditismo, aumentato anche a causa delle torme di disertori che, dopo il disastro di Caporetto, hanno invaso l’isola. Già da questo primo incarico si nota la sua irruenza, paragonata a quella di uno sceriffo più che di un prefetto: un giorno, mentre se ne sta andando in giro per la campagna a dorso di cavallo, col moschetto a tracolla, si imbatte in Francesco Castro, un famoso brigante. I due uomini si riconoscono subito. Castro è meglio armato di Mori, ha due pistole e un fucile automatico Watterly. Ma è costretto alla fuga. Bloccato ai piedi di una rupe, scende da cavallo, si ripara dietro un tronco ed apre il fuoco. Cesare Mori risponde. Dopo quasi un’ora di duello, Francesco Castro è freddato da una palla in fronte.

I colpi durissimi che Mori infligge ai briganti, però, non toccano in modo decisivo la mafia: «Il vero colpo mortale alla mafia lo daremo quando ci sarà consentito di rastrellare non soltanto fra i fichi d’India» (ovvero nelle campagne e nei paesini), «ma negli ambulacri delle prefetture, delle questure, dei grandi palazzi padronali e, perché no, di qualche Ministero», ovvero nei centri di potere delle città, attorno ai quali alligna l’«alta mafia». Occasione che gli viene offerta proprio da Mussolini!

Il Duce dà a Mori quello che sognerebbe qualsiasi prefetto, ovvero poteri pieni e praticamente illimitati: «Vostra Eccellenza» gli scrive «ha carta bianca, l’autorità dello Stato deve essere assolutamente, ripeto assolutamente, ristabilita in Sicilia. Se le leggi attualmente in vigore la ostacoleranno, non costituirà problema, noi faremo nuove leggi». Per un tale impegnativo incarico, gli viene messa a disposizione l’intera struttura operativa della Milizia; l’offerta viene declinata, salvo per un’aliquota rappresentativa, perché Mori vuole i carabinieri, conoscendone la collaudata esperienza nel difficile ambiente e il radicato inserimento tra le popolazioni siciliane. E li ottiene: un intero battaglione e tutta la struttura territoriale dell’Arma delle zone interessate sono messi a sua disposizione, per un totale di oltre 800 uomini a cavallo, al comando del Maggiore Giuseppe Artale. Un vero piccolo esercito.

L’assedio di Gangi, primo passo della guerra alla mafia, rivela in pieno la sua determinazione. È il gennaio del 1926. Il paese ha 16.000 abitanti, i briganti sono 160 ma favoreggiatori – volenti o nolenti – sono tutti gli altri: la mafia li protegge e li utilizza. L’ambiente è tipicamente western: vasti altopiani adibiti al pascolo, masserie isolate e autonome simili a ranch, aie ampie e vasti recinti per gli animali, e uomini a cavallo, sempre armati, caracollanti al seguito di mandrie o di greggi lungo le trazzere che scendono a valle fra macchie di canneti e di fichi d’India che paiono fatte apposta per favorire le imboscate. Il paese è arroccato tutto attorno al cocuzzolo del monte: costruite a gradinata sul fianco della montagna, le case hanno due comode uscite (una sulla strada sottostante, l’altra, a livello del tetto, sulla strada soprastante), e poi rifugi segreti, cunicoli che le collegano tra loro, gallerie sotterranee che sbucano fuori dell’abitato.

Cesare Mori pianifica la sua azione con criteri militari, ma corredando il suo piano anche di alcune trovate da guerra psicologica, frutto della sua precedente esperienza di lotta contro la malvivenza siciliana.

All’inizio spinge i suoi uomini a chiudere l’intero abitato dietro una linea continua di armati: a nessuno, neppure al medico, è consentito di lasciare il paese. Poi passa ad occupare le basi mafiose, i feudi tenuti a gabella. Infine, all’alba del 4 gennaio, le forze di polizia attaccano direttamente l’abitato, senza sparare un sol colpo (Mori non vuole che eventuali briganti morti vengano considerati martiri: vuole dimostrare alla popolazione che si tratta solo di vigliacchi). La cittadina viene rastrellata casa per casa, più di 400 persone, familiari o presunti favoreggiatori di briganti, vengono arrestate; molti latitanti sono catturati, ma i capi risultano introvabili, al sicuro nelle loro tane.

A questo punto, Mori decide di utilizzare alcuni stratagemmi psicologici. La prima trovata consiste nel far spargere la voce che gli arrestati di Gangi stanno subendo in carcere ogni sorta di maltrattamenti e che, in particolare, «gli sbirri si fottono le donne dei banditi».

Poi ordina il sequestro di tutti i beni appartenenti ai banditi. Fa macellare in piazza i vitelli più grassi delle mandrie sequestrate disponendo che la carne sia distribuita gratuitamente al pubblico: la gente, affamata per via dell’assedio, accorre in massa a raccogliere quel dono inatteso, e la distribuzione della carne assume aspetti da sagra paesana.

Infine, lui e i suoi uomini sfidano a singolar tenzone, da uomo a uomo, i briganti più famosi. L’annuncio viene letto in pubblico: «Si faccia sapere al cosiddetto Re delle Madonie» proclama Mori, «che io sono pronto ad affrontarlo da solo e col moschetto in pugno. Stasera alle sei l’aspetterò nel fondo Sant’Andrea. Se è un uomo, verrà». A questo punto, i capi dei banditi, umiliati, escono dalle loro tane; come ultima concessione al proprio orgoglio frustrato, ottengono di costituirsi non dinanzi al prefetto, ma nell’ufficio del sindaco.

Iscrittosi al Partito Nazionale Fascista il 21 febbraio 1926, Mori enuncia i principî della sua azione: ripristinare l’autorità dello Stato, ottenere il sostegno delle popolazioni, distinguere fra una presunta omertà «pura» e un’omertà degenerata; è un oratore ampolloso, retorico, ma anche efficace, sa convincere. E poi procede inarrestabile: passa al setaccio borgate e città, prendendo nella sua rete pesci piccoli ma anche pesci grossi, segue le tracce indicate dalle lettere anonime, utilizza spregiudicatamente i confidenti, fa ricorso ai mezzi più brutali per indurre alla resa i capicosca, mette l’una contro l’altra le varie bande, proclama che «se i Siciliani hanno paura dei mafiosi li convincerò che io sono il mafioso più forte di tutti». La magistratura agisce ai suoi ordini, su prove discutibili, emanando sentenze spicciative e severe: si danno casi di mafiosi condannati per crimini avvenuti lo stesso giorno, alla stessa ora, a centinaia di chilometri di distanza. È diventato un fanatico della camicia nera, assume pose gladiatorie, passa sotto finti archi di trionfo sovrastati dalla scritta «Ave Cesare», si compiace della popolarità e la sollecita: in tutte le scuole siciliane fa appendere il suo ritratto accanto a quelli del Re e del Duce. Il prefetto riconosce che la propria azione repressiva include momenti di arbitrarietà, ma sostiene che tale comportamento è giustificato dagli eccessi cui la mafia è giunta: una serie di retate nei comuni in provincia di Palermo, Agrigento, Caltanissetta, Enna, condotte soprattutto nel 1926, conducono a migliaia di arresti, seguiti da grandi processi per associazione a delinquere. Spesso le sue azioni si concretizzano, come lui stesso ammette, in «autocarri carichi di sciagurati avviati alla espiazione di un passato di colpe»; probabilmente moltissimi sono gli innocenti condannati. Ma Mori non si ferma dinanzi a nulla, neppure di fronte ad un esponente fascista emergente, Alfredo Cucco, federale di Palermo: quando questi prova a contrastarlo, il prefetto accumula contro di lui una documentazione implacabile, che induce Mussolini a sciogliere, agli inizi del 1927, il fascio di Palermo, e a consentire l’incriminazione del Cucco.

Le grandi retate e i successivi processi scompaginano le cosche mafiose, soprattutto quelle delle Madonie, di Bagheria, Bisacquino, Termini, Mistretta, Partinico, Piana dei Colli. Non si tratta solo di migliaia di mafiosi avviati verso i penitenziari o le isole di confino: quasi ogni giorno, i giornali dell’isola annunciano l’arresto di personaggi di rilievo – professionisti, commercianti, amministratori e funzionari dello Stato. Molti mafiosi sono costretti a fuggire negli Stati Uniti per evitare la cattura: attraverso il cosiddetto «ponte nero» Palermo-Brooklyn (che non ha mai registrato un traffico così intenso) giungono in America picciotti e «pezzi da novanta», braccianti del crimine e futuri padrini. Giunge anche, fra gli altri, un giovanotto di 27 anni, di nome Carlo Gambino, destinato a diventare, negli anni Settanta, il boss dei boss di Cosa Nostra.

La popolarità di Cesare Mori è al culmine, in Italia come all’estero, dove nel 1926 è stato eletto personaggio dell’anno. Una sua fotografia a cavallo, con stivali e fucile a tracolla, fa da copertina su molti settimanali illustrati. I giornalisti, soprattutto quelli americani, gareggiano fra loro nel tessere le lodi dell’uomo che ha sbaragliato la mafia in Sicilia, auspicando una campagna analoga contro i gangsters di Chicago e di New York. I sicari incaricati dalla mafia americana di toglierlo di mezzo falliscono tutti, perché i servizi segreti italiani vigilano bene. «Nessun Governo, dall’Unità d’Italia» scrivono i giornali, «era mai riuscito a compiere ciò che Mussolini ha realizzato in pochi mesi».

A questo punto, arriva la doccia fredda: il 16 giugno 1929 da Roma parte un laconico dispaccio per il prefetto Mori: «Con Regio Decreto in corso Vostra Eccellenza è stata collocata a riposo per anzianità di servizio a decorrere da oggi 16 giugno. La ringrazio dei lunghi servizi resi al Paese. Firmato il Capo del Governo». Il 24 giugno Mussolini gli invia una lettera più lunga, esprimendogli «ancora una volta il mio alto elogio ed il mio vivissimo compiacimento per quanto Vostra Eccellenza ha compiuto a Palermo e in Sicilia in questi quattro anni che rimarranno scolpiti nella storia della rigenerazione morale, politica e sociale dell’isola nobilissima». Ma il risultato non cambia: Mori è licenziato!

Ci si potrebbe chiedere il perché. La ragione sta probabilmente nel fatto che l’uomo, tutto preso dalla sua missione, è ormai diventato scomodo, imprevedibile e pericoloso; promette alla gente riforme che non verranno mai, la incita soprattutto ad usare le armi contro i malfattori: «Reagire alla malvivenza direttamente con ogni mezzo, comprese le armi; considerare la reazione alla malvivenza in atto, e al delitto in corso contro la vita e gli averi dei cittadini, non solo come un diritto ma soprattutto come un dovere: in quanto la vita del cittadino è votata alla Patria e la proprietà privata è elemento della ricchezza nazionale che tutti dobbiamo garantire». Ma l’emergenza poliziesca e giudiziaria da lui instaurata in Sicilia non può diventare la regola in uno Stato cui il Duce vuole dare connotati di normalità autoritaria.

Dopo la partenza di Mori, continua la guerra del fascismo contro la mafia: si nota un aumento della microcriminalità, è vero, ma solo per il fatto che molti mafiosi disoccupati sono costretti dal bisogno a trasformarsi in volgari ladri o rapinatori. Negli anni successivi, non si registra alcun episodio criminoso degno di essere definito «di stampo mafioso». Come ha raccontato il pentito Antonino Calderone: «I mafiosi erano usciti impoveriti dal fascismo. Dopo la guerra non c’era quasi più mafia. La mafia era una pianta che non si coltivava più. Mio zio Luigi, un capo, un’autorità, si era ridotto al punto di fare il ladro per sopravvivere».

La guerra contro la mafia costerà ai carabinieri 15 caduti e 350 feriti; per l’incisiva azione svolta contro la criminalità siciliana, ai militari dell’Arma verranno concesse 124 medaglie d’argento e 47 di bronzo al valor militare, 6 medaglie al valor civile, 14 attestati di pubblica benemerenza e 50 encomi solenni.

Alla lotta contro la mafia Mori dedicherà un libro: Con la mafia ai ferri corti. Il prefetto si rivela uno scrittore involuto, portato agli svolazzi retorici. Eppure il libro (che non piace ai fascisti, nonostante sia zeppo di elogi smaccati al Duce e al Regime) ottiene un notevole successo commerciale, e viene tradotto anche in inglese.

Negli ultimi anni di vita, Mori si dedicherà con impegno ad attività di basso profilo, lontane dal clamore. Morirà solo, nel più assoluto silenzio, nel 1942, pochi mesi dopo la scomparsa della moglie (la coppia era rimasta senza figli); i giornali gli dedicheranno poche righe in cronaca.

L’anno successivo, la mafia risorgerà: tornerà in Sicilia a fianco delle truppe angloamericane che venivano a rovesciare il Regime, aiutandole nella conquista e nel controllo dell’isola, corteggiandole perché, come aveva detto Mori, «la mafia è una vecchia puttana che ama strofinarsi cerimoniosamente alle Autorità per adularle, circuirle e… incastrarle». Cosa che le riuscirà in pieno: riprenderà molti posti di potere dai quali era stata eliminata; anzi, la mafia definirà Cesare Mori un «arnese» del fascismo, con la conseguenza che tutte le sue vittime potranno vantare dei meriti antifascisti. E infatti non furono pochi i boss che si avvantaggiarono di questa opportunità: per esempio, i due più noti e potenti padrini del dopoguerra, don Calogero Vizzini e Genco Russo (che Mori aveva spedito in carcere o al confino), ebbero addirittura la soddisfazione di vedersi assegnare la croce di cavaliere della Repubblica a compenso delle «persecuzioni» subite!

Molti sono oggi quelli che auspicano un ritorno del prefetto Mori, ovvero di un uomo che sappia combattere la mafia come lui, l’unico, in più di 160 anni di storia nazionale, a metterla in ginocchio, sebbene con leggi speciali, carcere duro, repressioni indiscriminate, abolizione di ogni garantismo, deportazioni coatte e tante altre misure che una sana democrazia dovrebbe evitare. Ma forse potremmo ricordare e far nostro il motto sul quale incardinò la sua operazione in Sicilia: «Se la mafia fa paura, lo Stato deve farne di più».

(Per chi desiderasse approfondire l’argomento, consiglio la lettura dell’ottimo saggio di Arrigo Petacco: Il prefetto di ferro, da cui sono state tratte molte notizie contenute in questo articolo).

(maggio 2014)

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