Elezioni politiche italiane del 6 aprile 1924
Momento fondamentale nella storia contemporanea; riflessioni attuali

Trascorso un secolo dalla consultazione elettorale tenutasi nella primavera del 1924, che fu l’ultimo passaggio verso la genesi dello Stato autoritario, compiutasi nove mesi più tardi con l’acquisizione di pieni poteri sostanziali da parte del Governo Mussolini (3 gennaio 1925), è tempo di nuove riflessioni, come si conviene nella ricorrenza di ogni centenario importante. Quel 6 aprile erano trascorsi poco più di 500 giorni dalla Marcia su Roma e dalla decisione del Sovrano, Vittorio Emanuele III di Savoia, di revocare lo stato d’assedio e conferire al Duce del fascismo l’incarico di formare un nuovo Governo di coalizione, in sostituzione del dimissionario Gabinetto di Luigi Facta: nondimeno, le difficoltà che sorsero nell’ambito di una maggioranza eterogenea composta da fascisti e nazionalisti, ma anche da cattolici, liberali e moderati diversi, avevano dato luogo alla revisione della legge elettorale in senso maggioritario, con successiva chiamata alle urne, ancora rigidamente riservata al popolo maschile: un limite che sarebbe stato cancellato solo nel secondo dopoguerra.

Nonostante l’importanza della consultazione, i votanti furono appena 7,2 milioni, pari al 64,8% degli aventi diritto, mentre gli astenuti giunsero alla rispettabile cifra di oltre 4,3 milioni. La Lista Nazionale guidata dal Capo del Governo ebbe un consenso largamente maggioritario, con oltre 4,6 milioni di voti, pari al 64,9%, aggiudicandosi 374 seggi parlamentari a fronte dei 535 complessivi, pari al 70%. Ciò ebbe luogo grazie al premio di maggioranza istituito dalla predetta Legge Acerbo – dal nome del suo primo proponente – che permise allo stesso Mussolini di aggiudicarsi una trentina di seggi in più, rispetto a quelli di cui avrebbe potuto fruire qualora si fosse votato con un sistema proporzionale puro.

In realtà, il risultato nettamente favorevole alla maggioranza fu indotto non tanto dalle conclamate violenze fasciste, che comunque ebbero luogo ma – come in precedenza – non furono certo a senso unico, quanto dalla disgregazione della minoranza in una serie di liste non collegate, tale da indurre molte astensioni motivate da comprensibili perplessità. In effetti, dalle forze di matrice socialista avevano tratto origine quattro diversi partiti (confronta l’allegato) con l’aggiunta di quello comunista, collocato all’estrema sinistra. Di fatto, la sola opposizione «tecnicamente» unitaria fu espressa dal movimento cattolico, che non a caso si sarebbe affermato, quanto a cifre, come la seconda forza del Paese, sia pure a grande distanza dalla Lista Nazionale, scontando – fra l’altro – gli effetti residui del lungo «non expedit» pontificio iniziato nel 1870 e sostanzialmente rimosso dal conte Ottorino Gentiloni soltanto nel 1913, appena un decennio prima della consultazione in parola.

L’Italia, in buona sostanza, non era spaccata in due veri blocchi, diversamente da varie presunzioni: caso mai, vedeva una maggioranza coesa, sebbene inferiore alla metà degli elettori a causa delle citate astensioni, mentre il resto dei votanti continuava a disperdersi in una miriade di formazioni minori, che spesso e volentieri si presentavano in ordine sparso, e talvolta in un numero parziale di collegi, se non anche minimo (come accadeva per i repubblicani della Romagna e delle Marche). In queste condizioni, bisogna ammettere che il successo della Lista Nazionale fu oggettivamente facile, e che verosimilmente avrebbe potuto ascriversi, sia pure in proporzioni ridotte, senza bisogno delle modifiche alla legge elettorale, e soprattutto, delle stesse violenze di parte, in guisa da indurre non tanto un aumento dei suffragi quanto le diserzioni dal voto, che coinvolsero un buon terzo degli aventi diritto.

D’altra parte, l’avvento dello Stato autoritario di cui in premessa si sarebbe attuato soltanto agli inizi del successivo 1925, dopo le elezioni generali dell’anno precedente e poi a seguito del caso Matteotti, che aveva visto la scomparsa del parlamentare socialista alla fine di maggio, il recupero delle sue spoglie nell’agosto successivo, e l’assunzione di una specifica responsabilità politica, ma non certo quella giuridica, e tanto meno quella giudiziaria, da parte dello stesso Capo del Governo.

Conviene aggiungere che l’ascesa del fascismo era stata straordinariamente rapida. Dalla riunione del 23 marzo 1919 tenutasi nella sede dell’Alleanza industriale e commerciale situata a Milano in Piazza San Sepolcro, alla Marcia su Roma del 1922 era trascorso poco più di un triennio, in cui quei primi «diciannovisti» (non più di 120 per «Il Popolo d’Italia» dell’epoca e circa 300 per la Polizia del capoluogo lombardo) erano cresciuti in rapida progressione fino ai 312.000 del novembre 1921, quando al Congresso di Roma fu deciso di sciogliere il primigenio movimento e di creare il Partito Nazionale Fascista che un anno dopo avrebbe espresso il nuovo Governo, e che – trascorsi altri 16 mesi – ebbe modo di acquisire la maggioranza assoluta (con l’apporto non marginale dei nazionalisti) nella predetta consultazione nazionale del 6 aprile 1924, a conclusione di un percorso quinquennale che, piaccia o non piaccia, era stato iniziato da una pattuglia di «fondatori» ma aveva saputo conquistare la fiducia di un’ampia base popolare, sia pure con l’avallo della Monarchia e con l’apporto di un’opposizione quanto mai divisa, e proprio per questo, di ridotta credibilità.

Alla vigilia della consultazione popolare, e con la fine di una campagna elettorale non priva di forti tensioni, la Lista Nazionale aveva avuto un importante supporto positivo e personale anche da Vittorio Emanuele Orlando, il Presidente del Consiglio in carica alla fine della Grande Guerra (4 novembre 1918). Ciò, nel momento in cui egli si fece premura di promuovere l’immagine di un «fascismo inteso come forza capace di portare alla normalizzazione del Paese» con un richiamo tanto più attendibile, perché proposto da un patriota di sicuro riferimento e di popolare prestigio.

Per l’occasione, era stato costituito un Comitato Elettorale dell’Alleanza, di cui facevano parte cinque membri designati dal Gran Consiglio del fascismo (Giacomo Acerbo, Michele Bianchi, Aldo Finzi, Francesco Giunta, Cesare Rossi) e a cui fu conferito l’incarico di predisporre il «listone» dei candidati, senza escludere il coinvolgimento di militanti nelle file cattoliche, liberali e demo-sociali che fossero disponibili a collaborare attivamente andando a far parte di una maggioranza «nazionale» ormai largamente annunciata[1]. Oltre a quella di Orlando, furono importanti le adesioni di Antonio Salandra e di Enrico De Nicola, sebbene rientrate in tempi successivi, e soprattutto le rilevanti «conversioni» di parte cattolica, come quelle di Stefano Cavazzoni, Egilberto Martire e Paolo Gentili.

Ancor prima della confluenza nazionalista nel fascismo, Mussolini aveva raccolto ampie simpatie tra i reduci della Grande Guerra – che si contavano a milioni e costituivano un decisivo gruppo di pressione – con particolare riguardo a quelli provenienti dalle campagne, che non avevano fatto mistero della propria delusione per il mancato seguito positivo alla vecchia promessa di conferimento della «terra ai contadini». Nello stesso tempo, il Presidente del Consiglio aveva trovato ampio consenso dopo l’incidente di Janina del 27 agosto 1923, quando una missione militare italiana guidata dal Generale Enrico Tellini era stata vittima di un’imboscata conclusa con l’uccisione dei quattro membri, con la richiesta di scuse ufficiali alla Grecia, l’occupazione di Corfù per opera di truppe italiane proseguita sino alla fine di settembre, e la corresponsione di una congrua indennità, pari a 50 milioni di lire[2].

Sul piano economico, con riguardo prioritario alla gestione dei rapporti di lavoro, era stato salutato con favore l’accordo siglato in dicembre fra Governo e Confindustria all’insegna di «cordiali rapporti tra datori d’opera, lavoratori e loro organizzazioni sindacali». Del resto, Mussolini aveva già cercato in diverse occasioni di perseguire una strategia di collaborazione con la CGL, quale aggregato operaio più rappresentativo: lo aveva fatto nel dicembre 1922, trascorso appena un mese dalla costituzione del suo Governo, pur trovandosi in «concorrenza» col movimento di Gabriele d’Annunzio e la sua forte inclinazione sindacale ispirata da Alceste de Ambris; aveva stipulato accordi formali di notevole spessore anche mediatico col patto del dicembre 1923 fra Confederazione delle Corporazioni fasciste e Confindustria; e avrebbe raggiunto importanti intese collettive fra le parti, a carattere sostanzialmente conclusivo, nel marzo 1925, dopo il consolidamento di gennaio.

Agli inizi del 1924 il Governo aveva acquisito nuovi punti a proprio favore anche in politica estera: primo fra tutti, il trattato del 27 gennaio che chiudeva la lunga questione di Fiume, su cui Belgrado accettava la sovranità italiana, mentre le zone orientali del cosiddetto Territorio Libero, con lo scalo alternativo di Porto Baross, erano trasferite a quella jugoslava, nell’ambito di accordi per il riconoscimento congiunto dei diritti statuiti con i trattati di pace, e della reciproca neutralità[3]. Nel medesimo ambito fu altrettanto importante il ristabilimento di normali relazioni diplomatiche fra l’Italia e l’Unione Sovietica, formalizzato in febbraio con l’aggiunta di alcuni accordi commerciali: un fattore certamente importante, perché idoneo a convincere non pochi oppositori circa l’inesistenza di pregiudiziali aprioristiche, da parte del Governo Italiano, nei confronti del «nuovo corso» ormai acquisito nella vecchia Russia, dopo la sconfitta definitiva dei cosiddetti «bianchi».

Una «dialettica degli opposti» era rimasta molto forte fino alla vittoria della Lista Nazionale nelle elezioni del 6 aprile, che invece parve cedere il passo a buone prospettive di più matura riflessione, e di conseguente operatività da parte del Governo, confortato da un’ampia maggioranza parlamentare. Nondimeno, il 30 maggio dello stesso 1923, l’Onorevole Giacomo Matteotti (socialista) fu aggredito a Roma, sul lungotevere Arnaldo da Brescia, e rapito da una squadra guidata – come si sarebbe appreso in seguito – da Amerigo Dumini (fascista toscano in servizio presso l’Ufficio stampa della Presidenza del Consiglio) e composta da altri quattro elementi in forza agli Arditi milanesi (Augusto Malacria, Amleto Poveromo, Giuseppe Viola, Amleto Volpi). Non vi furono rivendicazioni, ma nel silenzio fu temuto il peggio, avendone conferma nel successivo agosto quando il cadavere di Matteotti fu scoperto non lontano da Roma, rinnovando esecrazioni che indussero alcuni momenti non facili per la stessa continuità del Governo. Peraltro, in questa circostanza, al pari di quanto era accaduto dopo la crisi del Gabinetto Facta, la Monarchia mantenne un atteggiamento attendista, e quindi risolutivo.

Si ebbero, invece, alcune dichiarazioni di opposizione (Onorevole Giovanni Giolitti), dimissioni eccellenti (Onorevole Antonio Salandra) o dichiarazioni di «malessere» (Generale Gaetano Giardino) ma si sarebbe registrato anche il «flop» della cosiddetta opposizione aventiniana, dal nome del colle romano dove diversi politici antifascisti, ma senza i comunisti, avevano ipotizzato di continuare la propria battaglia alternativa[4].

Il processo a carico degli attentatori di Matteotti ebbe inizio, dopo lunga istruttoria, soltanto nel marzo 1926, a quasi due anni dai fatti. Tra gli avvocati difensori spiccava il nome di Roberto Farinacci, il noto «ras» di Cremona, a tutela del Dumini: nonostante le direttive di Mussolini che intendeva limitare il più possibile la durata del procedimento, lo stesso Farinacci si avvalse dell’occasione per attaccare le forze dell’antifascismo e dell’Aventino, con un forte «revival» anche nell’opinione pubblica. Dopo due settimane di dibattito la procedura si chiuse con l’esclusione dell’omicidio volontario e la sua derubricazione in preterintenzionale, il beneficio di alcune attenuanti, l’aggravante del ruolo parlamentare appartenente alla vittima, e la condanna di Dumini, Poveromo e Volpi a cinque anni, undici mesi e venti giorni di reclusione, di cui quattro anni condonati per amnistia, mentre Malacria e Viola fruirono di assoluzione per non aver partecipato al fatto. La storia giudiziaria in questione, peraltro, ebbe un seguito negli anni Trenta quando Dumini fu oggetto di una nuova condanna – sia pure piuttosto mite – per offese al Capo dello Stato, e soprattutto nel secondo dopoguerra, quando il medesimo Dumini, già scampato fortunosamente alla morte per mano degli Alleati, fu nuovamente arrestato e condannato all’ergastolo per l’uccisione di Matteotti (peraltro, giovandosi dell’amnistia per reati politici, fu rimesso definitivamente in libertà nel 1956).

Prescindendo da queste vicende, sta di fatto che il delitto Matteotti, per il fascismo e per il Governo Mussolini, si risolse in un semplice incidente di percorso, di potenziale gravità – ma di scarsi effetti concreti – soltanto per le dissociazioni eccellenti di cui si è detto, cui vanno aggiunte quelle di Aldo Oviglio e di Alberto De Stefani dopo il discorso parlamentare pronunciato dal Duce all’inizio del 1925. Del resto, in tutta la questione, come si diceva in precedenza, Vittorio Emanuele III avrebbe assunto un ruolo da convitato di pietra, ben diversamente da quanto avrebbe fatto dopo il Gran Consiglio del 25 luglio 1943, quando Mussolini non ebbe l’adesione della maggioranza e fu arrestato dai Carabinieri a seguito dell’udienza col Sovrano che gli aveva tolto la fiducia; ma questa, con tutto quel che vi ha fatto seguito, è un’altra storia.

Paradossalmente, pur avendo visto la presenza di 22 liste, in aggiunta a quella «nazionale» che faceva capo a Mussolini e ai suoi alleati, si potrebbe dire che il confronto fu sostanzialmente bipolare, nonostante la straordinaria divisione delle opposizioni, in buona parte di sinistra. Alla luce di una corretta storiografia, e della stessa logica formale, non sarebbe corretto chiedersi quali potevano essere gli effetti di un blocco contrapposto al «listone» del Duce. Nondimeno, è implicito che, a fronte di un’opposizione concentrata all’insegna di un minimo denominatore comune, il «partito» delle astensioni avrebbe potuto ridursi in misura importante, mentre una vittoria di Mussolini con una quota ridotta, in specie se assistita dal ruolo decisivo del premio di maggioranza, avrebbe potuto indurre altre prospettive.

Sta di fatto che, oltre alcune pregiudiziali specifiche, come quella – già citata – espressa dal Partito dei Contadini (che ebbe pochi voti ma rilevanza etica e politica degna d’attenzione perché rivendicava la distribuzione delle terre a guerra finita, con riguardo prioritario ai grandi latifondi), il comportamento delle opposizioni fu una sorta di suicidio collettivo a tutto vantaggio della Lista Nazionale, tanto da consentire alla maggioranza di superare senza apprezzabili conseguenze gli effetti del caso Matteotti.

Oggi, trascorso un secolo dalle elezioni generali del 1924, è possibile esprimere giudizi storici finalmente alieni da ogni valutazione partigiana. In ultima analisi, ne emerge che la cosiddetta Legge Acerbo ebbe un ruolo piuttosto marginale, pur avendo corroborato la maggioranza governativa in misura ragguardevole, ma certamente non decisiva, laddove i rischi potenziali corsi dal Duce col delitto Matteotti furono maggiori, e risolti a favore del regime grazie all’atto di forza compiuto con le cosiddette leggi «fascistissime» promulgate, grazie al rinnovato e certamente interessato supporto della Monarchia, a decorrere dal gennaio 1925. Un fattore, quest’ultimo, che conferma come il fascismo – in difformità da certe interpretazioni storiografiche – non sia stato una vera e propria dittatura monocratica, ma nella sostanza delle cose, una diarchia di carattere autoritario: in proposito, non è fuori luogo rammentare che, alla fine, le responsabilità di Casa Savoia hanno dovuto confrontarsi con la volontà «politica» di indire il Referendum istituzionale del 2 giugno 1946, l’esilio del Sovrano e l’avvento della nuova Repubblica Italiana.


Note

1 I componenti del Comitato elettorale avevano titoli ragguardevoli per farne parte, onde garantire all’iniziativa una credibilità ad ampio spettro: Giacomo Acerbo era l’estensore del disegno di legge per l’istituzione del premio di maggioranza; Michele Bianchi aveva partecipato come «Quadrumviro» alle vicende del 28 ottobre 1922 culminate nella Marcia su Roma; Francesco Giunta era stato particolarmente attivo nelle iniziative fasciste di successo, assunte in Venezia Giulia. Dal canto loro, Aldo Finzi e Cesare Rossi esprimevano un contributo «moderato» a supporto dell’acquisizione di notevoli consensi complementari.

2 La congruità della cifra fu riconosciuta, dopo una rapida inchiesta giudiziaria, da una Conferenza delle tre Potenze alleate (Francia, Gran Bretagna, Italia). Nondimeno, non fu possibile pervenire a conclusioni definitive circa la matrice dell’eccidio, dovuta – probabilmente – a forze autonomiste locali dissociate dal Governo Ellenico, la cui responsabilità restava comunque prioritaria.

3 L’acquisizione di Fiume, in ogni caso, fu un successo diplomatico di notevole rilevanza mediatica anche a livello internazionale. Non a caso, Vittorio Emanuele III decise, in conseguenza, di «premiare» Mussolini con il Collare dell’Ordine dell’Annunziata, la massima onorificenza italiana dell’epoca.

4 Alle dissociazioni eccellenti si opposero adesioni altrettanto importanti, come quella di Luigi Pirandello, che chiese direttamente a Mussolini la tessera del Partito Nazionale Fascista, proponendosi come «umile e obbediente gregario» all’insegna di «una fede nutrita e servita sempre in silenzio». Sulla stessa posizione furono il Presidente di Confindustria, Antonio Stefano Benni, assieme al Segretario Generale Gino Olivetti.


ELEZIONI POLITICHE ITALIANE DEL 6 APRILE 1924 – MIGLIAIA DEI VOTI VALIDI OTTENUTI DALLE LISTE


Liste

000 voti
%
Seggi
%

Lista Nazionale

4.653
64,9
374
69,9

Partito Popolare Italiano

646
9,0
39
7,3

Partito Socialista Unitario

423
5,9
24
4,5

Partito Socialista Italiano

361
5,0
22
4,1

Partito Comunista Italiano

268
3,7
19
3,6

Partito Democratico Socialista

111
1,6
10
1,8

Partito Repubblicano

134
1,9
7
1,3

Altre Liste (16)

570
8,0
40
7,5

Totale dei voti validi

7.166
100,0
535
100,0

Nota bene – I dati in tabella dimostrano chiaramente che l’effetto indotto dalla Legge Acerbo a favore della Lista Nazionale si è ragguagliato a cinque punti percentuali, andati a detrimento ripartito percentualmente fra le altre liste, ma senza effetti decisivi, perché la vittoria della medesima Lista Nazionale sarebbe stata garantita da uno scarto di circa 15 punti, anche senza il premio di maggioranza. Nell’ambito dell’informazione statistica si può aggiungere che alcune apparenti discrasie, come quella di una rappresentanza parlamentare del Partito Repubblicano sottostimata rispetto ai suffragi ottenuti, sono da attribuire alle presenze in un numero ridotto di collegi, ma fronteggiate da rilevanti voti locali.


(aprile 2024)

Tag: Carlo Cesare Montani, Benito Mussolini, Vittorio Emanuele III, Luigi Facta, Ottorino Gentiloni, Giacomo Matteotti, Vittorio Emanuele Orlando, Enrico Tellini, Alceste de Ambris, Gabriele d’Annunzio, Amerigo Dumini, Augusto Malacria, Amleto Poveromo, Giuseppe Viola, Amleto Volpi, Giovanni Giolitti, Antonio Salandra, Gaetano Giardino, Roberto Farinacci, Aldo Oviglio, Alberto De Stefani, Giacomo Acerbo, Michele Bianchi, Francesco Giunta, Aldo Finzi, Cesare Rossi, Italia, Milano, Roma, Janina, Grecia, Corfù, Cremona, Romagna, Marche, Fiume, Porto Baross, Unione Sovietica, Russia, Francia, Gran Bretagna, Marcia su Roma, Lista Nazionale per le elezioni del 6 aprile 1924, Legge Acerbo, non expedit, Alleanza industriale e commerciale, Piazza San Sepolcro, Confederazione Generale del Lavoro, Popolo d’Italia, Partito Nazionale Fascista, Monarchia Sabauda, Grande Guerra, Confindustria, organizzazioni sindacali, Presidenza del Consiglio, Arditi milanesi, 4 Novembre, Aventino, Gran Consiglio del fascismo, Partito dei Contadini, Casa Savoia, referendum, Repubblica Italiana, Ventennio fascista, Collare dell’Ordine dell’Annunziata, Partito Popolare, Partito Comunista, Partito Repubblicano, Partiti Socialisti.