Carlo Curcio
Un maestro della cooperazione internazionale all’insegna dei valori etici e dello spirito europeo

Nella storiografia contemporanea, la maturazione di nuovi giudizi sul Ventennio fascista improntati a una corretta metodologia oggettiva si va estendendo alle rivalutazioni di talune esperienze accademiche e scientifiche importanti, ancora non molto conosciute dalla critica contemporanea, come quella di Carlo Curcio, l’insigne Maestro di storia del pensiero politico[1] secondo cui «il fascismo è strumento di mediazione fra esigenze di conservazione e innovazione della società ad iniziativa dello Stato»[2].

Si tratta di un passo significativo che vale la pena di sottolineare se non altro per un’indagine oggettiva che prenda le opportune distanze dalle «vulgate» tuttora prevalenti. In effetti, per rendere piena giustizia alla figura di Curcio, che fu uomo di cultura e pensatore originale ma sostanzialmente alieno dall’impegno attivo nella complessa esperienza politica dell’epoca in quanto subordinato al momento culturale e storiografico, quel passo deve essere integrato e approfondito alla luce di una lunga e sofferta milizia, sia nel periodo fascista, sia – soprattutto – in quelli successivi, contraddistinti dalla dolorosa nonché ingiusta epurazione e dal successivo nobile «silenzio» accompagnato dall’impegno a tutto campo nella vita accademica e nell’insegnamento. A mezzo secolo dalla scomparsa, avvenuta a Roma nell’estate del 1971, l’attualità del Curcio non si è affievolita: al contrario, ha finito per assumere una valenza etica corroborata dall’impegno umano e civile di un’intera vita spesa al servizio della storia, dell’insegnamento e dei valori non negoziabili.

Franco Ferrarotti, che fu espressione molto importante del Movimento di Comunità ispirato da Adriano Olivetti, e docente di Sociologia applicata nella Facoltà Fiorentina di Scienze politiche tra gli anni Cinquanta e Sessanta, si espresse in termini non meno importanti a proposito del vecchio collega, quando intervenne al Convegno tenutosi nel 2003 in sua memoria, mettendo in luce come Curcio avesse rifiutato gli onori del regime dando la preferenza a un profilo di carattere scientifico, tale da rendere a più forte ragione iniquo il vecchio provvedimento di epurazione.

Curcio aveva scritto il saggio per la voce «Rivoluzione fascista» del Dizionario di politica ma aveva interpretato lo Stato «nuovo» alla stregua di un ritorno al migliore Risorgimento, nella realizzazione dei suoi ideali socialmente più avanzati e nella contestuale negazione di collettivismo marxista e individualismo libertario: due «fedi opposte» (per dirla con Croce) che avevano già dimostrato i propri limiti, proponendone il superamento nell’ambito di un autentico idealismo assoluto. Non erano certamente «colpe» imperdonabili, tanto più che si coniugavano con l’apprezzamento per i valori non negoziabili della tradizione, a cominciare da quello della famiglia, vista come «perno» della società e quindi come istituto da valorizzare con la tutela della maternità, dell’infanzia e delle strutture rurali.

Altrettanto si può dire per la critica ragionata di «miti politici» quali la fratellanza, l’uguaglianza e la stessa sovranità popolare, che in mancanza di un’educazione d’impronta mazziniana possono permettere a facili demagogie di mobilitare le masse e di governarle sfruttando il sentimento se non addirittura il qualunquismo, invece di valorizzare la ragione. In effetti, si tratta di valutazioni che nei disastri del 1943 e in quelli ancora più drammatici del 1945 non sembrarono avere diritto di cittadinanza, ma che in tempi successivi si sarebbero proposte con rinnovata forza nelle riflessioni più mature e meno emozionali.

Del resto, sin dal Ventennio Carlo Curcio aveva posto le basi della sua lunga e approfondita meditazione sull’Europa quale realtà di consolidate convergenze cristiane, che sarebbe proseguita con attenzioni prioritarie negli anni Cinquanta, cominciando a sviluppare un’idea «europeista» di sicuri riferimenti etici, spirituali e culturali, laddove quelli istituzionali ed economici avrebbero potuto e dovuto costituire un semplice corollario, sebbene di significative proiezioni nella cooperazione industriale e finanziaria. Per qualche tempo, i fatti sembrarono dargli ragione, vista la diffusione di un nuovo idealismo etico ben oltre i confini nazionali; poi, sarebbe subentrata la «ferocia ferina» che impediva agli uomini di «ragionare con mente pura», secondo la celebre concezione di Giambattista Vico, non a caso fra i pensatori più vicini a Curcio unitamente a Machiavelli, il Segretario Fiorentino che non aveva mai sostenuto, come ben chiarito dal Maestro, la giustificazione del mezzo per raggiungere il fine, ma la priorità di un obiettivo di alta valenza civile come la «salvezza» dello Stato nell’ambito di una politica che ormai non doveva e non poteva essere subordinata alla vecchia morale, bensì alla nuova etica pubblica.

In conformità alla teoria ciclica del Vico, quella tragedia primordiale sarebbe stata superata, a costo di tante sofferenze, dalla maturazione collettiva di un «animo perturbato e commosso» e infine, dal pur difficile e complesso recupero della ragione: un percorso talvolta arduo, che Curcio avrebbe consapevolmente e responsabilmente condiviso.


Valori della cooperazione

L’eurocentrismo hegeliano che aveva promosso la teoria di una concentrazione elitaria della civiltà negli Stati del Vecchio Continente, lasciando agli altri le scorie di una diffusa barbarie, non aveva trovato seguito tangibile nel pensiero del Curcio, che anzi fu convinto assertore di una ben intesa cooperazione. Sincero estimatore di uomini come Léopold Senghor o Fehrat Abbas, vessilliferi delle nuove nazionalità sia nell’Africa Equatoriale (Senegal) che in quella Mediterranea (Algeria), aveva compreso che il colonialismo non era in grado di coesistere con le attese di indipendenza e di libertà, in fase di maturazione dovunque: se Napoleone aveva diffuso in Europa, verosimilmente suo malgrado, i principi dell’Ottantanove, alle potenze coloniali stava accadendo qualcosa di simile nonostante una pervicace resistenza, in specie delle maggiori.

Curcio era fermamente convinto della necessità ormai ineludibile di una cooperazione intelligente nell’interesse comune, e in primo luogo in quello europeo; ma soprattutto del suo carattere prioritariamente etico. Nelle ricostruzioni postume del suo pensiero questi aspetti sono stati piuttosto trascurati[3], ma non ebbero importanza subordinata a quelli concernenti la storia delle idee: al contrario, ne costituirono un momento di efficaci e pertinenti deduzioni. Fra gli esempi concernenti l’esperienza italiana si possono citare gli approfondimenti sul decennio di amministrazione fiduciaria della Somalia che parve attualizzare i vecchi tentativi di sviluppare l’agricoltura coloniale come quelli che avevano caratterizzato sin dalla fine dell’Ottocento le opere di Ferdinando Martini e soprattutto di Leopoldo Franchetti, che aveva sperimentato sul campo i principi di un’effettiva colonizzazione agricola in chiave di sviluppo sociale traendo spunto dal pensiero di Pasquale Stanislao Mancini, se non anche dal primigenio umanitarismo di Guglielmo Massaja.

L’idea d’Europa che Curcio aveva sviluppato, in quanto collegata a istituzioni fondate prioritariamente su valori etici e spirituali, doveva e poteva essere diffusa anche altrove, in un quadro coerente di sviluppo, e non certo come fatalistica conseguenza. In questo senso, un ruolo importante era stato esercitato anche dai missionari, a cominciare dallo stesso Massaja, ma si era trattato di un passaggio storico destinato a cedere il campo in favore di una più avanzata consapevolezza critica delle nuove nazionalità che avrebbero sostituito irreversibilmente le approssimative aggregazioni geografiche dei vecchi Stati tribali.

Ciò non significa che Curcio non fosse consapevole dei ritardi che la cosiddetta «colonizzazione interna» aveva accumulato in Italia, con particolare riguardo al Mezzogiorno (basti pensare ai suoi studi su Pasquale Turiello e sul meridionalismo più idoneo a coniugarsi con un ruolo attivo dell’esperienza coloniale); e quindi, della necessità di «contemperare» gli sforzi della politica africanista con gli investimenti a favore dello sviluppo domestico. Nondimeno, non si nascondeva che l’emigrazione aveva raggiunto, in specie nel primo anteguerra, caratteri e dimensioni inaccettabili: di qui, l’opportunità di soluzioni coloniali che all’atto pratico (prescindendo dagli amari ricordi di Dogali, Macallè, Sciara Sciat e soprattutto di Adua) avrebbero manifestato limiti condizionanti, e delle diverse opzioni che il fascismo avrebbe fatto proprie con i grandi lavori interni e con le sue 147 «città di fondazione» dal Lazio alle Puglie, o dalla Sardegna alla Venezia Giulia (di cui alla pertinente opera di Antonio Pennacchi).

In qualche misura, Curcio aveva intuito che la globalizzazione avrebbe reso il mondo sempre più piccolo. Non a caso, nelle sue meditazioni amava parlare di Eurafrica o di Eurasia, dando suggestive configurazioni attuali a vecchi miti e sottolineando anche per questi aspetti il carattere ineludibile dell’integrazione. Si rendeva conto, naturalmente, dell’utopia di certi auspici geopolitici in un sistema politico contraddistinto da confronti duri e talvolta spietati, ma questa consapevolezza lo esortava, a più forte ragione, a innalzare la bandiera dell’ethos e a coltivare un disegno di cooperazione che senza indulgere al sogno messianico di una Repubblica Universale come quello di Padre Ernesto Balducci avrebbe potuto trovare nei valori della nazionalità, e conseguentemente dello Stato, un modello di riscatto non effimero e di autentico progresso civile.


Per un’Europa dell’ethos

La coltivazione dell’idea comunitaria fu motivo costante nella riflessione di Carlo Curcio, e in qualche misura, il «principium individuationis» del suo pensiero, ma non si deve presumere che ciò abbia avuto luogo in un quadro formale. Al contrario, la «simpatia» per l’Europa, anzitutto in senso etimologico, gli derivava dalla certezza di potervi trovare, da Lisbona a Varsavia come da Roma a Stoccolma, la condivisione di valori essenziali, tale da farne, ben prima di quella giuridica o politica, una vera e propria unità etica con radici fondanti in quella «Res Publica Christiana» che oggi, paradossalmente, Bruxelles sembra voler negare in ossequio a un malinteso cosmopolitismo.

Questa concezione europeista in senso umano e «lato sensu» religioso poteva coniugarsi bene con le attenzioni per le «piccole patrie» e in primo luogo per l’Italia, sia quando parve essere vessillifera di un nuovo sogno di unità nel segno dello Stato, sia quando le sorti della guerra del «sangue contro l’oro» cominciarono a volgere al peggio: appartiene al 1943, poco prima della caduta del fascismo e del triste processo di epurazione a carico del Curcio, il suo scritto sulla Dalmazia, pervaso da una lucida consapevolezza della sua «breve» italianità compromessa dagli eventi: com’è noto, la stessa Zara sarebbe caduta dopo un anno, pagando un altissimo contributo di sangue a 54 bombardamenti degli Alleati privi di qualsiasi valenza strategica, per non parlare di tutte le vittime giuliane, istriane e dalmate scomparse nelle foibe o altrimenti massacrate dai partigiani di Tito.

Nella speculazione di Curcio l’Europa non costituisce un valore quale espressione geografica, ma in quanto culla di un comune sentire e di un comune riconoscersi nei valori fondanti di un’antica civiltà, consapevole dei suoi caratteri non negoziabili e della necessità di promuoverne la diffusione oltre i suoi stessi confini, ma nello stesso tempo, di tutelarsi nei confronti di false suggestioni d’importazione, con particolare e specifico riguardo a quelle di natura materialista. Si tratta di pensieri chiaramente attuali in una stagione come l’inizio del nuovo millennio, in cui il consumismo, se non anche il nichilismo, hanno acquisito la «facies» di nuovi padroni.

L’Europa di Carlo Curcio è un faro di civiltà, non certo perché debba farsi promotrice di conquiste ma perché la sua cultura cristiana, arricchita dall’umanesimo e dall’illuminismo, è pur sempre forgiata dall’ideale etico di una realtà statuale superiore, intesa come momento di cooperazione e quindi, di un progresso basato sul riconoscimento di libertà individuali subordinate a quella di tutti. In questa ottica, e non già nelle dottrine liberiste, vanno affrontati e risolti i problemi tuttora in essere, come quello del Mezzogiorno Italiano.

Laddove si consideri l’odierna «realtà effettuale» non sembra che gli auspici del Curcio vi abbiano trovato il conforto di ampie realizzazioni: quella contemporanea è soprattutto un’Europa di burocrazie e di sacrifici imposti ai suoi popoli dalla tecnocrazia economica, e nello stesso tempo, un’istituzione incapace, per scelta dichiarata degli Stati membri, di un riferimento specifico a valori comuni, iniziando da quelli cristiani.

Nondimeno, ciò non vuol dire che quegli auspici debbano considerarsi obsoleti: al contrario, ne traggono nuovi motivi di validità e di obiettiva condivisione. È passato oltre mezzo secolo da quando il Maestro promosse la fondazione di «Europa», una delle sue riviste più qualificanti, in cui il mito si faceva realtà e diventava prassi, ma gli ideali che intendeva promuovere restano ineludibili, al pari delle «alte non scritte e inconcusse leggi» cantate da Sofocle e riproposte da Curcio negli ottimi studi sul pensiero politico greco, ma prima ancora, in tutta una vita coerentemente e degnamente spesa al servizio dell’Idea.


Note

1 Carlo Curcio (Napoli 1898-Roma 1971), volontario nella Prima Guerra Mondiale dove fu combattente sul Piave forgiando in maniera definitiva il suo nobile patriottismo, è stato tra i massimi esponenti della cultura idealistica del Novecento, con particolare riguardo alle sue espressioni nel mondo universitario e in quello filosofico e giornalistico. Incaricato di Storia delle dottrine politiche sin dal 1928, quando era appena trentenne, fu professore ordinario di tale disciplina all’Ateneo di Perugia a decorrere dal 1934, e quattro anni dopo ne fu nominato Rettore, carica che mantenne sino al 1943. Dopo la caduta del fascismo ebbe la triste ventura di essere sottoposto a processo di epurazione e rimosso dagli incarichi accademici per esservi reintegrato nel 1950, quando la cattedra di Storia delle dottrine politiche gli venne affidata dalla prestigiosa Facoltà «Cesare Alfieri» dell’Università di Firenze, dove più tardi avrebbe assunto anche quella di Storia e Legislazione coloniale, mantenendole sino al 1969 quando si sarebbe ritirato dall’insegnamento per limiti di età. Alla fine degli anni Cinquanta diede alle stampe la sua opera più importante (Europa: storia di un’idea, Edizioni Vallecchi, Firenze 1958, 476 pagine) che fu ripubblicata postuma nel 1978, e almeno parzialmente anche a quasi mezzo secolo dalla scomparsa del Maestro (L’idea di Europa tra Ottocento e Novecento, Bolzoni Editore, Roma 2017, 180 pagine). Con Nino Tripodi, Dino Grammatico e Gaetano Rasi, sempre nel 1958, Curcio sarebbe stato fondatore dell’Istituto Nazionale di Studi Politici ed Economici, che si avvalse, tra gli altri, di contributi insigni come quelli di Gioacchino Volpe, Ardengo Soffici, Giorgio Del Vecchio, Giotto Dainelli e Piero Operti. In tale ambito, ebbe un ruolo essenziale nel Convegno che l’Istituto tenne a Firenze nel 1960, con un’importante prolusione dedicata all’insegnamento della storia nella formazione dei giovani. La bibliografia delle opere di Carlo Curcio è quasi sterminata: secondo la ricerca «ad hoc» compiuta da Sandro Ciurlia in occasione del Convegno organizzato dall’Istituto «Luigi Sturzo» nel 2003 per onorarne la memoria, sono almeno 400 i contributi del Curcio alla ricerca storica e a quelle affini – senza contare le recensioni – muovendo dal primo, dedicato a Botticelli, Ariosto e Montaigne (1921) per finire all’ultimo che fu un ricordo affettuoso per la scomparsa di Giuseppe Maranini (1969), l’insigne costituzionalista e Preside della Facoltà «Cesare Alfieri». Tra le altre opere di maggiore rilievo storiografico conviene aggiungere quella dedicata al predetto Istituto universitario, quello cui fu più lungamente e affettivamente legato (Carlo Alfieri e le origini della scuola fiorentina di Scienze politiche, Giuffrè, Milano 1963, 147 pagine); e la silloge che si richiama ad aspetti più impegnativi sul piano politico come quelli connessi alla realizzazione dell’Unità Italiana quale «esigenza e riscatto dello spirito rivoluzionario» dopo una vicenda pluridecennale sostanzialmente agnostica e «senza fede» (L’eredità del Risorgimento, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1931, 116 pagine).

2 Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), Società Editrice Il Mulino, Bologna 2011, pagina 401. La citazione è riportata da un’opera giovanile del Curcio (L’esperienza liberale del fascismo) edita a Napoli nel 1924, quando l’evoluzione istituzionale del regime in senso autoritario era ancora in corso: in effetti, si sarebbe ampliata per gradi, senza mai completarsi del tutto, se non altro per la «convivenza» con la Monarchia. Nella medesima ottica, riferita a una concezione del fascismo come prassi politica che scaturisce da matrici ideali, il Gentile colloca un altro illustre docente della Facoltà Fiorentina di Scienze politiche: Camillo Pellizzi, ordinario di Sociologia fino agli anni Sessanta, il quale aveva sostenuto già dalle prime pagine di «Gerarchia» (1922) che il fascismo è «soprattutto vita» ma aveva respinto, nello stesso tempo, la tesi della sua presunta inconciliabilità «con una concezione filosofica» (Ibidem, pagina 410). In precedenza, aveva dedicato pagine di acute riflessioni agli «Spiriti della Vigilia» quale espressione di esigenze ormai insopprimibili, a cominciare – ancora una volta – dal riscatto etico inteso come completamento di un arduo percorso unitario dello Stato.

3 L’insegnamento proposto da Carlo Curcio quale titolare della cattedra di Storia e Legislazione coloniale (che poi avrebbe assunto il nome di Storia ed Istituzioni dei Paesi Afro-Asiatici in omaggio alle nuove realtà degli Stati indipendenti) non fu meno significativo di quello concernente le Dottrine politiche, sebbene più circoscritto, perché il piano di studi della Facoltà prevedeva l’obbligatorietà vincolante della disciplina limitatamente all’indirizzo diplomatico e consolare. Nondimeno, la sua opera specifica, edita a cura dell’Università di Firenze (Carlo Curcio, Corso di Storia e Legislazione coloniale, Facoltà di Scienze politiche e sociali «Cesare Alfieri» – Anno Accademico 1954-1955, 304 pagine), conserva tuttora un alto valore storiografico e istituzionale per le costanti correlazioni con l’evoluzione del pensiero politico e con quella degli orientamenti giuridici internazionali, e non da ultimo per l’eccezionale ampiezza della bibliografia.

(settembre 2020)

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