La breve vita del Sacrario posto nella Basilica Fiorentina di Santa Croce per i caduti del primo fascismo (1934-1946)
Dall’altare alla polvere

Il Sacrario realizzato nella cripta sottostante la Basilica Fiorentina di Santa Croce, dedicato a 37 «Martiri fascisti» della prima ora, fu inaugurato nell’ormai lontano 1934, in concomitanza col XII anniversario della Marcia su Roma (28 ottobre 1922). L’iniziativa aveva avuto lo scopo di onorare la memoria di altrettanti caduti durante il periodo antecedente la conquista del potere da parte delle squadre guidate da Benito Mussolini e dai cosiddetti quadrumviri (Italo Balbo, Michele Bianchi, Emilio De Bono, Cesare Maria De Vecchi), quando il confronto con le altre forze politiche, con particolare riferimento a quelle di sinistra, non era stato immune da scontri di estrema violenza, e da conseguenze tragiche per entrambe le parti.

Sull’argomento, esiste una bibliografia piuttosto cospicua, in specie per quanto riguarda le fonti locali. Molti dettagli sui fatti occorsi a Firenze in detta epoca sono disponibili nel volume di Roberto Cantagalli (Storia del fascismo fiorentino dal 1919 al 1925, Vallecchi Editore, Firenze 1972, 450 pagine), d’impostazione progressista. Dal canto loro, quelli concernenti la vicenda del Sacrario, sino alla violenta catarsi dell’immediato dopoguerra, sono trattati esaurientemente nel più recente saggio di Alessandra Staderini, La Marcia dei Martiri: la traslazione nella Cripta di Santa Croce dei caduti fascisti, in «Annali di Storia di Firenze», volume terzo, University Press, Firenze 2008, pagine 195-211 (maggiormente oggettivo, ora disponibile anche in Internet).

L’inaugurazione ebbe luogo il 27 ottobre, alla vigilia delle celebrazioni per la Marcia: è interessante leggere le cronache del tempo, se non altro per vivere l’atmosfera di quella che, comunque si voglia considerarla, fu una giornata memorabile anche per l’enorme concorso di folla durante la traslazione dal Duomo a Santa Croce, presente il Cardinale Elia Dalla Costa che benedisse i feretri (e poi sarebbe stato criticato per averlo fatto). Le spoglie furono recuperate in vari camposanti per sfilare davanti a Mussolini che pronunziò un breve discorso con accenti spiccatamente evocativi: da quel momento, le Arche avrebbero potuto contare sulla costante presenza di una Guardia d’onore, assicurata da reparti di «Giovani Fascisti».

Nella sensibilità popolare, particolare attenzione sarebbe stata attirata, fra le tante, sulla storia di Giovanni Berta, assalito e massacrato dai «rossi» nel 1921 facendolo precipitare in Arno dal Ponte della Vittoria, non senza un crudele pestaggio ai bordi della spalletta (le fonti di sinistra divergono parzialmente perché sostengono che il giovane fascista si sarebbe gettato nel fiume di sua iniziativa confidando nelle proprie doti di nuotatore, onde sfuggire agli inseguitori armati, ma la realtà resta quella di un assassinio). In ogni caso, il Sacrario divenne un luogo di culto, tanto da ospitare la principale manifestazione fiorentina nella giornata dedicata alla «raccolta dell’oro per la Patria» (18 dicembre 1935) a seguito delle sanzioni imposte dalla Società delle Nazioni per la guerra contro l’Etiopia; e tanto che tre anni dopo, in occasione dell’incontro di Stato italo-tedesco, fu oggetto di un omaggio congiunto reso al Sacrario da Adolf Hitler e dallo stesso Mussolini.

A prescindere dalle vicende personali e da quelle di politica internazionale, ciò che oggi può maggiormente interessare è la fine che hanno fatto le Arche di pietra poste nella cripta di Santa Croce: una catarsi scontata, se non altro alla luce del significato politicamente simbolico, e quindi ostentatamente trionfalistico, che avevano finito per assumere nello scorcio del Ventennio, e che doveva essere «esorcizzato» dalla nuova Italia democratica uscita dalla Seconda Guerra Mondiale e dalla Resistenza.

In proposito, è sufficiente rammentare che a guerra finita il complesso fu smantellato con una procedura sostanzialmente iconoclastica, mentre le Arche ebbero in sorte di essere svendute per poche migliaia di lire a un artigiano del marmo operante nell’arte funeraria, che fece un buon affare col patto di utilizzare il materiale previa cancellazione dei simboli fascisti. Quanto alle spoglie, furono trasferite «in gran segreto» in altri cimiteri fiorentini: sul posto, invece, è rimasta soltanto una targa in ricordo del filosofo Giovanni Gentile, Ministro dell’Educazione Nazionale nel primo Governo Mussolini, ucciso dai partigiani gappisti in un attentato del novembre 1944 (ma questa è un’altra storia).

La vicenda delle Arche di Santa Croce, a quasi 90 anni dalla decisione di realizzare il Sacrario collocato nella cripta di quella Basilica Fiorentina in cui sono ospitate le grandi Glorie italiche, appartiene al novero dei fatti che fanno riflettere, e non solo per la brevità della loro presenza in luogo dei tempi «eterni» che avrebbero dovuto suffragarne il ruolo simbolico e maieutico. Mai come in detta occasione la profezia del celebre poeta inglese Thomas Gray, secondo cui «le vie della gloria conducono solo alla tomba», ha trovato una conferma tanto icastica, senza dire che – nella fattispecie – hanno portato all’inumazione più anonima e indistinta che si possa immaginare, in luogo della perenne scorta d’onore che era stata attribuita a quei caduti nella ristretta stagione di vita delle Arche.

Nella grande ode di Ugo Foscolo dedicata ai «Sepolcri» si esordisce affermando che «sol chi non lascia eredità d’affetti poca gioia ha dell’urna». Pertanto, si dovrebbe ragionevolmente immaginare che le anime dei caduti espunti dal Mausoleo di Santa Croce abbiano «avvertito» un dolore tanto maggiore, perché – sia consentita l’iperbole fideistica – non c’è nulla di peggio che «ricordarsi del tempo felice nella miseria». D’altro canto, i «Martiri fascisti» erano stati esaltati in modo assoluto, specialmente a Firenze, senza tenere in considerazione le ragioni degli avversari: cosa che in sede storiografica è stata ritenuta concausa non certo ultima della mancanza di «pietas» che ad avvenuto rovesciamento della stagione politica avrebbe dato luogo alla dispersione delle spoglie presenti nelle Arche, e alla distruzione dei loro sarcofaghi marmorei.

Ben diversa, per fare un esempio probante, è stata la sorte delle Arche del Vittoriale in onore dei caduti fiumani della Reggenza Italiana del Carnaro e del Natale di Sangue (1920), anche in occasione di analoghi momenti iconoclastici. Ciò è accaduto, se non altro, perché il Comandante Gabriele d’Annunzio aveva ben compreso le ragioni di tutti col celebre discorso di riconciliazione fra le tombe, all’indomani stesso delle cannonate con cui il Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti aveva «spento» il grido di dolore levatosi dalle sponde del Carnaro e dal suo popolo: non a caso, nell’ultima Arca ha trovato degno riposo (2020) la spoglia di Riccardo Gigante, ultimo Sindaco di Fiume Italiana, a tre quarti di secolo dall’estremo sacrificio per opera dei massacratori slavi.

Il clima che aveva contraddistinto il sanguinoso tramonto del fascismo fu decisivo anche per il destino delle Arche di Santa Croce. Ciò, con particolare riguardo proprio a quello di Firenze, dove pesava il ricordo dei primi anni Venti, e dove si era appena avuta, soprattutto, l’azione dei franchi tiratori che si erano battuti dai tetti per ostacolare l’avanzata degli Alleati, e prima ancora, l’insurrezione partigiana, e che in buona parte – secondo la narrazione di Curzio Malaparte in una cruda pagina di cronaca locale – furono passati per le armi in Piazza della Signoria o sul sagrato di Santa Maria Novella. In realtà, la maggioranza del popolo era rimasta su posizioni attendiste nel comprensibile intento prioritario di uscirne a salvamento, iterando la nota sorte machiavelliana delle genti «oggetto» di storia, ma le forze italiane in campo obbedirono alla ferrea legge della guerra civile, e quindi totale, le cui conseguenze ultime si sono visibilmente protratte fino ai nostri giorni, rinviando a tempi successivi l’avvento di una memoria oggettiva.

Per citare un altro giudizio poetico, si potrebbe ricordare anche quello di Dante, a proposito di un «ingrato popolo maligno che discese da Fiesole ab antico». Per l’appunto, il popolo di Firenze, che avrebbe condannato il divino Poeta alla pena capitale cui il grande Esule ebbe la possibilità di sfuggire soltanto facendosi carico della fuga a vita, e del «duro calle di scendere e salir per l’altrui scale». A questo punto, chiudendo con un’ultima digressione poetica, sarebbe auspicabile mutuare dalla canzone All’Italia di Francesco Petrarca l’invito a «porre giù l’odio e lo sdegno, venti contrari alla vita serena», in favore di «qualche bella lode» e di «qualche onesto studio», se non fosse chiaro ed evidente, come attestano storie plurisecolari, o meglio plurimillenarie, che l’uomo, pur con varie nobili eccezioni, resta «homini lupus». E che in tali condizioni rimane tragicamente vero l’assunto di chi aveva intuito la triste attualità di un’affermazione tanto sintetica quanto realistica: «Si vis pacem, para bellum». Magari, con una considerazione più razionale delle ragioni in campo e delle loro motivazioni ultime, e con una consapevolezza meno effimera dell’autentica vocazione umana, che non è quella di «viver come bruti», ma che dovrebbe essere quella di «riflettere con mente pura».

(dicembre 2021)

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