Vincenzo Serrentino
Ultimo Prefetto della Provincia Italiana di Zara: patriota e martire

La storia del confine orientale, con riguardo prioritario a quella degli anni Quaranta, sconvolti da una guerra senza esclusione di colpi, è stata una grande tragedia collettiva in cui si inserisce una miriade di drammi personali e familiari, all’insegna della negazione programmata di ogni principio etico. In questo senso, la vicenda di Vincenzo Serrentino, ultimo Prefetto di Zara Italiana, è degna di essere ricordata a futura memoria, quale esempio di un forte impegno in difesa dello Stato, e della nobiltà di sentimenti con cui seppe affrontare il martirio dopo una lunga permanenza nelle carceri di Tito, in quali condizioni è facile immaginare.

Il Prefetto Serrentino fu passato per le armi a Sebenico il 15 maggio 1947, quando il Scondo Conflitto Mondiale era terminato da oltre due anni. Diversamente da tante altre vittime di quello che Italo Gabrielli ha lucidamente definito «genocidio programmato»[1], fu costretto a subire un angoscioso e lungo «iter» processuale per consentire al Governo di Belgrado di mettere in luce, tenuto conto dell’alto livello politico – e quindi anche simbolico – dell’uomo di Stato e patriota, la volontà di giudicarlo alla stregua di un tardivo «fumus juris» che era già stato abbondantemente azzerato da foibe, deportazioni indiscriminate e sevizie di ogni genere. Non a caso, la condanna capitale di Serrentino, decisa a priori, fu confermata dal processo di secondo grado col solo risultato di allungare i tempi di una detenzione di per sé allucinante.

Vincenzo, nato a Rosolini nel 1897, era un ufficiale uscito dall’Accademia Militare di Modena, che aveva servito con onore nella Grande Guerra sul fronte del Grappa, per essere destinato in Dalmazia nel 1919 con le truppe di occupazione. Poi, aveva abbracciato la causa di Fiume quale Legionario Dannunziano durante la gloriosa pagina della Reggenza Italiana del Carnaro, con una scelta di campo che avrebbe puntualmente e fortemente integrato, un quarto di secolo più tardi, le accuse rivolte contro di lui dalla «giustizia» slava.

Serrentino aveva trovato a Zara una nuova patria d’adozione, dove costituì una bella famiglia e divenne Dalmata a pieno titolo, operando nel movimento sindacale, e poi nelle istituzioni e nel pubblico servizio. Dopo lo scoppio della guerra con la Jugoslavia a seguito del colpo di Stato compiuto a Belgrado nella primavera del 1941, con cui Re Pietro aveva cambiato campo a favore degli Alleati, fu chiamato a far parte del Tribunale Speciale nell’ambito del Governatorato per la Dalmazia, e nominato Prefetto di Zara[2] da parte della Repubblica Sociale Italiana, a far tempo dal novembre 1943.

Nel capoluogo dalmata, fedele all’impegno assunto col suo Governo ma prima ancora con la propria coscienza, Serrentino rimase con pochi fedeli collaboratori sino all’ultimo, vale a dire sino al 30 ottobre dell’anno successivo, quando ricevette l’ordine di ripiegare su Trieste, dove fu catturato ai primi di maggio del 1945 dalle truppe del Maresciallo Tito che avevano invaso la città di San Giusto. In quel momento, iniziava l’ultima avventura destinata a chiudersi tragicamente davanti al plotone d’esecuzione, e senza tomba.

Durante la presenza alla guida della Prefettura, Vincenzo Serrentino fu chiamato a gestire un’esperienza particolarmente dolorosa come quella dei bombardamenti alleati che distrussero gran parte della città provocando un altissimo numero di vittime, quale effetto delle «raccomandazioni» formulate dallo stesso Tito all’aviazione alleata, nonostante la documentata assenza d’importanti obiettivi strategici: era un disegno perverso, finalizzato a cancellare Zara Italiana. Non a caso, i bombardamenti terroristici sul capoluogo dalmata raggiunsero l’allucinante cifra di 54, facendone un ammasso di rovine.

Il Prefetto non mancò di prodigarsi in una drammatica e multiforme attività, in condizioni rese oggettivamente più ardue non soltanto dai bombardamenti, ma anche dalle difficoltà di contatti con la madrepatria, che seppe comunque assicurare tramite la Prefettura di Trieste diretta da Bruno Coceani[3], e dai rapporti non certo ottimali con la Wehrmacht, i cui vertici, dopo l’armistizio dell’8 settembre, consideravano gli Italiani alla stregua di «spergiuri». In effetti, se Zara non fu annessa allo Stato Filo-Tedesco e ultra-nazionalista di Ante Pavelic, fu per l’opera di «fermezza del Serrentino e dei suoi collaboratori» che si distinsero anche negli «sforzi per alleviare le sofferenze morali e materiali degli Zaratini»[4].

In tempi di emergenza, la cultura dell’azione prende necessariamente il sopravvento su quella del pensiero, pur essendo supportata, come nel caso del Prefetto di Zara, da forti convinzioni etiche e politiche maturate durante le esperienze decisive del Grappa e della Reggenza Italiana di Fiume. Ciò accadde con tutta evidenza nel momento in cui Serrentino fu chiamato a risolvere problemi drammatici di approvvigionamento alimentare, di comunicazioni e di difesa antiaerea, per non citare che i maggiori. Basti aggiungere che la sede della Prefettura, distrutta dalle bombe, fu posta «in una casa di contadini a Borgo Casali»[5], con ovvi limiti di agibilità e di funzionalità.

Al momento dell’esecuzione, il Prefetto espresse al Cappellano che lo assisteva un ultimo, nobile desiderio: quello di essere sepolto nel Cimitero Militare di Zara, accanto ai «suoi» soldati, unico luogo in cui avrebbe potuto «trovare riposo». Naturalmente, non fu esaudito, con un ultimo oltraggio completato dall’offesa che ha precluso l’identificazione delle spoglie mortali sepolte a Sebenico in luogo non identificato, e dai giudizi della «vulgata» secondo cui «l’ultimo Prefetto di Zara fu un criminale di guerra distintosi in Dalmazia per le sue azioni sanguinarie», quale espressione del «Tribunale Speciale, che serviva a dare copertura giuridica alle azioni antipartigiane»[6].

Non vale la pena di soffermarsi su tale interpretazione delle leggi vigenti, anche in tema di rappresaglia, codificata nel diritto internazionale di guerra a carico di forze clandestine e responsabili di atti di terrorismo, anche se l’occasione è congrua per mettere in luce come sia proprio la guerra a dover essere preclusa in anticipo (se non anche «ripudiata» come da successiva declaratoria costituzionale italiana) quale strumento per la soluzione delle controversie internazionali, in un’ottica di matura cooperazione.

Caso mai, può essere utile ricordare come la Jugoslavia, tra i 21 Stati «vincitori» del 1945, sia stata quello che chiese all’Italia l’estradizione di un numero massimo di «criminali di guerra» o presunti tali, di gran lunga superiore a quello di tutti gli altri belligeranti, cosa che la dice lunga sulle reali intenzioni dei negoziatori di Belgrado e suffraga la decisione governativa di non dare seguito alla richiesta[7]. Il Prefetto Serrentino, in tale ottica, fu una vittima predestinata e programmata, oltre che nobilmente consapevole[8], da parte di un sistema che aveva già chiarito il suo vero volto ispirato al disegno del genocidio: una tragica realtà ammessa in tempi più recenti, senza mezzi termini, da massimi luogotenenti di Tito, quali Edvard Kardelj e Milovan Gilas.

Serrentino fa parte a buon diritto degli «ultimi» difensori di Venezia Giulia e Dalmazia, assieme a uomini della statura di Stefano Petris, il non dimenticato eroe di Cherso Italiana che volle affidare al frontespizio della sua Imitazione di Cristo il vibrante testamento spirituale scritto alla vigilia della fucilazione; o di Giovanni Palatucci, che si sarebbe distinto a Fiume, nella sua qualità di Questore reggente, come artefice della salvezza di tanti innocenti a costo della deportazione da parte nazista e della vita, col riconoscimento postumo – dopo la morte a Dachau – di «Giusto fra le Nazioni». Quella di Serrentino è una pagina relativamente meno nota perché i suoi meriti di combattente, di Legionario e di Prefetto furono azzerati in maniera strumentale dalle accuse jugoslave e dall’appiattimento italiano su posizioni subordinate, o meglio, pedissequamente asservite all’iniquità.

A più forte ragione, compiuti i tre quarti di secolo dalla scomparsa per mano assassina, competono al patriota siciliano e dalmata di adozione, gli onori che si devono a chi ha servito lo Stato e la Patria, nella buona e nella cattiva fortuna, costituendo un esempio tanto più importante nell’attuale crisi dei «Valori non negoziabili» e nell’impegno comune per ritrovare

Note

1 Italo Gabrielli, Istria Fiume Dalmazia: Diritti negati – Genocidio programmato, seconda edizione, Luglio Editore, Trieste 2018, 168 pagine. L’opera, percorrendo due secoli di storia politica giuliana e dalmata in parallelo all’evoluzione dei grandi principi di diritto naturale e positivo, regolarmente ignorati nella fattispecie, costituisce un’importante novità dal punto di vista metodologico e colma una lacuna significativa, non solo in campo storiografico.

2 Ajmone Finestra, Dal fronte jugoslavo alla Val d’Ossola: cronache di guerriglia e di guerra civile, Gruppo Editoriale Mursia, Milano 1995, 296 pagine. L’Autore, noto nel mondo politico per i suoi mandati di Senatore della Repubblica, Consigliere Regionale del Lazio e Sindaco di Latina, conobbe personalmente il Prefetto Serrentino ed ebbe modo di apprezzarne il «carattere mite e generoso» e il «temperamento di volitiva fermezza»: giudizi importanti, in specie a fronte delle accuse senza fondamento che gli furono mosse, non soltanto da parte jugoslava.

3 Ajmone Finestra, Dal fronte jugoslavo alla Val d’Ossola: cronache di guerriglia e di guerra civile, Gruppo Editoriale Mursia, Milano 1995, pagina 178. Come da testimonianza dello stesso Finestra, «i contatti e la corrispondenza intercorsi tra il Prefetto di Zara e il Governo della Repubblica Sociale Italiana» costituiscono un attestato di rilievo per la ricostruzione di eventi tanto più complessi in quanto «i partigiani di Tito rimanevano nemici, anche se il cambiamento di fronte poneva l’Italia nella posizione di loro alleata»: uno dei tanti paradossi di quel periodo storico.

4 Ajmone Finestra, Dal fronte jugoslavo alla Val d’Ossola: cronache di guerriglia e di guerra civile, Gruppo Editoriale Mursia, Milano 1995, pagina 179. Tra i maggiori supporti che il Prefetto ebbe nella circostanza in questione, vanno ricordati quelli di Bruno Coceani e del Segretario di Benito Mussolini presso il Governo di Salò, Giovanni Dolfin, ma soprattutto, quelli di «Arditi, Artiglieri, Carabinieri e Finanzieri» schierati nell’ultima difesa di Zara.

5 Giorgio Pisanò, Storia della guerra civile in Italia, Edizioni FPE, Milano 1966, volume III, pagina 1.348. Si tratta di un testo illuminante circa la situazione di Zara nell’ultimo periodo bellico, e l’opera del Prefetto Serrentino, rimasto nella sostanza delle cose «il solo a infondere coraggio alla popolazione terrorizzata dagli inumani bombardamenti».

6 Joze Pirjevec, Foibe: una storia d’Italia, Einaudi, Torino 2009, pagina 230. La tesi, suffragata da altri riferimenti come quelli a Costantino Di Sante e Claudia Cernigoi, si inquadra in una confutazione strumentale e obiettivamente opinabile della Legge 30 marzo 2004 numero 92 che ha istituito il «Giorno del Ricordo» per i caduti delle foibe, o diversamente massacrati nella pulizia etnica degli anni Quaranta. Fra le contestazioni rivolte a Serrentino, anche in tempi largamente successivi al conferimento dell’onorificenza «ad memoriam», c’è quella di aver creato un Tribunale Speciale «volante» in grado di operare dovunque con la necessaria tempestività: in realtà, l’uso del mezzo aereo era imposto dall’ampiezza del territorio e dalle difficoltà di comunicazioni rese sempre più precarie dalla guerriglia. Sta di fatto che le accuse della «vulgata», ivi comprese quelle di avere istruito processi a carico di partigiani, chiusi con una quarantina di condanne capitali, e di avere ottenuto, ai sensi della predetta Legge, un riconoscimento non dovuto, non sono oggettivamente suffragate da riferimenti conformi a una corretta metodologia storica (i processi rientravano nelle tristi competenze indotte dall’emergenza bellica, e l’onorificenza, concessa dopo l’istruttoria di rito, fu consegnata dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 10 febbraio 2007, durante la celebrazione del «Giorno del Ricordo» ai massimi livelli istituzionali).

7 Costantino Di Sante (a cura di), Italiani senza onore: i crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951), Edizioni Ombre Corte, Verona 2005. La sperequazione tra le richieste jugoslave e quelle degli altri Stati, ivi compresi Albania, Etiopia e Grecia, è semplicemente enorme: in questi ultimi casi, si tratta di cifre che si contano sempre sulle dita delle mani, mentre in quello della Jugoslavia il totale assomma a parecchie centinaia, con un divario difficilmente comprensibile.

8 Nei pochi mesi trascorsi a Trieste fra il rientro da Zara (novembre 1944) e l’arresto da parte delle forze di Tito appena giunte nel capoluogo giuliano (maggio 1945), il Prefetto avrebbe potuto allontanarsi da un contesto caratterizzato dal rapido aumento dei rischi personali. Non volle farlo, in ossequio al suo ruolo di uomo dello Stato e delle istituzioni, e all’impegno d’onore che aveva assunto nei loro confronti.

(marzo 2023)

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