Una specie di lutto
Una teoria della nostalgia in bianco e nero

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Dopo pranzo la conversazione si sposta sul vecchio mercato contadino di Piazza Anfiteatro. Era un mercato bello e frequentato, osserva Giuliana mentre beviamo il caffè ricordando con affetto una di quelle vivaci scene locali ormai spente e sostituite dai supermercati. Mentre lei racconta i suoi ricordi d’infanzia della città natale, Roberto prende un libro fotografico da mostrarmi: una raccolta di fotografie in bianco e nero della città storica di Lucca intitolata Luoghi e volti della Lucca di fine millennio, pubblicata nel 2011 da Pacini Fazzi.

Lucca, la piccola città murata in cui tutti noi viviamo, si trova nella Toscana Centrale, vicino al Mar Tirreno, sul fiume Serchio, a breve distanza dalla sua storica rivale Pisa e a circa 70 chilometri da Firenze.

Quando prendo in mano il libro e riconosco l’immagine di Piazza Bernardini sulla copertina, vengo improvvisamente preso dalla nostalgia, una nostalgia itinerante che attraversa i confini e le epoche, come se stessi visitando una memoria perduta, piangendo un mondo scomparso. E quando sfoglio le prime pagine del libro, che mostrano le fotografie aeree della città, mi sembra di ripartire e di tornare in un luogo che è allo stesso tempo profondamente familiare e completamente estraneo. Le fotografie diventano uno spazio di transito e un luogo di arrivo. La nostalgia è distanza e familiarità allo stesso tempo, sempre entrambe insieme, con un particolare dolore che le lega. Il poeta spagnolo Antonio Machado:

«Dove va questa strada?
Io viaggio, canto,
nella lontananza della strada».

Perché il bianco e nero, in particolare la prima fotografia italiana, evoca un’intensa forma di nostalgia che è assente nella fotografia a colori? Perché guardare le vecchie immagini di un luogo, di un passato appena ricordato in bianco e nero è così avvincente, quasi straziante, che ci si può avvicinare solo con nostalgia?

La storia della fotografia italiana della prima metà del XX secolo è esaustiva, la sua risorsa fotografica è prodigiosa, tanto che qualsiasi Italiano curioso di avere uno sguardo dettagliato sul passato della sua città può ricorrere generosamente agli archivi fotografici locali. Agli albori della fotografia in questo Paese, essa è stata sfruttata innanzitutto come strumento di documentazione della società. Luoghi e volti è costituito da immagini della città di Lucca dalla fine del XIX secolo agli ultimi decenni del XX: le prime risalgono al 1898 e le ultime al 1980, a quasi 100 anni di distanza. La serie di fotografie in bianco e nero è affascinante per la documentazione delle meraviglie architettoniche e della vita pubblica della città: una passeggiata in Via Fillungo o sulle mura, i vivaci mercati contadini nelle piazze, le cerimonie religiose come la processione di Santa Croce e la festa di Santa Zita, gli eventi laici come i concerti sportivi e musicali e i carnevali, eccetera, momenti collettivi che ancora oggi articolano la vita della città di Lucca.

Ancora più affascinanti sono le immagini che offrono uno sguardo struggente su un modo di vivere che ha lottato per sopravvivere alla modernizzazione dell’Italia dagli anni Cinquanta in una società consumistica avanzata. Il mondo dell’artigianato su piccola scala, delle corporazioni, dei contadini – un mondo che sta diventando sempre più arcaico, estinto, mentre l’assalto della tecnologia riconfigura la società e la natura del lavoro. Un’Italia quasi estinta nel mondo reale, ma viva nel silenzio delle fotografie in bianco e nero. Le immagini dei fabbricanti di terracotta e di figurine, delle tessitrici, degli operai delle manifatture di tabacco e dei contadini sono le più struggenti del libro. La loro malinconia è profonda perché sembrano così lontane; sono le più nostalgiche perché la loro assenza implica la scomparsa di un certo modo di vivere, di una cultura che si può ascoltare solo nei racconti dei vecchi; e sotto il loro silenzio c’è un sussulto, un singhiozzo, un lamento.

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Guardare queste immagini è testimoniare come un luogo si sottometta alle distruzioni del tempo. Sebbene la città di Lucca abbia in gran parte conservato con coraggio la propria identità architettonica, ha tuttavia ceduto per alcuni aspetti agli imperativi della modernità. Dietro i cambiamenti strutturali e architettonici che si sono verificati dall’inizio del XX secolo a oggi, c’è un’alterazione non pronunciata della realtà sociale, del nostro modo di vivere e di abitare un luogo. Osservare le prime fotografie di Corso Garibaldi scattate nel 1900 rispetto a quelle scattate rispettivamente nel 1925-1930 e nel 1945-1950 mostra l’evoluzione di una certa zona della città. Corso Garibaldi nel 1900 era ampio, non imponente, un po’ troppo aperto, ospitale per i frequenti incontri indeterminati e le interazioni casuali che permettono un movimento più libero. Osserviamo ora come Corso Garibaldi si sia ristretto nel corso degli anni, il che suggerisce che lo stile di vita è diventato più frenetico, più affollato, utilitaristico, il movimento minimo, non più orientato alle persone ma alle automobili. Come documenti visivi, queste fotografie sono un riassunto delle perdite, delle tradizioni mutilate dalle innovazioni, dell’integrazione scacciata dall’esclusione, del nuovo che vince inevitabilmente sul vecchio.

Le fotografie dei mercati contadini testimoniano la scomparsa delle vecchie abitudini. Una foto di un mercato contadino in Piazza Anfiteatro scattata nel 1955: uomini e donne e cassette di frutta e verdura affollano la piazza; i contadini sono indistinguibili dai clienti stessi. L’angolazione della fotografia fa pensare che sia stata scattata dalla finestra di un palazzo al secondo piano che guarda la piazza. Potrebbe essere una mattina presto di un sabato, per il modo in cui le persone appaiono, la loro postura rilassata; gli uomini hanno le mani nelle tasche laterali, le donne portano le loro borse con impazienza, prendendo tempo mentre chiacchierano accanto a grandi scatole. Dal silenzio dell’immagine si sente il viavai, le voci che contemporaneamente parlano, ridono, si lamentano, negoziano. È un’immagine accurata di un senso di appartenenza comunitario, dove le persone sanno qual è il loro posto, dove tutti dipendono da tutti, produttori e clienti sono in contatto diretto. Oggi, i mercati contadini un tempo vivaci e affollati nelle piazze aperte sono stati in gran parte sostituiti dai centri della grande distribuzione e l’implicazione di questa modernizzazione sulla comunità può essere osservata dietro la fotografia.

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Una volta c’erano i clienti e ora ci sono i consumatori. I clienti possono essere identificati come conoscenti o amici dei produttori o degli agricoltori stessi; li lega un legame organico che rende la transazione commerciale quasi sempre negoziabile. Saper negoziare è una pratica sociale, una sorta di collaborazione che riconosce la dipendenza di entrambe le parti; perché essenzialmente appartengono a un’unica comunità che rende inutile qualsiasi gerarchia. I consumatori non possono essere rivendicati in quanto tali; si pretende che abbiano «sempre ragione»; incontrastati, serviti, distanti dai produttori che sono diventati senza volto e lontani, mentre gli stessi piccoli produttori sono stati per lo più spazzati via a favore di un’agricoltura industriale su larga scala, che sfocia nel supermercato. In questo ordine economico nulla è negoziabile, perché il prezzo è fissato dalla mano invisibile. Sia i produttori che i consumatori sono diventati immobili, passivi, rendendo irrilevante il loro rapporto organico. I produttori obbediscono, i consumatori scelgono tra il prodotto A e il prodotto B che danno l’illusione della scelta. I consumatori, spogliati della loro autonomia e della loro capacità di negoziare, si riducono a essere «consumatori», sottomessi ai dettami del mercato, atomizzati dal loro potere d’acquisto il cui unico valore risiede nella relazione con gli articoli di consumo. La scomparsa della tradizione dei mercati all’aperto priva le generazioni future del significato dell’aggregazione collettiva, dell’interazione diretta con i piccoli commercianti e produttori, della pratica sociale della negoziazione che crea intimità tra clienti e produttori, tutto ciò che afferma e conferma il senso comunitario di appartenenza.

Più guardo queste immagini e più mi sembra di leggere una lettera d’amore di uno sconosciuto di tanto tempo fa, i cui ricordi sono rimasti a lungo sepolti nella mia mente e che improvvisamente si ripresentano dopo anni con intensità e desiderio. Ricordo i versi di una particolare poesia della grande poetessa russa Marina Tsevetaeva:

«Nessuno ha mai fissato più
teneramente o più fissamente su di te...
Ti bacio – attraverso centinaia di
anni di separazione».

Ma perché la nostalgia per un luogo alla cui geografia non appartengo? la cui storia mi è estranea? la cui gente non è la mia gente?

C’è una qualità estetica nella prima fotografia italiana in bianco e nero che riconfigura l’esperienza dello sguardo, come se guardare fosse recuperare i resti dei primi ricordi di perdita: una nostalgia migrante. Questo fa sì che il bianco e nero non sia accogliente come la fotografia a colori; perché il colore si sforza di essere permanentemente nel qui e ora; la sua estetica è casuale, semplicistica e spesso superficiale, quindi si ripete incessantemente e alla fine rende l’immagine priva di significato. Non ci si può avvicinare al bianco e nero (in particolare alle immagini più avvincenti) in modo disordinato, non premeditato, casuale. Le immagini offrono un’immobilità vicina a una sorta di lutto, come se ci avvicinassimo a ciò che abbiamo già perso. Il poeta americano Charles Wright fa eco a questo sentimento nella poesia Cicada:

«Misuriamo ciò che non c’è.
Misuriamo il silenzio, misuriamo il vuoto».

In un certo senso queste immagini si avvicinano allo status di dipinti per la calma che portano in sé. Ma c’è una differenza qualitativa tra la calma dei dipinti e quella della fotografia in bianco e nero. La calma dei dipinti è continua, sempre presente, o meglio atemporale in virtù del fatto che si possono rintracciare le pennellate del pittore che rendono l’opera d’arte più immediatamente presente. Quella del bianco e nero è una sorta di negazione; il tempo si è fermato, tutto è abbandonato, la vita passata è andata avanti e va avanti continuamente; è la calma di chi è rimasto indietro.

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Ciò che si rivela oggi guardando queste immagini è che esse sono testimoni di noi e non il contrario. Come i passeggeri delle fotografie di tram urbani, filobus e carrozze a cavalli, essi fissano l’obiettivo della macchina fotografica con occhi sconcertati, portando con sé i loro desideri, la loro storia e il loro mondo mentre attraversano la nostra memoria.

Queste fotografie non ci offrono semplicemente un resoconto di com’era il luogo o di com’erano le persone allora, ma piuttosto lo sguardo delle immagini si rivolge a noi: siamo testimoni della nostalgia che ci accompagna nel nostro vedere – vedere ciò che il mondo è diventato intorno a noi e ciò che noi siamo diventati di conseguenza, e in questo diventare l’immensa e incommensurabile perdita di cui non siamo stati testimoni ci giunge attraverso un particolare lutto della memoria.

Guardando queste fotografie siamo già in lutto, non tanto per il dispiacere di un ricordo perduto o di una vita dimenticata: nessuna fotografia potrà mai recuperare un passato scomparso. Siamo in lutto perché le immagini rivendicano intensamente i nostri ricordi escludendoci, dicendoci che non facciamo più parte di ciò che è stato, che un mondo è morto e ci ha abbandonato e che, mentre ci risvegliamo dall’oblio, dalla dimenticanza e dall’indifferenza, noi stessi ci trasformiamo in ricordi.

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C’è una foto di una carrozza a cavalli sovraccarica fuori Porta San Pietro, lungo Viale San Concordio, in un giorno di pioggia del 1948, tre anni dopo la guerra. È appena visibile l’immagine di un uomo che cammina davanti alla carrozza accanto al cavallo, con l’ombrello in mano, mentre tutte le sue cose, tutto ciò che gli è caro, è dietro di lui sulla carrozza. Guardando questa particolare fotografia sperimentiamo la reale consistenza del tempo. Il tempo ci costringe ad andare avanti, più avanti; perché arriverà il momento in cui ci si dovrà separare per sempre da un certo luogo e non si potrà più tornare indietro. Ascoltate la voce del poeta palestinese Mahmoud Darwish:

«...possiamo vedere noi stessi trasformarsi in ricordi. Noi siamo questi ricordi. A partire da questo momento, ci ricorderemo l’un l’altro come ci ricorderemo di un mondo lontano che scompare in un blu più blu di quanto fosse prima. Ci separeremo nel passo della nostalgia».

(novembre 2023)

Tag: Carlo Rey Lacsamana, Luoghi e volti della Lucca di fine millennio, Piazza Bernardini, fotografie in bianco e nero.