Referendum istituzionale del 2 giugno
Un dramma poco conosciuto: quando l'Italia si mostrò matrigna verso i suoi stessi figli

Nella storia dei popoli e degli Stati esistono autentiche pietre miliari che hanno coinciso con fatti rivoluzionari non necessariamente violenti, ma destinati a proiettare i loro effetti nel lungo termine, spesso in maniera irreversibile. In Italia, tra gli eventi fondamentali del «secolo breve» che appartengono a questa tipologia essenziale si annovera il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, con cui venne proposta agli elettori la scelta fra il sistema monarchico e quello repubblicano.

L’afflusso alle urne raggiunse livelli oggi impensabili: quel giorno si votava anche per l’Assemblea Costituente, che avrebbe avuto il compito di redigere la nuova Carta fondamentale dello Stato, e si sperimentava per la prima volta il suffragio universale esteso alle donne in una consultazione di natura politica. È noto quale fu il risultato: la Repubblica prevalse per due milioni di suffragi, con uno scarto nell’ordine degli otto punti, e qualche giorno più tardi Umberto II di Savoia, il «Re di maggio» che aveva regnato un solo mese, lasciò l’Italia in aereo per un triste e solitario esilio in Portogallo, disattendendo non pochi inviti a resistere, almeno fino a quando non fossero stati sciolti diversi dubbi sul conteggio dei voti e, prima ancora, sulla legittimità del referendum.

La campagna elettorale si era svolta all’insegna di forti contrapposizioni e di un’antitesi ideologica che parve trovare un momento di pur incerto equilibrio nell’abdicazione di Vittorio Emanuele III a favore di Umberto, e nella sua partenza per l’Egitto. Tuttavia, sul voto pesarono parecchi dubbi destinati a sedimentare a lungo nella coscienza di molti Italiani, con particolare riguardo al fatto che troppi aventi diritto vennero esclusi dal voto: anzitutto, i prigionieri di guerra non ancora rientrati in patria, ed i cittadini di ben cinque province (Bolzano, Fiume, Gorizia, Pola, Trieste, Zara) sottoposte ad occupazioni straniere, con ovvie difficoltà di tenervi i comizi elettorali. Per di più, il documento che certificava il diritto al voto non venne recapitato a quasi un milione e mezzo di Italiani, sia per le naturali difficoltà del dopoguerra, sia per una serie di presunte o reali discriminazioni.

A conti fatti, il 10% degli elettori non ebbe modo di recarsi alle urne: cosa che nelle polemiche successive al voto avrebbe fornito un argomento di grande importanza ai paladini di Casa Savoia, visto che il numero degli esclusi, alla luce del risultato uscito dalla consultazione, fu tale da poter rovesciare almeno in teoria le sorti del referendum, non essendo azzardato presumere che un’ampia maggioranza dei non votanti avrebbe potuto esprimersi a favore della Monarchia: chi per onorare il vecchio giuramento di fedeltà, chi per fiducia in una maggior tutela dei vecchi confini nazionali, chi per un semplice timore del «salto nel buio». Del resto, non era forse vero che sin dallo scorcio finale dell’Ottocento un vecchio repubblicano di provata fede come Francesco Crispi aveva cambiato idea, votandosi alla causa della Monarchia in quanto garanzia di unità, mentre la Repubblica avrebbe potuto essere strumento di divisione?

La differenza, come emerge dalle fonti storiografiche di entrambe le parti, fu fatta dalle forze di Sinistra, compattamente schierate, non tanto per un’istituzione repubblicana sui cui caratteri fondamentali l’incertezza regnava sovrana, quanto per l’opposizione all’istituto monarchico, compromesso dalla tragica esperienza della guerra e della sconfitta militare.

Dal canto loro, le forze cattoliche, pur nell’assenza di una direttiva categorica, si orientarono in misura prevalente a favore della Repubblica, mentre la Monarchia avrebbe potuto contare sul suffragio dei liberali, politicamente significativo ma decisamente ridotto sul piano numerico.

I risultati del referendum dimostrarono che l’Italia, prima ancora che in chiave politica, era fortemente divisa anche geograficamente: il Mezzogiorno, con la sola eccezione della Sardegna, si espresse in senso favorevole a Casa Savoia, avendo rimosso ogni residua nostalgia pre-unitaria (tornata alla ribalta in tempi più recenti), mentre buona parte dell’Italia Centrale e tutto il Nord diedero maggioranze repubblicane, in taluni casi a carattere quasi plebiscitario.

Quest’ultima discrasia fornisce lo spunto per qualche ulteriore valutazione sul voto che non risulta sia stata sufficientemente approfondita dalla storiografia, con riferimento alle posizioni fasciste ed in particolare a quelle di coloro che avevano militato sotto le bandiere della Repubblica Sociale Italiana: piaccia o meno, la prima Repubblica nella storia unitaria dell’Italia moderna. Costoro, sia in base alle cifre di parte, tra cui quelle peraltro analitiche e documentate di Giorgio Pisanò, sia alla luce delle valutazioni più equidistanti, non potevano «perdonare» alla Monarchia il tradimento del 25 luglio 1943, quando il Re aveva fatto arrestare il Duce, e soprattutto quello dell’armistizio, seguito dall’ingloriosa fuga di Pescara con tanto di baruffe sul molo di Ortona tra i maggiorenti della Casa Reale e le alte gerarchie militari, allo scopo di potersi imbarcare sul Baionetta in partenza per Brindisi. Quindi, non è azzardato presumere che un’ampia maggioranza dei vecchi fascisti e dei rispettivi familiari abbiano votato per la Repubblica, in una convergenza con la Sinistra apparentemente paradossale.

Del resto, non c’è dubbio sul fatto che Vittorio Emanuele III, abbandonando la capitale, avesse rinunciato a qualsiasi opzione di carattere militare contro le forze armate tedesche, probabilmente in cambio di una copertura della fuga, tanto più utile dal loro punto di vista, in quanto consentiva di squalificare ulteriormente e definitivamente sia il Sovrano sia il suo Governo guidato da Pietro Badoglio. In questa ottica, non si è lontani dal vero quando si presume che il voto ex fascista del 2 giugno abbia dato un contributo di notevole importanza, visto lo scarto finale relativamente ridotto, nell’orientare il risultato in favore della Repubblica, a prescindere dai brogli del Governo De Gasperi di cui molto si è discusso, e soprattutto dal voto negato – a vario titolo – a quasi tre milioni di elettori (di recupero ovviamente impossibile, nonostante taluni surreali impegni politici assunti in tal senso, con quanta buona fede è facile immaginare).

Ciò significa che la Repubblica Italiana voluta dalla Resistenza è nata alla luce di un grande equivoco e di contraddizioni sostanziali destinate a protrarsi nel lungo termine, esercitando un’influenza compromissoria che avrebbe indotto effetti certamente significativi, dapprima sul fondamento originario dello Stato, e poi sulla gestione della cosa pubblica.

D’altra parte, la Monarchia aveva responsabilità storiche di vecchia data, i cui nodi erano venuti al pettine assieme a quelle più recenti: basti pensare alle tante repressioni dell’Ottocento successive all’Unità d’Italia, culminate nelle stragi di fine secolo quando i cannoni di Fiorenzo Bava Beccaris spararono sulla folla che aveva il grave torto di chiedere pane e lavoro, causa non ultima del regicidio di Monza (1900); per non dire della scelta di campo compiuta da Vittorio Emanuele III in occasione della Marcia su Roma, quando conferì a Benito Mussolini l’incarico di formare il nuovo Governo, salvo farlo arrestare vent’anni dopo con uno stratagemma, quando le sorti della guerra erano compromesse, sia pure in misura non ancora irreparabile, almeno dal punto di vista diplomatico. In realtà, quella del 1922 era stata un’opzione resa necessaria dalle condizioni politiche del momento, tali da compromettere l’ordine pubblico e la ripresa di uno Stato che usciva dalla durissima esperienza della Grande Guerra, ma nel 1947 assumeva i caratteri di un’ulteriore colpa decisiva.

A settant’anni dal referendum, il giudizio storico può aspirare ad essere formulato in maniera oggettiva, e possibilmente «senza amore e senza odio» secondo il magistrale auspicio di Tacito. Resi i dovuti onori a Vittorio Emanuele II, il «Padre della Patria» senza il cui apporto il Risorgimento non si sarebbe verosimilmente compiuto, per lo meno nei tempi e nei modi con cui la Nazione Italiana divenne uno Stato Unitario; ed anche quelli al «Re di maggio» per il modo dignitosamente civile con cui seppe gestire il trapasso dei poteri al di là dell’ovvia indisponibilità ad accettare un esautoramento certamente opinabile nell’ottica della Monarchia, si deve convenire sul fatto che la soluzione repubblicana era conforme al bisogno di voltare pagina, avvertito da un’ampia maggioranza trasversale, e di avviare una lunga ed impegnativa ricostruzione con rinnovata energia e con ritrovata fiducia nel futuro. Il successivo quindicennio, all’insegna di uno sviluppo economico assai rapido, anche se condizionato da tante sacche di arretratezza, ne avrebbe tratto conferme importanti.

Riprendendo il vecchio assunto del Presidente Crispi dapprima citato, Pompeo Biondi, ordinario di Dottrina Generale dello Stato all’Università di Firenze, dopo il referendum del 2 giugno ebbe ad affermare che la Monarchia poteva costituire una garanzia per il futuro, nell’ipotesi di qualche involuzione critica dell’istituto repubblicano, all’epoca non certo da escludere. Oggi, dopo diciassette legislature, quella riserva non ha motivo di sussistere, anche a prescindere dall’articolo 139 della Costituzione entrata in vigore all’inizio del 1948, secondo cui «la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». Del resto, gli eredi di Umberto II hanno rinunciato ufficialmente ad ogni ipotesi di velleitaria, o meglio, utopistica restaurazione, mentre la Repubblica ha rimosso il divieto d’ingresso sul territorio nazionale, contenuto nelle disposizioni transitorie della Costituzione medesima.

Al pari di tutte le cose umane, e di tanti Stati sovrani, la Repubblica si è costituita in un contesto di forti difficoltà caratterizzato da una consultazione popolare avvenuta tra forti tensioni, ma prive di apprezzabili violenze, che d’altra parte avevano contrassegnato gli anni precedenti in modo altamente drammatico. La conciliazione tra fautori dell’una e dell’altra forma istituzionale è ormai avvenuta per il sostanziale esaurimento di quelli a supporto della Monarchia, mentre la fine del contenzioso ideologico con la Repubblica Sociale Italiana costituisce tuttora una meta molto lontana: eppure, a settant’anni dai fatti sarebbe congruo e commendevole prendere atto delle ragioni etiche a cui uomini e donne della parte «sbagliata» restarono fedeli sino all’ultimo, lasciando una testimonianza di fede corroborata dall’impegno sul campo, che la Repubblica sorta dalla Resistenza farebbe bene ad approfondire, se non altro perché i voti ex fascisti del 2 giugno diedero un contributo difficilmente quantificabile ma certamente importante alla sua discussa vittoria.

(giugno 2016)

Tag: Carlo Cesare Montani, Italia, referendum istituzionale del 2 giugno, avvento della Repubblica, Assemblea Costituente, 2 giugno 1946, Umberto II di Savoia, Re di maggio, esilio in Portogallo, Vittorio Emanuele III, Monarchia e Repubblica, Francesco Crispi, Casa Savoia, Repubblica Sociale Italiana, Giorgio Pisanò, 25 luglio 1943, Pietro Badoglio, Governo De Gasperi, Repubblica Italiana, Monarchia, Resistenza, Pompeo Biondi, Costituzione.