Quindici anni dal Ricordo (2004-2019)
«Historia est lux veritatis»: riflessioni sulla storia del confine orientale italiano alla luce della Legge 30 marzo 2004 numero 92

Una celebre parabola evangelica ricorda che insieme al buon grano cresce sempre la zizzania; e nello stesso tempo, che bisogna evitare di estirparla prima del raccolto per non portare via anche il buon grano. Si tratta di un’esemplare metafora della vita e della storia, in cui il giusto e il buono trovano frequenti limiti nell’iniquità e nella cattiveria, esorcizzabili tramite un comune impegno contro le forze del male, peraltro non facile.

La Legge 30 marzo 2004 numero 92, che 15 anni orsono ha istituzionalizzato il Ricordo del grande Esodo giuliano e dalmata, delle Foibe e delle «complesse vicende del confine orientale»[1] non fa eccezione alla regola. Infatti, le sue disposizioni intendevano elidere una lacuna di colpevole oblio che per un sessantennio era stata stesa su quelle vicende per ragioni di bassa politica, sia interna che internazionale, e volevano promuovere una memoria corretta e consapevole: obiettivo nobile ma sostanzialmente mancato, tanto che un grande patriota istriano come Italo Gabrielli aveva potuto affermare che con quella legge si era posta una «pietra tombale» sulle attese e sulle speranze del mondo esule.

In sintesi, il provvedimento legislativo si era limitato a statuire tre adempimenti fondamentali: la ricorrenza civile del 10 febbraio, data del trattato di pace del 1947, quale «Giorno del Ricordo»; l’obbligo della commemorazione celebrativa, in primo luogo nelle scuole di ogni ordine e grado, con adeguate iniziative di documentazione e di formazione; la concessione di una Medaglia in «metallo vile» ai congiunti delle Vittime che ne avessero fatta richiesta. È facile comprendere che tali adempimenti intendevano contribuire a un’effettiva e rinnovata conoscenza della storia, a promuovere una giusta maturazione della coscienza nazionale, e a rammentare – non soltanto agli ignari – una tragedia davvero agghiacciante, con un gesto di «pietas» sia pure tardiva e quindi, a più forte ragione, doverosa[2].

Avere istituito il «Ricordo» dimostra, già nella denominazione, che si è optato per una scelta a favore prevalente del sentimento, onde coltivare «immagini, nozioni e avvenimenti nell’animo dei posteri» (Il Vocabolario Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2003, pagina 1.477). Ciò, diversamente dalla «Memoria» che presume – come nel caso dell’Olocausto – un prevalente impegno volitivo, con la capacità razionale di fare riferimento al passato quale fenomeno «ancora vivo e operante» in chiave deontologica, se non anche prescrittiva in senso etico-politico (Ibidem, pag. 990).

La Legge 92, secondo la prassi comune a ogni promulgazione e conseguente pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, istituisce il naturale «obbligo di rispettarla e di farla rispettare», pur essendo sfornita di sanzioni nel caso di inosservanza: ipotesi che il legislatore aveva ritenuto accademica, ma la cui esigenza funzionale si è rivelata realistica. Infatti, in molte scuole, e persino in talune Università, si è registrato un pervicace rifiuto di onorare la legge, motivandolo con una malintesa libertà d’insegnamento, e senza tener conto di quella – a essa parallela – di informazione e di apprendimento; quanto alle Medaglie, a fronte di almeno 20.000 Vittime infoibate o diversamente massacrate dai partigiani di Tito, i conferimenti avvenuti in 15 anni hanno superato di poco il migliaio, sia per la scarsa divulgazione della normativa da parte di soggetti associativi che ne avrebbero avuto idoneità e competenze, sia per la scomparsa di gran parte degli aventi causa, e per il mancato riconoscimento della facoltà di proporre domanda da parte dei Comuni di nascita dei Caduti, ipotizzata in sede politica[3].

Per completezza d’informazione, va aggiunto che talune organizzazioni partigiane, ben lungi dal perseguire l’auspicata politica di riconciliazione nazionale, si sono pervicacemente opposte alle celebrazioni, organizzando iniziative negazioniste di forte dissenso, talvolta in triste sintonia con qualche Amministrazione comunale; in alcuni casi, anche a proposito delle Medaglie e dei relativi Attestati del Capo dello Stato, che a loro giudizio sarebbero stati concessi a criminali di guerra (!) perseverando nell’antico paralogismo che condannava gli Esuli – e tutti coloro che avevano avuto la sola «colpa» di amare la Patria e di onorare il proprio dovere – quale espressione del vecchio regime; e nello stesso tempo, evitando di dissociarsi dalle vergognose accoglienze riservate ai profughi in tanti capoluoghi, quali Ancona, Bologna, Genova e Venezia, i cui particolari, anche per quanto riguarda la determinante connivenza del Partito Comunista Italiano, sono documentati nella storiografia dell’Esodo[4].

Eppure, il popolo giuliano e dalmata aveva pagato il prezzo di gran lunga più elevato della guerra anche nel computo proporzionale delle Vittime civili, e non aveva avuto dubbi nell’affrontare la drammatica diaspora nei 110 campi di raccolta, ovvero nell’emigrazione, pur di non accettare l’ateismo di Stato, la collettivizzazione forzata e il rischio atroce delle foibe o degli altri massacri tragicamente dimostrato dai fatti, e confermato in tempi successivi dalla ricerca storica, anche per quanto si riferisce al numero dei Martiri soppressi dai partigiani slavi di Tito e dai loro corifei italiani.

C’è di più. Come il Professor Gabrielli aveva sottolineato quale motivazione del suo assunto circa la «pietra tombale» sulle speranze giuliane, istriane e dalmate, molte attese degli Esuli vennero colpevolmente archiviate, comprese quelle che non avrebbero avuto alcun costo per la finanza dello Stato, da sempre tanto precaria da non potervi trovare spazio, se non con qualche miserevole e offensivo stillicidio, gli interventi di risarcimento per i beni perduti, con cui – è bene rammentarlo – l’Italia aveva pagato i danni di guerra alla Jugoslavia[5].

Al riguardo, è congruo citare qualche esempio probante, onde sottolineare che l’ostracismo non è stato determinato dalla presunta mancanza di mezzi, come talvolta si usa ripetere, bensì da quella di una volontà politica orientata in tutt’altra direzione, contro i canoni oggettivi di giustizia.

– Non si è voluto rendere effettivamente operativa la Legge 15 febbraio 1989 numero 54, recante norme sulla compilazione dei documenti di cittadini italiani nati prima del 15 settembre 1947 (data del trasferimento di sovranità) nei territori perduti a seguito del trattato di pace, in guisa da omettere l’erronea e offensiva indicazione dello Stato subentrante: legge parimenti sfornita di sanzioni, e rimasta sulla carta nonostante il richiamo di svariate circolari ministeriali.

– Non si è voluto elidere il riconoscimento dei benefici previdenziali a favore di chi avesse militato nelle formazioni partigiane slave, con particolare riferimento a taluni noti assassini, e con l’aggravante incostituzionale di una reversibilità integrale, in luogo di quella, pari a tre quinti, riservata ai comuni cittadini italiani.

– Non si sono voluti aggiornare con opportune revisioni i testi di storia per le scuole in senso conforme alla realtà effettuale, evitando la formulazione di errori anche macroscopici come quello secondo cui l’Italia avrebbe «restituito» alla Jugoslavia i territori acquisiti dopo la Grande Guerra, a larghissima maggioranza italofona soprattutto nelle città: affermazione infondata, anche a prescindere dalla cultura e dalla storia, perché la Repubblica Federativa non era mai esistita, essendo sorta sulle ceneri dell’Impero Asburgico ed essendo state disattese a suo esclusivo favore le garanzie che gli Alleati dell’Intesa avevano offerto all’Italia col Patto di Londra del 26 aprile 1915.

– Non si sono voluti promuovere accordi di buona vicinanza con adeguati apporti di volontariato per la conservazione dei sepolcri e dei monumenti italiani nelle centinaia di cimiteri rimasti oltre confine, mentre si era colpevolmente consentito che venissero manomessi o espunti, in arbitraria deroga alle consuetudini e alla normale «pietas» nei confronti dei Morti, accettando l’introduzione di ignobili balzelli a carico di Esuli generalmente ignari.

– Non si è voluto consegnare la Medaglia d’Oro al Valor Militare che il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi aveva conferito nel 2001 alla città di Zara. Ciò, con l’ennesima genuflessione nei confronti della ex Jugoslavia, e nel caso specifico, di una Croazia pur progressivamente affrancatasi dalle residue suggestioni del veterocomunismo: al contrario, si è preferito rinviare il tutto a tempi indefiniti, e quel che è peggio, dopo interventi offensivamente antistorici sulle motivazioni.

Come accennato in premessa, si deve aggiungere che, oltre al «Ricordo» dell’Esodo e delle Foibe, tragedie apicali nella storia italiana del Novecento, la legge istitutiva propone quello riferibile alle «complesse vicende del confine orientale». Ebbene, anche a tale riguardo non è possibile esimersi dal constatare come gli stessi eventi più significativi di questa storia siano rimasti assai lontani da un efficace approfondimento critico alla luce dei canoni essenziali di oggettività e di giustizia: ciò, con riguardo prioritario al Trattato di pace del 1947, agli Accordi di Osimo del 1975 e ai riconoscimenti «gratuiti» delle nuove Repubbliche di Slovenia e Croazia dopo il disfacimento della ex Jugoslavia (diversamente dalla prassi assunta da altri Stati Europei) con cui si assunse una linea di sostanziale acquiescenza che, se poteva essere comprensibile – ma non giustificabile – negli anni del dopoguerra, era diventata inaccettabile dopo la ricostruzione e il successivo sviluppo socio-economico italiano.

La storia di Venezia Giulia e Dalmazia è fatta di grandi drammi individuali e collettivi, ma nello stesso tempo, di una notevole serie di occasioni perdute, su cui si è preferito stendere una coltre di silenzio: fra le tante, quella occorsa all’inizio degli anni Novanta, quando sarebbe stato possibile riaprire la questione dei confini in chiave diplomatica e politica, al pari di quanto accadde in Germania con la straordinaria opportunità della riunificazione: una «chance» irripetibile in Italia, che la maggioranza governativa non volle cogliere, escludendola a priori da ogni possibile opzione, e che finora non è stata sufficientemente approfondita nemmeno in sede storiografica, quasi a voler evitare un argomento non proprio edificante[6].

Con felice sintesi, l’Ambasciatore Gianfranco Giorgolo, Esule da Veglia, ha ricordato come l’Italia sia sempre «maestra nel fare gli interessi degli altri». Si potrebbe aggiungere che è molto brava nel farsi carico di gratuite umiliazioni senza che il proprio danno, corrispondendo ad apprezzabili vantaggi altrui, venga utilizzato in sede diplomatica per qualche concessione di minore impatto. L’immagine dantesca della «serva Italia, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie ma bordello» (Divina Commedia, Purgatorio, canto sesto, 76-78) continua a imporsi per la sua evidente, icastica attualità[7].

In questa ottica, la parabola evangelica della zizzania, di cui si diceva inizialmente, trova ulteriori motivi di condivisione in quanto metafora idonea a fornire spunti di utile applicabilità anche al caso specifico, perché contiene un riferimento conclusivo e decisivo al momento del raccolto, quando bisogna procedere alla separazione dell’erba cattiva dal buon grano, onde affastellarla e bruciarla, in aderenza al permanente assunto di Monsignor Antonio Santin, l’eroico Vescovo di Trieste e Capodistria, secondo cui «le vie dell’iniquità non possono essere eterne». A patto che non venga meno, per dirla con Benedetto Croce, la «forza inventrice della volontà capace di spostare grandemente la linea del possibile».

Le celebrazioni del 15° anniversario non hanno contraddetto in maniera significativa quanto evidenziato circa i caratteri della ricorrenza, e soprattutto, talune permanenti carenze nelle opzioni d’intervento, anche se in linea formale non sono mancati spunti innovativi di maggiore, doverosa attenzione nei confronti del dramma giuliano, istriano e dalmata, che giova sottolineare a margine del Ricordo.

In questo senso, taluni segnali di particolare visibilità sono venuti dal Quirinale, dove la cerimonia di massimo livello ha fatto ritorno dopo parecchi anni di assenza e dove l’allocuzione del Presidente Sergio Mattarella non ha fatto sconti, sottolineando che il comportamento slavo-comunista nei confronti degli Italiani fu dovuto a motivazioni prioritarie di «odio etnico e ideologico» improntate a una coriacea e immotivata «aggressività» tanto da spingere all’Esodo la stragrande maggioranza di quanti vennero costretti a subire «il braccio violento del regime». Cosa che – secondo il Capo dello Stato – consente, a più forte ragione, di definire «ingiustificabile cortina di silenzio» l’ostracismo manifestato nei confronti degli Esuli e delle Vittime da parte dei poteri pubblici e della stessa storiografia di riferimento; per non dire delle opinabili accoglienze che i profughi subirono in diverse città italiane, non senza doloroso e stupefatto sconcerto.

Vale la pena di aggiungere che ulteriori spunti innovativi sono venuti, sempre dal Quirinale, con il richiamo del Professor Giuseppe Parlato all’identità culturale italiana di Venezia Giulia e Dalmazia e alla sua premessa latina e veneta; e con l’omaggio che il Ministro per gli Affari Esteri Enzo Moavero Milanesi ha rivolto a tutto il mondo esule, non senza un impegno contro la rimozione di quella tragedia, rivolto a narrare i fatti ma soprattutto a risolvere i problemi. Ciò, per non dire della toccante consegna dei riconoscimenti di cui all’articolo 3 della Legge istitutiva, effettuata in prima persona dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, con significativa innovazione alla prassi dell’ultimo decennio (affidata ai Sottosegretari di turno) e con parole di circostanza nei confronti di ogni avente causa.

Non meno importanti sono stati i contenuti e gli accenti della cerimonia tenutasi presso il Sacrario nazionale della Foiba di Basovizza, sul Carso Triestino: da una parte, nell’omelia dell’Arcivescovo Monsignor Giampaolo Crepaldi, con un vibrante invito a ritrovare le vie di un’autentica pace cristiana nella Verità, nella Giustizia, nell’Amore e nella Libertà; e dall’altra, nell’intervento del Ministro per gli Affari Interni, Matteo Salvini, quando ha affermato che ai Martiri delle Foibe competono la stessa dignità e gli stessi diritti morali spettanti a quelli dell’Olocausto, senza la benché minima riserva avversativa, dubitativa o giustificazionista. Interventi altrettanto degni di nota sono stati, sempre a Basovizza, quelli del Sindaco Roberto Dipiazza, che ha esortato l’intero popolo italiano a portare il dovuto rispetto incondizionato agli Esuli, in nome delle loro sofferenze; del Sottosegretario Benedetto Della Vedova, soffermatosi sulla violazione dei diritti umani perpetrata dalle milizie di Tito a danno precipuo degli Italiani di Venezia Giulia e Dalmazia; e soprattutto, di Antonio Tajani, Presidente del Parlamento Europeo, che ha inneggiato alla tradizionale dignità dei Giuliano-Dalmati e all’italianità delle loro terre, provocando un’ingiustificata reazione da parte dei vertici politici e istituzionali di Slovenia e Croazia[8].

Una terza manifestazione di alto impatto etico e culturale è stata quella svoltasi a Gorizia con la prolusione di Luca Urizio, Presidente della Lega Nazionale, che ha dato notizia delle iniziative riguardanti la ricerca di ulteriori Vittime del comunismo di frontiera, e della scopertura di un nuovo monumento in memoria delle stesse, programmata nel breve termine; senza dire dell’intervento con cui il Professor Stefano Zecchi è stato assai puntuale nel sottolineare l’opportunità che le commemorazioni delle Foibe, nonché dell’Esodo e delle «vicende del confine orientale» – quest’ultime sinora alquanto trascurate – vengano integrate e completate da iniziative concrete, senza le quali sussiste il rischio della ritualità ripetitiva, se non anche dell’estinzione: memento quanto mai utile in un contesto socio-politico come quello contemporaneo, governato dalla comunicazione veloce e transeunte, anziché dalla filosofia dell’«ethos», confinando gli impegni di cui alla Legge istitutiva del «Ricordo» alle celebrazioni di un solo giorno, con effetti non dissimili da quelli dell’acqua sui tetti.

Conviene aggiungere che il 10 febbraio è stato oggetto di numerose iniziative tenutesi in tanti altri Comuni Italiani, tra cui è congruo ricordare, a titolo simbolico, quello di Cascina (Pisa) dove l’Amministrazione cittadina ha annunciato in un apposito convegno tre prossime intitolazioni della toponomastica locale, dedicate rispettivamente ai Martiri delle Foibe, agli Esuli Giuliani e Dalmati, e a Norma Cossetto: segno di commendevole sensibilità – alla stregua di quanto si diceva in premessa – nello spirito di una Memoria in cui non sia presente il mero sentimento, ma che proponga, come da invito di Zecchi, un impegno non solo formale, ma prima ancora volitivo, e con esso, iniziative destinate alla riflessione; e per quanto possibile, a lasciare nel solco della storia giuliana, istriana e dalmata, un buon seme destinato a germogliare in misura rigogliosa.


Note

1 La Legge istitutiva del «Ricordo» – primo proponente l’Onorevole Roberto Menia – venne approvata alla Camera dei Deputati con 15 voti contrari, espressione dell’Estrema Sinistra e più specificamente del gruppo parlamentare di Rifondazione Comunista, mentre al Senato non si registrarono dissensi. Nonostante questa maggioranza praticamente unanime, le sue iniziative sono state oggetto di un costante ostracismo nell’ambito extraparlamentare, in specie da parte dell’ANPI (Associazione Nazionale dei Partigiani Italiani) e dei Centri sociali.

2 Tra le iniziative realizzate a seguito della nuova legislazione per il «Ricordo» è congruo evidenziare l’incremento quasi esponenziale avutosi in sede toponomastica e memorialistica: oggi sono almeno 650 le Amministrazioni comunali, non soltanto italiane, che hanno ricordato Martiri e Caduti di Venezia Giulia e Dalmazia, sia con l’intitolazione di luoghi pubblici, sia con monumenti commemorativi e lapidi. Nel giro di un quindicennio tali memorie si sono accresciute di circa 12 volte.

3 Un contributo di notevole importanza è stato promosso, nella crescente carenza di altri apporti, dall’Associazione Nazionale dei Congiunti di Deportati dispersi in Jugoslavia, che ha reso possibile il conferimento di parecchie onorificenze nonostante il tempo trascorso e le naturali difficoltà di reperire gli interessati. Non ha avuto seguito, invece, la proposta di estendere ai Comuni la facoltà di promuovere domanda dei riconoscimenti di legge, formulata dal gruppo parlamentare di Fratelli d’Italia.

4 Nell’ambito di una bibliografia dall’eccezionale ampiezza, per un’ampia sintesi di Esodo e Foibe con molti dettagli inediti e spesso agghiaccianti, confronta Padre Flaminio Rocchi, L’Esodo dei 350.000 Giuliani Fiumani e Dalmati, quarta edizione, Difesa Adriatica, Roma 1998, 716 pagine. Una silloge esaustiva, anche per il corredo bibliografico, è quella di Raoul Pupo, Il lungo Esodo, terza edizione, Rizzoli, Milano 2005, 334 pagine. Per un elenco analitico e nominativo di Vittime, e per la vicenda specifica del genocidio, confronta Luigi Papo, Albo d’Oro: La Venezia Giulia e la Dalmazia nell’ultimo conflitto mondiale, Unione degli Istriani, seconda edizione, Trieste 1989, 760 pagine; e dello stesso Autore, L’Istria e le sue Foibe, 2 volumi, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 1999, 572 pagine.

5 Confronta Italo Gabrielli, Istria Fiume Dalmazia: Diritti negati – Genocidio programmato, Luglio Editore, seconda edizione, Trieste 2017, 168 pagine (esaustiva sintesi della tragedia di un intero popolo, sia nell’ottica etico-politica che in quella giuridica).

6 Autori Vari, Una Patria, una Nazione, un Popolo, Herald Editore, Roma 2011, 356 pagine. Per la questione dei confini e dell’occasione perduta all’inizio degli anni Novanta, si veda più specificamente il saggio di Pietro Cappellari, dove si fa riferimento, fra l’altro, agli incontri italo-serbi del 1991 e all’episodio dei volantini irredentisti lanciati nelle acque di Capodistria durante l’anno successivo (Ibidem, pagine 121-122).

7 Per citare un solo esempio della propensione servile da parte italiana, basti ricordare la lettera di Palmiro Togliatti a Vincenzo Bianco (1944) in cui il segretario del Partito Comunista Italiano affermava doversi «favorire in tutti i modi l’occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del Maresciallo Tito» aggiungendo che «quanta più parte dell’Italia sarà sotto il regime di Tito, tanta più parte dell’Italia vivrà libera» (confronta Vincenzo Carella, I discorsi di Togliatti, in «Libero», 10 febbraio 2019, pagina 7).

8 Nelle dichiarazioni di protesta si sono distinti, in primo luogo, i Presidenti delle Repubbliche di Slovenia e Croazia nelle persone di Boris Pahor e di Kolinda Grabar-Kitarovic, cui hanno fatto eco diversi esponenti politici dei due Paesi. In realtà, il Presidente del Parlamento Europeo non aveva fatto altro che richiamarsi alle tradizioni storiche, senza alcuna illazione revanscista, come è stato chiarito, sia pure in un’ottica pleonastica, successivamente ai fatti; in altri termini, Lubiana e Zagabria hanno manifestato l’esistenza di un permanente nervo scoperto nelle relazioni con l’Italia, e nella fattispecie, anche in quelle con l’Europa.

(marzo 2019)

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